L'Etiopia, il popolo che cammina - Parte terza

Il ritorno da Makallé ad Addis Ababa, toccando la straordinaria Lalibela e le sue chiese scavate nella roccia

Si conclude il resoconto del viaggio in Etiopia lungo la "Rotta Storica", le cui due parti precedenti, riguardanti le note generali e i primi nove giorni, sono già pubblicate su questo stesso sito con il medesimo titolo.
Questa è la cronaca delle ultime sei giornate, il cui itinerario si sviluppa in direzione sud da Makallé ad Addis Ababa con digressione a quell'autentico "fiore all'occhiello" che è Lalibela.DIARIO DI VIAGGIO

Lunedì 23 ottobre 2006
Makallé - Lalibela (km. 365)
Come già affermato nelle parti precedenti, risulterà difficile fare una classificazione delle quindici giornate di questo viaggio in quanto ad attrattive, paesaggi, umanità, ogni genere di spunti d'interesse. Senza dubbio però, per spettacolarità, la tappa di oggi (anch'essa - manco a dirlo - lunga e impegnativa) finirà, in un'ipotetica graduatoria, per gareggiare con quella già effettuata da Gondar ad Aksum (vedi Parte Prima).
Lasciata Makallè, si punta in direzione sud lungo la già nota strada n. 1: si tenga conto che non si scende mai sotto quota 2000, che anzi oggi sarà abbondantemente superata.
Dopo una quarantina di chilometri entriamo in Maych'ew, le cui strade sono in pratica bloccate da una grande animazione: infatti, oggi ha termine il Ramadan e la popolazione musulmana - che qui è prevalente - festeggia improvvisando raduni, cortei, balli e canti. Approfittiamo per una pausa-caffè in un localino con cortile e per l'ennesimo piacevole contatto con la gente del luogo, in un susseguirsi di tentativi di conversazione, foto, curiosità reciproche.
Altri 53 km. ed eccoci a Kobo, principale diramazione per Lalibela, ma notizie raccolte ieri sera dagli autisti danno la strada interrotta per lavori; cosicché ne percorriamo altri 48 fino a Woldya. Questa è l'ultima località che fornisca qualche servizio prima dei 120 km. per Lalibela, occasione per il pieno di carburante e un controllo degli pneumatici.
Ci si immette ora su una strada secondaria che, dopo qualche decina di chilometri, diventa sterrata; si guadagna quota, prima insensibilmente poi con progressione più accentuata, mentre il paesaggio all'intorno si fa via via più grandioso. Si svelano orizzonti sempre più vasti, che invogliano a ripetute soste contemplative: terrazzamenti coltivati, ambe imponenti, canyon profondi, falesie inaccessibili, chiazze di fiori variopinti. Come già detto nella nota introduttiva, ottobre è il mese in cui, dopo il periodