Noi e i lemuri - Parte prima

Mare d’incanto, paesaggi da togliere il fiato, natura primordiale, gente ospitale, ma soprattutto… tanti nuovi amici pelosi!

Da anni il Madagascar era in programma: racconti di viaggiatori, documentari, qualche libro, sono i fattori che ci avevano fatto nascere il desiderio, ma per un motivo o per un altro il progetto era sempre rimasto nient’altro che un’idea.
Poi a dicembre, in agenzia, la svolta: trovo i voli per il Madagascar via Mauritius a un prezzo interessante e li opziono. E’ infatti piuttosto complesso e costoso ad agosto raggiungere il paese sui cui volano pochissime compagnie aeree e i cui voli, oltre a essere cari, sono anche sempre esauriti da t.o. e agenzie.
Non amo organizzare con troppo anticipo perciò solo verso maggio, una volta stabilito in linea di massima il programma di visita, acquisto tramite last minute un volo interno Air Madagascar per Fort Dauphin, da cui decidiamo di partire alla scoperta di questo paese. Poi imprevisti di famiglia mettono in dubbio l’effettiva partenza fino a pochi giorni dal volo e perciò ho solo il tempo di fissare un hotel per la sera dell’arrivo a Tana, la capitale, e per contattare, senza ottenere risposta per tempo, un hotel e un’agenzia a FD.5/8/2007
Inizia così la nostra avventura malgascia e Ivo, mio marito, Tiziana, mia compagna di tanti viaggi, ed io, partiamo nel pomeriggio da Malpensa con prima destinazione Mauritius, dove ci aspetta una lunga sosta.

6/8/2007
Sbrigate le formalità di immigrazione, ci informiamo all’ufficio del turismo, collocato all’interno della zona arrivi, su cosa sia possibile visitare nei dintorni. Ci viene consigliata una capatina al vicino mercato di Mahéburg con il suggerimento di passare il resto della giornata sulla spiaggia più prossima: entrambe le mete sono raggiungibili con autobus, ma visto che il tempo è incerto, con densi nuvoloni che non lasciano passare spiragli di sole, decidiamo di affittare una vettura per la giornata e girare in libertà. Di Mauritius ricordo immensi stupefacenti campi di canna da zucchero, segnaletiche stradali che lungo la strada improvvisamente scompaiono lasciandoti grossi dubbi circa la tua posizione e l’effettiva esistenza della tua meta, una capitale moderna e piuttosto caotica ma non particolarmente attraente neanche nella zona prospiciente il mare, l’ottimo tè alla vaniglia che ti viene servito ovunque. Verso sera ci ripresentiamo in aeroporto per il nostro volo Maurice-Antananarivo (anche chiamata Tana) che parte e arriva puntualmente.
Un addetto dell’hotel ci attende e ci affida al titolare di una piccola agenzia che ci accompagna all’ufficio cambio dell’aeroporto (il miglior cambio effettuato in tutto il viaggio) e che nel breve tragitto verso il Manoir Rouge, hotel prescelto nella cittadina di Ivato, la più prossima all’aeroporto, ci illustra le sue possibilità di intervento nell’organizzazione dei giorni a venire.
L’hotel (circa 15 euro la tripla) si presenta come un’osteria della campagna francese, con tanto di caminetto acceso e tasso alcolico degli avventori elevato, ma noi ci tratteniamo giusto il tempo di ottenere la chiave e ci fiondiamo a dormire, dopo le tante ore di viaggio, nella stanza messa a nostra disposizione.

7/8/2007
L’addetto dell’agenzia è in ritardo. Al suo arrivo decidiamo rapidamente di accettare la sua proposta di assistenza con una vettura a Fort Dauphin per effettuare la traversata del sud e di un’altra a Morondava per l’escursione al Parco Nazionale degli Tsingy. La nostra situazione di assoluta precarietà non ci permette di contrattare e decidiamo di accettare l’accordo in cambio della certezza dei trasferimenti di tutto il soggiorno. Concludiamo la trattativa con una vera e propria corsa in agenzia Air Mad a comprare i biglietti per i voli che ci consentiranno di portare a termine il nostro tour entro il giorno 25/8, data prevista per il rientro. Purtroppo non troviamo posto sul volo Morondava-Tana per il 24/8 e prenotiamo per il 25, facendo saltare quindi la visita della capitale. Non era tra le nostre priorità ma ci dispiace perderci i suoi mercati in cui contavamo di dedicarci a una delle nostre attività preferite: lo shopping sfrenato da vacanza. Pazienza: (parecchi) soldi risparmiati.
A viaggio effettuato posso dire che la scelta del t.o. a Tana è stata la soluzione ideale e per noi ottimale, visto che ci ha liberato da ulteriori ricerche e trattative. Programmando il viaggio con anticipo, è però sicuramente meglio rivolgersi di volta in volta ad agenzie della regione stessa che si visita, sia per i costi che per le capacità logistiche degli autisti.
Saggiamo per la prima volta quelli che sono i normali ritardi dei voli interni Air Mad ed arriviamo a Fort Dauphin, dopo lo scalo a Tuléar, con un’ora di ritardo, verso le 15. Già dalla pista, significativamente abbellita da un tratto di arcobaleno, prendiamo contatto con un ragazzo che regge il cartello dell’hotel presso il quale avevamo cercato di prenotare, il Lavasoa, e gli chiediamo di aspettarci. La faccenda del ritiro bagagli è infatti cosa lunga: non vengono messi a disposizione dei passeggeri ma vengono “chiamati” tipo tombola e consegnati previa presentazione del talloncino, uno a uno. Naturalmente i nostri sono sul terzo e ultimo carrello: io attendo pazientemente in un angolo dedicandomi alla lettura del gratuito giornale locale trilingue (francese, inglese e malgascio, nell’ordine) dove campeggia il titolo “La sifilide spaventa Fort Dauphin. Il tasso dei malati aumenta! Il 30% degli abitanti sotto contagio”: decisamente inquietante ma mi pare un ottimo tentativo di bloccare la piaga del turismo sessuale che purtroppo in Madagascar ha una delle sue basi.
Intanto Petit Jean, il tassista, consapevole della lunga trafila, ci attende insieme ad altri addetti agli hotel: non si tratta di stipendiati ma di tassisti indipendenti che si accordano con gli hotel, in base alle stanze disponibili, per procacciare clientela. Ottima iniziativa, per noi, che una volta ottenuti gli zaini, per 21.000 Ar (10 euro) veniamo condotti attraverso la città (parola grossa!) fino alla penisola su cui sorge l’hotel, un insieme di bungalow in legno affacciati sulla spiaggia di Libanona. Già la vista delle montagne a ridosso di Fort Dauphin mi aveva entusiasmato per colori, scenografia, natura; l’arcobaleno e i giochi del sole tra le nubi che scorrevano velocissime nel cielo mi avevano conquistato: alla vista del nostro bungalow, decido che Fort Dauphin è meravigliosa. Ne scegliamo uno con soppalco, dove trova posto Tiziana, che ci costa meno di 50 euro in tre e dopo esserci “sistemati” attendiamo pazientemente il tramonto (verso le 18-18,30) sulla nostra veranda, cullati dal rumore della risacca e ascoltando gli uccellini che abitano la fitta vegetazione che ci circonda.
L’hotel è un po’ distante dal centro (a occhio, 15 minuti a piedi sulla strada sabbiosa che porta a questa penisola sull’oceano) ma a duecento metri dal ristorante Chez Georges, collocato direttamente sulla spiaggia di Libanona e raggiungibile dai bungalow tramite un sentierino e con l’ausilio di una torcia per il rientro. Si tratta tra l’altro del ristorante che avevamo scelto, viste le descrizioni entusiastiche trovate, e alle 19 siamo già seduti a testarne l’attendibilità: esame passato a pieni voti. Le cene da Chez Georges sono ottime (tanto che non cercheremo altri ristoranti per tutto il soggiorno), anche se pare che in questi giorni sia difficile reperire il pesce e non c’è possibilità di scelta: comunque ogni piatto “obbligato” (granchio ripieno, insalata di polpo o gamberetti, aragostine alla griglia, filetto o zuppette di pesce, e anche i dolci) è stato squisito quindi direi che la penuria ittica non ha comportato svantaggi per noi. La serata si conclude con una splendida, meravigliosa stellata australe.

8/8/2007
Non si può dire che si perda tempo, nello svolgimento di questo viaggio: durante il tragitto in taxi all’hotel, avevamo preso accordi con Petit Jean per l’escursione di oggi. Per 25 euro a persona, partenza alle 6, abbiamo prenotato la gita a Evatra e alla penisola di Lokaro. Ci sono tre modi di raggiungerla: in fuori strada, in barca a motore e in piroga a remi. Scegliamo la terza via: non è sicuramente il metodo più comodo e andando con la barca a motore resta più tempo per gironzolare sulla penisola. A noi però piace l’idea della totale tranquillità dello sciabordio dei remi e l’approccio soft alla gita. Molto soft, in effetti.
Dalle due ore di viaggio che ci erano state pronosticate, si passa alle quattro effettive a causa di un fastidioso vento contrario, e anche al ritorno i tempi sono molto più lunghi del previsto. In cambio abbiamo tutto il tempo di gustarci con calma gli splendidi panorami dei canali e dei tre laghi che attraversiamo, oltre al fatto che la nostra scelta dà da vivere a una categoria di lavoratori, i proprietari di piroga e i vogatori, destinati a scomparire. Quando poi la corrente si fa particolarmente fastidiosa, ci chiedono di coprire un breve tratto a piedi, passando per le fertili terre che si frappongono tra i laghi e l’oceano.
Osserviamo le capanne di una piccola comunità che vive qui, dedicandosi alla pesca e all’agricoltura, in pressoché totale isolamento. La nostra guida ci spiega che purtroppo il nutrito gruppo di bambini che vediamo, non ha neanche una scuola da frequentare e pertanto scarsissime possibilità di miglioramento nella qualità di vita anche per i futuro. Ci racconta anche come tutta la regione rischia di subire modifiche irreversibili a causa dello sfruttamento minerario che una società canadese sta portando avanti da tempo. In città, stanno costruendo un nuovo porto: in cambio Fort Dauphin avrà un nuovo sistema di strade lastricate. Nella laguna, stanno invece costruendo una diga per evitare che l’acqua di mare risalga verso le postazioni che hanno creato per il lavaggio del minerale. Il sale infatti ostacola questa operazione. Ma la diga comporta anche una grossa modifica negli equilibri della vita di questo delicato ambiente. E ne abbiamo un’ulteriore conferma al fragoroso e inquietante esplodere di una mina, momento in cui ci rendiamo conto che le speranze di vedere uno dei pochi coccodrilli che ha eletto questo a proprio habitat, sono solo pie illusioni. Tra il baccano dei motoscafi e le operazioni dei minatori, i coccodrilli, e chissà quanti altri animali della zona, devono aver già fatto i bagagli da tempo.
Arriviamo finalmente a Evatra. La laguna si restringe fino a lambire con la sua punta la bianca spiaggia che dà sull’oceano e noi sbarchiamo in corrispondenza di un piccolo hotel (altra parola grossa!) con spazio per le tende e bungalow spartani. E’ qui che i nostri canoisti prepareranno il nostro pranzo mentre noi ci dedichiamo all’esplorazione di questa piccola porzione di penisola. Si attraversa il villaggio di povere capanne, si passa di fianco alla sede di un’associazione umanitaria di volontari che si occupano dello sviluppo della zona e che ha costruito un bella scuola, e ci si inoltra nella campagna. La passeggiata è breve e poco impegnativa: si supera il crinale e immediatamente si apre davanti a noi lo spettacolo del verde della costa e dell’azzurro dell’oceano; delle tante calette, delle spiagge abbaglianti, del mare impetuoso che trova requie solo in qualche rada isolata. Qua e là una palma dà tridimensionalità al paesaggio e un badamier, albero della famiglia dei mandorli, aggiunge uno strepitoso tocco di rosso.
Scendiamo alla prima spiaggia di fronte a noi, quella chiamata “degli innamorati” (che fantasia!): una mezza luna candida in fondo a una insenatura protetta dalla forza dell’oceano, circondata da rigogliosa vegetazione (dove avvistiamo un folto gruppo di nepenta, le piante carnivore) e una piccola scogliera: ne approfittiamo per una sosta e un bagno. L’acqua è freddina all’impatto ma gradevole una volta abituati. E galleggiare placidamente osservando lo scenario alle spalle della spiaggia è un’esperienza da non perdere, soprattutto per chi ama l’acqua quanto me.
Neanche un’ora tra bagno e relax sulla sabbia e già è il momento di iniziare il rientro.
E lo spettacolo ha inizio di nuovo: si cammina su una enorme scogliera piana di granito, costellata da qualche formazione rocciosa ravvivata da palmette, agavi e piante grasse che trovano chissà dove la terra necessaria per attecchire. L’acqua non manca, come testimoniano le tante pozze e piscine scavate nel granito. Qualche grossa lucertola osserva incuriosita il nostro passare. Lentamente si risale e si raggiunge nuovamente il verde della collina per poi ridiscendere ad un’altra spiaggia su cui due uccelli bianchi saggiano la propria aerodinamicità nel vento dell’oceano aperto. Meriterebbe una sosta anche questo splendido luogo di pace assoluta, ma ricominciamo la salita verso un punto panoramico d’eccezione da dove ci è permesso abbracciare con un solo sguardo una caletta sottostante, il villaggio di Evatra affacciato sull’oceano e sulla laguna, la lunghissima spiaggia e l’interno verdeggiante. Altissime palme svettano sulle abitazioni e riconosco che questo è di gran lunga il punto più bello che abbia visto finora.
La discesa è rapida e all’ingresso dell’abitato veniamo presi d’assalto dai bambini che chiedono soldi e caramelle: ritornello che ci accompagnerà per tutto il viaggio.
Pranzo nel “resort” a base di ottimo pesce freschissimo e rientro alla base con ausilio di vela: cioè due sacchi da riso cuciti insieme. Insomma, invece di metterci 4 ore, al ritorno ce ne mettiamo un po’ più di tre, anche perché quando il vento diventa più sostenuto, bisogna di corsa disalberare per evitare di ribaltarsi. Diventiamo anche oggetto dello scherno di un nutrito gruppo di italiani (idioti) in barca a motore, ma una volta allontanatisi, torniamo a goderci la quiete del canale, lo sciabordio delle pagaie e le risate contagiose di uno dei rematori. Quanto meno fino a quando non esplode una mina alla cava.
Rientriamo in hotel soddisfatti ma piuttosto provati dalla giornata: soprattutto per la posizione costretta delle gambe ma anche per il sole, che ha brillato senza requie per tutto il giorno.
Cena veloce da Georges, doccia e nanna. Abbiamo già capito che qui bisogna adattarsi agli orari di alba e tramonto e raramente ci capiterà nell’arco del viaggio di ritirarci più tardi delle dieci di sera.

9/8/2007
Decidiamo per una giornata di relax. Meta odierna, la Riserva di Nahampoana, a pochi chilometri dalla città, con lo scopo di entrare finalmente in contatto con l’animale più rappresentativo del paese: il lemure. Petit Jean passa a prenderci verso le 10, facciamo i biglietti all’ufficio della FD Travel e raggiungiamo l’ingresso del parco dove ci sono in attesa le guide addette alla visita, che si compone di passeggiata lungo il viale d’accesso con indicazione delle varie piante e visita alla vasca dei coccodrilli; raggiungimento della zona bungalow e del ristorante, dove veniamo accolti da due nutriti gruppi di lemuri, i sifaka e i catta dalla coda ad anelli; continuazione della visita per conoscere le tante piante endemiche del paese, con sosta alla gabbia dei camaleonti e poi partenza per il giro del piccolo fiume che delimita il parco con avvistamento di altri catta ma del tipo marrone.
Pranzo a base di baguette imbottite al ristorante e rientro a Fort Dauphin.
Dal diario di viaggio:
Giornata rilassante a fotografare lemuri. Perché diciamocelo: belli i bambù, sia i gialli che i giganti, e scenografico il viale d’accesso ombreggiato dai bambù reclinati. Belli i sisal, le orecchie e le zampe di elefante, e l’albero salsiccia nonché l’incredibile palma triangolare, le gigantesche bouganville, gli alberi del viaggiatore, la cannella, il jackfruit e il piccolo baobab di 13 anni alto solo un metro e mezzo. E anche tutte le altre piante che ho già dimenticato, e i 5 coccodrilli e le vispe tartarughe. Tutto bello, affascinante e curato. Ma la vera star, sono loro, i lemuri; e invece di andare in giro, vorresti stare tutto il tempo con loro, a vederli mentre si spartiscono le banane, voraci e con foga; a osservare i sifaka aggrappati ai rami con i piccoli al petto, mentre giovani esemplari scendono curiosi a guardare questi bipedi muniti di macchina fotografica e li deliziano con la loro camminata danzante; e infine a rincorrere i catta mentre si allontanano con la coda elegantemente inanellata a tratteggiare un simpatico punto di domanda.
E’ inutile. Siamo catturati dalla magia di queste creature e quando la guida ci propone la notturna per vedere i microcebus, abbocchiamo. Sì, abbocchiamo perché è ben difficile vedere queste minuscole creature normalmente e ancora più difficile con una guida come l’Alphonse che ci è toccato in sorte. Si presenta all’appuntamento alle 19 semi ubriaco e ci trascina per mezza riserva alla ricerca di queste bestioline che sicuramente se ne guardano bene dal farsi trovare da un tipo del genere. Incrociamo gruppi più fortunati ma noi, dopo più di un’ora a girovagare sotto una pioggerella sottile, rinunciamo.
Ceniamo al ristorante della riserva. Nel buio totale dovuto a un black out apparentemente irreversibile, il menù consiste nella ormai familiare Three Horses Beer e un ottimo filetto di zebù prenotato nel pomeriggio. Al buio ma purtroppo non nella pace che dovrebbe associarsi a un posto di questo genere: i nostri vicini sono un rumoroso gruppo di “Avventure nel Mondo” che con le loro chiacchiere sguaiate rovinano decisamente l’atmosfera di posto fuori dal mondo di cui avremmo potuto godere.
Puntuale, Petit Jean passa a riprenderci e finisce così un’altra intensa giornata in Madagascar. Ritorno con la certezza che stanotte sognerò i lemuri.

10/8/2007
Abbiamo fatto fatica a stabilire il programma odierno: da un lato avevamo il desiderio di visitare la riserva di Berenty (altri lemuri) dall’altro siamo stati scoraggiati dagli alti prezzi, e dalla quantità di ore di fuoristrada da affrontare tra andata e ritorno. Troppe per una visita di una sola giornata: converrebbe a quel punto passarci una notte in modo da godere appieno del luogo.
Decidiamo pertanto per una mattinata sulla nostra veranda, e partenza alle 10 per Le Domaine de la Cascade, un non meglio precisato luogo di campagna con cascata di cui ci parlano bene sia Petit Jean che la proprietaria del Lavasoa. Il tempo è variabile con frequenti piccoli scrosci, cosa che ci permette di immortalare splendidi arcobaleni sulla baia.
Come stabilito, ci fermiamo all’ufficio cambio per procurarci gli aryary necessari per i prossimi giorni di viaggio: sappiamo che da qui a Tuléar non sarà più possibile cambiare.
Uscendo da Fort Dauphin, il tempo sembra migliorare nettamente e raggiungiamo la nostra meta nel pieno sole della tarda mattinata. Le Domaine consiste di un ampio prato inglese con uno spazioso bungalow e qualche costruzione aggiuntiva. Si può infatti decidere di alloggiare qui, se si ama la pace assoluta e il contatto con la natura.
Ci viene incontro una custode a cui Petit Jean spiega che vogliamo salire alla cascata e che al ritorno gradiremmo mangiare: io scelgo gamberetti in salsa curry, gli altri lo spiedino, e partiamo. La camminata è agevole: si passa di fianco a un paio di laghetti e a delle nursery per ogni genere di piante, fino a raggiungere il torrente, che qui in basso crea un piccolo bacino ombreggiato da enormi piante, alimentato da una piccola caduta d’acqua. Il cammino poi comincia a salire sul lato del torrente: nulla di particolarmente faticoso e la via è ben segnalata. A un tratto si guada e da questo punto si gode di una splendida vista su tutta la vallata. La salita nella foresta diventa leggermente più impegnativa, immersi nel verde, nelle grosse radici e tra le foglie. Ed è qui che ovviamente il tempo decide di cambiare: prima una leggera pioggia, poi uno scroscio più violento: troviamo un punto in cui gli alberi fitti ci fanno da ombrello. Quando la pioggia pare diminuire, ripartiamo ed è così che ci prendiamo la maggior parte della acqua che ci inzuppa completamente. Quando smette, siamo ormai alla cascata, che si rivela niente più di una cascatella in una pozza illuminata dal sole, che finalmente esce a far brillare le ultime gocce di pioggia che stillano dalle piante.
E’ lungo la strada del ritorno che mi accorgo di strane chiazze di sangue sui vestiti: del resto è normale che nella giungla, di fianco a un corso d’acqua, mentre piove, ci siano le sanguisughe. Controllandoci sommariamente a vicenda, ce ne liberiamo rapidamente, anche perché non sono quelle che mi è capitato di vedere altrove. Queste sono piccolissime e una volta succhiato il mio sangue non sono più lunghe di due / tre centimetri. Che comunque sono più che sufficienti, a mio parere.
Ritorniamo alla base e veniamo fatti accomodare a un bel tavolo al sole di fianco al bungalow: in effetti viene voglia di passare un paio di giorni qui, nel più assoluto isolamento, curati e vezzeggiati dalla custode e da un anziano cuoco che ci prepara uno dei pasti migliori del viaggio. Mangiamo con calma, facendo asciugare i vestiti e gli zaini fradici, e intanto ammiriamo lo spettacolo del rigoglio della natura attorno a noi. E siamo piuttosto tristi che Petit Jean arrivi puntualmente alle 15 a prenderci.
Ma la giornata non finisce qui: arrivati all’ingresso di Fort Dauphin, subito dopo l’aeroporto, prendiamo una strada laterale che porta alla spiaggia di Ambinanibe. Si tratta di un altro angolo incantato di questa incredibile terra che nel giro di pochi metri cambia completamente aspetto. Qui, dopo aver attraversato i lavori che fervono per la costruzione di una strada per il nuovo porto, ripiombiamo nella pace e tranquillità di una enorme laguna interna, solcata da piccole piroghe e costellata di strutture in legno per la pesca.
La strada sabbiosa che la costeggia sembra sempre sul punto di franare nella laguna, stretta com’è dalla vegetazione prima e da un’immensa duna dopo. Incrociamo alcuni contadini che rientrano dal lavoro coi loro zebù e l’immancabile frotta di bambini improvvisa una partita al pallone in un ampio slargo. Ed è in coincidenza con il finire della duna che inizia un immenso tratto di spiaggia. Il cielo è pieno di scure nuvole basse, il sole filtra a tratti creando giochi di luce, l’oceano fa nuovamente la sua comparsa al di là della distesa di sabbia bianca con spruzzi di spuma e di azzurro, il vento disegna le sue forme nella rena: un vero incanto.
E’ questa l’ultima immagine che Fort Dauphin ci regala. La partenza per il tour del sud è ormai questione di poche ore.

11/08/2007
Puntuale, alle 7,30, il nostro mezzo è pronto per caricare i bagagli e per la nostra partenza. Ci ritroviamo con ben due autisti, Remo e Denis, da noi a breve ribattezzati Gianni e Pinotto per le loro litigate e i frequenti siparietti di cui si rendono comici protagonisti.
Su consiglio della proprietaria del Lavasoa, ci fermiamo in panetteria a fare un po’ di scorte per i 5 giorni che ci aspettano: 6 pacchi di Eau Vive, l’acqua minerale malgascia; una ventina di pagnottelle; una forma di formaggio che sarà elemento base di tutti i pranzi a venire; qualche dolce e biscotto, banane fritte e altri snack locali per spuntini vari. Ottima iniziativa, in effetti, perché se anche durante il viaggio non mancheranno luoghi di ristoro per il pranzo, si tratterà sempre di hotely, i tipici baracchini con scarsa dimestichezza con l’igiene, che cerchiamo di frequentare poco per scongiurare al massimo inconvenienti intestinali di difficile gestione, quando si deve necessariamente stare in macchina per parecchie ore al giorno.
I primi 100 km della strada che esce da Fort Dauphin con destino Tana e Tuléar sono asfaltati. Cioè sono tra i peggiori tratti di strada che ci troveremo a coprire per la totalità del viaggio. Costringono infatti di zigzagare continuamente da una parte all’altra della strada, evitando pedoni e carretti trainati da zebù, per aggirare i giganteschi crateri che costellano la maggior parte della strada. In coincidenza con qualche zona abitata, volonterosi bambini si sono appostati nei pressi di alcune buche che hanno diligentemente riempito e aspettano una mancia: iniziativa lodevole ma di poco e breve sollievo. Sballottati a destra e sinistra, con frequenti craniate perché per i primi due giorni Denis non ha ancora imparato a limitare la veemenza nell’affrontare la strada, osserviamo la natura che ci circonda.
Per parecchi chilometri, il territorio è molto verde, montuoso ma pieno di coltivazioni, risaie, campi e filari di alberi. Noi attendiamo con impazienza la prima sosta programmata al Parco Nazionale dell’Andohahela, che per un lungo tratto costeggiamo, e che consiste di una parte di foresta pluviale e di una parte di foresta spinosa. Abbiamo scelto di visitare la parte detta Tsimelahy, che comporta una deviazione di 15 km circa dalla strada principale, e che dovrebbe rientrare in una zona di transizione tra i due tipi di foresta.
Mentre ci avviciniamo, la terra si fa sempre più aspra e le cactacee prendono sempre più piede. Ma si tratta di un cambiamento quasi repentino, nell’arco dei pochi chilometri che separano il centro informativo sulla RN13, dove abbiamo pagato gli ingressi, dall’inizio del percorso guidato. Qui ci attende una guida che ci accompagna per l’ora e mezza circa in cui concentriamo la visita.
Partendo dalla casa delle guide, in corrispondenza con il nostro primo vero baobab e di fianco a un placido fiume che abbiamo già guadato col fuoristrada, scendiamo lungo il crinale per un sentierino ben segnalato, costellato di varie piante bizzarre di cui la guida ci indica nome e impiego. A tratti si scende fino al fiume che qui scorre in un letto di granito dalle tinte rosa: la carenza d’acqua ci permette di camminare in prossimità dell’acqua che placidamente scorre. A tratti, invece, la strada risale fino a punti panoramici da dove ammirare il fiume nella sua interezza: in particolare osserviamo i colori dei vari salti tra le piscine che nel tempo l’acqua ha scavato nel granito, fino a giungere a un laghetto dove guadiamo nuovamente, in corrispondenza con l’area attrezzata per i picnic. Dopo una breve sosta al fresco delle piante, ricominciamo la salita sull’altro versante di questo piccolo canyon rosa: è proprio una gita piacevole, in un ambiente insolito e suggestivo.
Ci sarebbe piaciuto restare qui a mangiare il nostro panino al formaggio ma la consapevolezza dei tanti chilometri che mancano a Faux Cap, destinazione finale odierna, ci spinge a ripartire subito. Facciamo solo una breve sosta in un piccolo centro, Amboasary, per permettere agli autisti di mangiare e dove anche noi consumiamo il nostro panino sotto gli sguardi curiosi della popolazione intenta nell’allestimento di un mercato, e ripartiamo. La strada si snoda tra due ali di una impenetrabile foresta spinosa che in breve diventa una immensa distesa ordinata di sisal, con i suoi pennacchi che svettano nel vento caldo di questa regione semi desertica. Intanto l’asfalto ha definitivamente lasciato il posto alla pista e riconosco che gli scossoni sono diminuiti notevolmente, tanto che mi appisolo (e non riesco ancora a spiegarmi come questo sia possibile). Di quando in quando, qualche tomba mahafaly o antandroy, spezza la monotonia del viaggio: si tratta di ampi appezzamenti cintati al centro dei quali sorge un monumento commemorativo dall’iconografia, a tratti bizzarra, che ricorda i fatti salienti della vita del defunto.
Non ci permettiamo altre soste perché ci rendiamo conto di essere molto in ritardo sul programma ed il buio ci sorprende che non abbiamo ancora imboccato la brutta e sconnessa pista che scende da Ambovombe a Faux Cap.
E così, al nostro arrivo, scopriamo che nell’unico hotel degno di questo nome non c’è posto. Non che nutrissimo grandi speranze, visto che sapevamo che avremmo incrociato qui un gruppo di 8 persone atteso al Lavasoa per l’indomani e che qui al Libertalia non ci sono altro che 5 stanze (impossibile prenotare, non c’è telefono). Ma sinceramente speravo in un piccolo miracolo. E invece, sotto quella che mi sembra essere una tempesta di vento, nel buio più assoluto, ci tocca ripiegare sul contiguo Cactus Hotel: con questo vento, di montare la tenda che abbiamo con noi, non se ne parla. Veniamo accolti con stupore, vista la tarda ora e ci mostrano… la struttura: una serie di capanne di legno, senza luce, senza acqua, con fessure così grosse che stando a letto il vento riusciva a spettinarmi i capelli. Ogni volta che nel corso della notte ci muoveremo nel letto, una delle assi sottostanti il cosiddetto materasso, cadrà dal sostegno obbligandoci ad alzarci per rimetterla a posto. Dopo una giornata pesante come quella appena trascorsa, il quadro è decisamente poco confortante ma tant’è: quando non ci sono altre possibilità, ci si adatta e dopo una cena a base di un pollo anoressico e un lavaggio sommario con tanti fazzolettini umidificati, ci ritiriamo, invidiosi degli autisti che dormiranno sui comodi sedili del fuoristrada.

12/8/2007
Sintetizzo l’esperienza della notte al Cactus sul Guest Book che mi viene fatto compilare al momento della colazione:
Ce la si può fare!
Speriamo in tempestivi lavori per la creazione di un sistema fognario e qualche ammodernamento nel comfort dei letti, dopodichè sarà ottimo. La cucina pare buona: pare, perché purtroppo i nostri vicini francesi si sono mangiati di tutto prima del nostro arrivo (e i piatti lo testimoniavano) e parevano molto soddisfatti.

Tanto ottimismo e positività sono dettati più che altro dallo splendido spettacolo che si offre ai nostri occhi alla mattina: i bungalow si trovano su un’alta duna di sabbia bianchissima affacciata su una bella laguna e la colazione è allietata dalla vista del frequente passaggio, a qualche centinaio di metri, delle balene e di qualche delfino. E si vedono bene: saltano fuori dall’acqua, lanciano violenti soffi verso il cielo, picchiano con violenza la superficie. A Fort Dauphin ci eravamo interessati per effettuare l’uscita in mare per avvistare le balene ma la barca era in avaria. Chiediamo ora allo “staff” dell’hotel se sia possibile avvicinarsi per vederle meglio e ci dicono orgogliosi di sì, mostrandoci una barchetta in vetroresina di circa due metri, da azionare rigorosamente a remi. Decidiamo immediatamente che non è il caso di sfidare la sorte, salutiamo e ripartiamo.
Tappa odierna lungo la strada che ci porterà in serata a Lavanono è Cap Sainte Marie, punta estrema del Madagascar e sede di un parco nazionale: la Routard non ne parla e la Lonely Planet dice che non è aperto al pubblico ma confidiamo sul fatto che entrambe sono vecchie e ci facciamo portare lì per vedere se nel frattempo l’Ente per la gestione dei parchi e delle guide si è organizzato per permettere la visita. Come al solito, i nostri autisti sono all’oscuro di tutto e accettano rassegnati il nostro volere.
La pista è ormai una semplice striscia di sabbia in mezzo ad agavi e cactus, con frequenti attraversamenti di tartarughe, ma le tombe sono diventate molto più numerose e meritano delle ripetute soste: capeggiano in cima al monumento semplici riproduzioni di macchine, di aerei, in un caso vediamo addirittura un elicottero, ricostruzioni di edifici dipinti ornati di specchietti e piastrelle colorate. Attorno, in base alla ricchezza spesa per il funerale, un numero variabile di corna di zebù, sacrificati in occasione della sepoltura. Considerando che la gente della regione vive in misere capanne di paglia, stride ancora di più il confronto tra la dimora terrena e quella eterna, ma almeno la popolazione locale ha trovato un modo di trarre un qualche vantaggio da tanta magnificenza post mortem: per quanto isolata sia una tomba, non appena ci fermiamo arriva qualcuno a riscuotere un obolo che paghiamo volentieri, così come volentieri distribuiamo qualche biscotto a bambini e adulti che accorrono numerosi a vedere i vazah, cioè noi, gli stranieri.
Siamo fortunati: il Parco è aperto e funzionante. Ci sono alcuni percorsi consigliati e paghiamo per essere accompagnati a due di quelli proposti: la passeggiata sulla falesia e la discesa alla grotta. Di più non ci è dato di sapere e partiamo pertanto all’avventura.
Gli autisti sono un po’ contrariati sia perché così faremo tardi per il loro pranzo, sia perché la pista per raggiungere i punti di partenza per le due escursioni è strettissima e di frequente strusciamo violentemente contro le piante spinose. Capiamo così perché gli altri fuoristrada della zona sono tutti in pessime condizioni.
La passeggiata sulla falesia è una tranquilla camminata di circa 20 minuti sul bordo dell’altopiano che si affaccia sul Canale del Mozambico. Sotto di noi, sulla spiaggia, passano piccole comitive di pescatori e in distanza, dal mare, continuano a levarsi in cielo spruzzi rivelatori. Il sentiero è ben segnato e la guida ci mostra varie piante grasse, alcune delle quali presentano strane infiorescenze; un paio di tartarughe, che in questa zona hanno il loro habitat ideale; delle grosse pittoresche cavallette dagli insoliti colori.
La passeggiata conduce fino a una cappella dedicata alla Vergine Maria, in prossimità di un faro, attorno al quale sono in corso dei lavori per la realizzazione di un ristorante, con lo scopo di sfruttare turisticamente questa zona. Gli autisti ci attendono qui, alla fine del sentiero, per accompagnarci al secondo punto di partenza, quello per la discesa alla grotta. Lasciamo il fuoristrada in uno slargo tra cactus e alberi salsiccia e ci incamminiamo con la nostra guida lungo un sentiero sabbioso che scende lentamente verso il mare, prima in maniera graduale, poi più decisa attraverso una zona rocciosa: anche qui incrociamo la strada di parecchie tartarughe.
Terminate le rocce, alcune delle quali artisticamente modellate dal vento, inizia il vero spettacolo: approdiamo dapprima a una profonda striscia di sabbia abbagliante cosparsa di una enorme quantità di conchiglie di ogni genere, residui di conchiglie erose dall’acqua e resti di uova di Aepyornis, un uccello gigantesco che poteva raggiungere i 300 kg e estintosi circa tre secoli fa. Arranchiamo fino al bordo della duna creata dal vento per affacciarci sulla laguna sottostante: un insieme di piscine emerse con la bassa marea dove sono all’opera piccole squadre di pescatori di molluschi, su cui troneggia uno spettacolare faraglione. La vista è veramente ad effetto e già questa parte dell’escursione è altamente meritevole.
Ma non finisce qui: con nostro iniziale sommo rincrescimento, la guida inizia la discesa verso la spiaggia e la laguna, affondando rapidamente nella sabbia della duna fino a una quindicina di metri più in basso. Il nostro pensiero corre già a cosa comporterà la risalita. Raggiunta la spiaggia, ci avviciniamo rapidamente al promontorio che racchiude sul lato destro la baia e qui scorgiamo una prima e una seconda grotta. Ma è nella terza e più distante che la nostra guida scompare in un ampio antro: il tempo di abituarci alla penombra e davanti a noi si apre lo spettacolo dell’oceano che possiamo osservare da una sorta di finestra nella roccia e che possiamo andare a sfidare su una terrazza naturale. Le onde si infrangono con violenza sulla scogliera attorno a noi, costituita da terrazzamenti e archi naturali, creando splendidi giochi d’acqua e piccoli arcobaleni. In distanza i pescatori di molluschi sfruttano la risacca per svolgere velocemente la loro ricerca. Non oso pensare quale sarebbe la loro sorte se sbagliassero i tempi.
Non ci staccheremmo più da questo posto magico, tanto più che la temperatura è decisamente più piacevole di quella esterna, sotto il sole dell’una, ma la guida ci spinge a continuare la nostra visita. Lasciamo le grotte, attraversiamo la laguna per la sua lunghezza e fortunatamente non affrontiamo la risalita lungo il muro di sabbia ma scegliamo una via più graduale per riguadagnare l’altopiano dove abbiamo parcheggiato. Nell’insenatura successiva ammiriamo un’altra insolita spiaggia sormontata da una duna ancor più spettacolare, forgiata e ricamata dal vento. Percorriamo lentamente la via del ritorno lasciando le nostre impronte nella sabbia, sentendoci una sorta di carovana nel deserto.
Gli autisti sono contenti di vederci, soprattutto perché affamati: Remo non fa altro che ripetere che le tartarughe sono il suo piatto preferito e allude a varie ricette. Temo continuamente in qualche sbandamento della macchina che vada a colpirne “casualmente” una delle decine che troviamo lungo la strada. Evidentemente col caldo, sono uscite tutte allo scoperto: a un certo punto siamo addirittura costretti a fermarci e a spostarle di peso dal tracciato della pista, per poter continuare lungo la nostra strada per Lavanono, dove arriviamo poco più di un’ora dopo aver lasciato la sede del parco.
Chiediamo agli autisti di informarsi circa quale sia l’hotel più accogliente: dopo la notte passata al Cactus, è il minimo che possiamo concederci. E il meglio risulta essere “da Gigi Ecolodge”. Difficile stabilire di cosa si tratti: Gigi, un francese dell’isola della Riunione dice che non è un hotel ma la sua casa di campagna dove accoglie ospiti ma secondo un suo contraddittorio criterio. Ci dice che Lavanono è al centro di una splendida regione ricca di mete nascoste per gite meravigliose, ma è evidente che si tratta di segreti che non vuole condividere con noi. Gli chiediamo consiglio per la giornata di domani, disposti eventualmente a passare un’altra notte qui, ma lui tergiversa e non spiega neanche agli autisti quale sia il modo migliore per arrivare a Itampolo. Remo e Denis alla fine sintetizzeranno in una parola l’attitudine di Gigi: è stronzo. E per una volta, diamo loro ragione.
Dopo una bella passeggiata sulle immancabili dune circostanti, ci godiamo comunque le ore che passiamo in questo “ecolodge” per la non modica somma di trenta euro ad alloggio: una serie di bungalow con veranda, affacciati sulla lunga spiaggia, realizzati con materiale di recupero e decorati con conchiglie e doni del mare; bagni in comune pulitissimi, e doccia con acqua dolce che viene poi reimpiegata per innaffiare le varie piante, rigorosamente catalogate, che costituiscono il giardino. Nell’insieme una bella iniziativa: peccato per il personaggio.
Alle sette circa scatta l’operazione cena, decisamente degna di menzione: cucina creola a un ottimo livello e punch planteur offerto dalla casa, un aperitivo fatto in casa con rum malgascio (soprattutto) e succo di vari frutti. Spazzoliamo tutto e alle 21.30, allo spegnimento del generatore, ci ritiriamo per un piacevole dopocena immersi nel buio totale sulla nostra verandina, dove mi metto di impegno a contare le stelle cadenti: arrivo a sette ma poi la stanchezza e il punch hanno la meglio.

13/8/2007
Dopo lunghi ripensamenti e vari studi di cartine da parte degli autisti, decidiamo di evitare la difficile pista che da Lavanono porta direttamente a Itampolo per la meglio segnalata strada che sale fino ad Ampanihi, sacrificando così un giorno di mare a un po’ di entroterra. Ampanihi è infatti tappa obbligata della strada interna che porta da Tuléar a Fort Dauphin. Se avessimo avuto autisti della regione, questo non sarebbe stato necessario ma in fondo non ci dispiace visitare un luogo diverso dalle località di mare in cui abbiamo fatto tappa finora. O quanto meno, la pensiamo così fino a quando non testiamo l’orribile stato in cui versa la strada prescelta.
Verso le nove, lasciamo Lavanono e l’ampia pianura costiera che la alloggia e risaliamo la ripida falesia alle sue spalle: qui la strada è la solita pista di sabbia costellata di tartarughe fino al piccolo centro di Beloha, dove decidiamo di fare una breve sosta per consentire agli autisti di fare colazione. Passeggiamo lungo la strada principale del paese, attraverso il mercato e fino all’imponente chiesa. Il fatto di scattare alcune foto, ci rende l’attrazione principale per tutti gli abitanti in zona. Scattiamo le foto che poi mostriamo loro nel display: i meno timidi arrivano a chiederci loro stessi di essere fotografati, assumendo la posa impettita tipica delle foto di altri tempi.
Dopo avere ampiamente documentato fotograficamente la popolazione adulta di Beloha, ripartiamo verso nord. Impossibile evitare una sosta a una splendida tomba decorata di ricchi alo alo, sculture in legno conficcate nel terreno della tomba, che rappresentano scene della vita del defunto: una nuova variante delle tombe già viste, peculiare di questa zona.
Dopodiché inizia una delle strade peggiori dell’intero viaggio: la strada è una pista dissestata dove le piogge si sono portate via molta della terra che la rendeva piana, portando allo scoperto ampi tratti rocciosi. In prossimità dei frequenti corsi d’acqua, attualmente in secca, la situazione si fa anche più difficile, quando siamo costretti a scendere di alcuni metri dal livello del tracciato della strada. Quelli che si possono considerare dei tentativi di ponte, sono solo delle strutture in cemento in mezzo al nulla, visto che l’acqua ha eroso tutto il terreno intorno e non è pertanto possibile percorrerli e siamo ogni volta costretti ad aggirarli. Le buche sono voragini e il terreno, diventato duro, ci fa sobbalzare continuamente: i massi sono frequenti, ricchi di quarzo rosa, e la temperatura è molto più alta rispetto alla zona più prossima alla costa, tanto che siamo costretti a fermarci a dare un po’ di tregua al motore.
Sono circa 90 i km da percorrere per raggiungere Ampanihi, ma in queste condizioni diventano interminabili. La strada peggiora a vista d’occhio, così come lo stato delle pietre miliari che all’inizio del tragitto ci segnalano puntualmente il passare dei chilometri e che all’improvviso scompaiono o diventano del tutto illeggibili. Dopo 3 ore di questo sconquasso, non abbiamo più idea di dove siamo né di quanto manchi. L’arrivo ad Ampanihi è una sorta di liberazione ormai insperata. Unica nostra aspirazione è sdraiarci su un letto e far passare il mal di mare.
L’hotel della cittadina è costituito da una serie di bungalow in muratura, con tetto spiovente e l’aria da piccola baita alpina (o anche la casa di Biancaneve e i 7 nani, a ben vedere). In un unico piccolo ambiente hanno ricavato la zona letto e la zona bagno, rialzata, quest’ultima, su un alto gradino e separato dal resto della stanza da una tenda che ne delimita il perimetro. Ultima nota di colore è la rubinetteria, regolarmente installata ma inutile, visto che qui l’acqua corrente non c’è. Avranno voluto essere previdenti.
Dopo un primo malinteso riguardante il prezzo (le stanze ci erano state quotate in Franchi Malgasci e quindi a 5 volte il loro valore effettivo), ci installiamo nel giardinetto dell’Hotel Angora (15.000 ar = 6 euro) e mangiamo, come tardo pranzo, l’ennesima porzione di formaggio, ormai fortemente provato dalle temperature ma ancora commestibile. Troviamo anche il tempo di fare finalmente un po’ di shopping: appena diffusasi la notizia del nostro arrivo in città, un gruppetto di venditrici ha steso i propri teli/banchetti di fianco al nostro cancello e ci assillano fino a quando non compriamo qualche souvenir. Nelle vicinanze di Ampanihi risulta esserci il baobab più vecchio del mondo ma non riusciamo nemmeno a pensare di metterci nuovamente in macchina. Ammesso poi di ritrovare gli autisti che, appena scaricati i bagagli, sono spariti. Dopo un lungo riposino è già ora di una memorabile cena a base di pollo: se quello del Cactus era anoressico, questo è sicuramente morto di fame.
Per niente appesantiti dalle 4 patate che hanno costituito la parte nutriente della nostra cena, ci ritiriamo nelle nostre baite per qualche ora di ulteriore necessario riposo.

14/8/2007
Lasciamo presto questa cittadina e ci dirigiamo nuovamente verso il mare. Nella nostra rotta verso sud, percorriamo ancora qualche pessimo chilometro ma poi la strada torna ad essere una comoda pista sabbiosa, con la peculiarità che qui la sabbia ha una calda tonalità rossa. Attraversiamo una fitta foresta spinosa e per qualche tempo non vediamo più insediamenti umani: in compenso, con nostra somma gioia, ci passa davanti un lemure selvatico che attraversa la strada, raggiunge un altro lemure e insieme si allontanano sotto i nostri sguardi incantati. Non c’è nulla da fare: queste creature ci hanno proprio conquistato.
Dopo qualche tempo , dal nulla, comincia a spuntare gente: camminano sul bordo della strada, qualcuno si muove sui piccoli carretti trainati dagli zebù e tutti sono molto ben vestiti e impettiti. Scopriamo dopo qualche chilometro il motivo di questa migrazione: è giorno di mercato e nel raggio di svariati chilometri tutti si muovono per andare a vendere i propri prodotti e per fare acquisti. E durante la visita, mi viene anche il sospetto che vengano qui per raccontarsi le novità della regione e per farsi vedere.
La curiosità nei nostri confronti dura poco: sono tutti molto indaffarati e c’è veramente tantissima gente. Le donne stanno per lo più sedute in gruppo mentre gli uomini si aggirano per i vari “stand” o fanno capannello a parlare. E, cosa piuttosto inquietante, sono tutti armati di una lunga lancia o un grosso machete. Quando ripartiamo, chiediamo ai nostri autisti la ragione di questa esibizione di forza e ci rispondono che qui è una cosa normale, che significa che sono specialisti nell’uso delle armi e che non devono essere disturbati. Dice che qui al sud i furti e gli assalti sono frequenti e che la presenza delle armi indica che nel caso, loro sono pronti ad usarle. Sinceramente, sentire l’ennesimo accenno negativo nei confronti della popolazione del sud del paese mi ricorda molto i discorsi leghisti di qualche anno fa e sono un po’ scettica sulla veridicità di quanto raccontano Rémo et Denis, signori del nord. Ma probabilmente ci credono anche loro, visto che all’improvviso ci dicono di stare comunque tranquilli perché anche loro si sono preparati per questo viaggio acquistando i mezzi intimidatori necessari. Ed estraggono dal portaoggetti un coltellaccio, l’uno, e un machete, l’altro, noncuranti del cartellino del prezzo ancora attaccato a entrambi che la dice lunga della loro preparazione in fatto di uso delle armi. Tanto che poi aggiungono: servono da mostrarle in caso di necessità ma speriamo che non serva perché non abbiamo la più pallida idea di cosa farne.
Scarsamente rincuorati da questa “polizza assicurativa”, continuiamo sulla nostra pista per almeno altre tre ore, chiedendo continuamente indicazione per la strada a più persone perché, dice Remo, questa è gente di cui non ci si deve fidare troppo e sono capaci di darti l’indicazione sbagliata per mandarti fuori strada. In effetti alcuni soggetti fermati hanno un’aria poco rassicurante e i sorrisi che ci hanno accompagnato per parecchi giorni hanno lasciato il posto a sguardi truci. O forse ci siamo semplicemente lasciati influenzare dalle nostre “guardie del corpo” molto prevenute.
Rispetto alla giornata di ieri, le ore di fuoristrada oggi passano come niente e alle 14 siamo già all’hotel Sud Sud di Itampolo dove ci viene assegnato un ampio, semplice bungalow direttamente sul mare. Il tempo di lasciare i bagagli in camera e ci fiondiamo sulla spiaggia, dove ci fanno compagnia e fanno il bagno con noi, un bel gruppetto di ragazzini del vicino villaggio. Mentre consumiamo l’ultima razione di formaggio, arrivano anche i nostri autisti che si spogliano in corsa,e si buttano in acqua e si fanno scherzi come due ragazzini in gita. Del resto il posto si presta, con la lunga spiaggia di un candore abbagliante e il mare con le onde ideali da saltare e da cui farsi trascinare fino a riva.
Di Itampolo mi rimarrà per sempre in mente il colore bianco della sabbia e l’azzurro assoluto di mare e cielo nel momento del nostro arrivo. Già verso le 16, la luce cambia completamente e noi ci gustiamo l’atmosfera come rarefatta che precede il tramonto e i colori un po’ sfuocati con una lunga passeggiata fino a due dune sormontate da un albero che sorgono in fondo alla spiaggia. La sabbia è spessa e il vento ha disegnato i suoi ricami arricchiti di tante grandi conchiglie.
Rientriamo in tempo per un aperitivo a base di Three Horses Beer e noccioline, con vista sul tramonto incandescente.
Ottima anche la cena, in questa struttura molto semplice dove però non disdegnerei di passare qualche giorno: il personale è tra i più gentili e disponibili di tutta la vacanza.
Ma noi abbiamo altri programmi perciò ci ritiriamo presto, dopo l’ormai abituale osservazione ammirata del magnifico spettacolo di un cielo inondato di stelle.

Il proseguimento e la fine del diario di viaggio saranno pubblicati prossimamente, sempre sulle pagine virtuali di Ci Sono Stato!

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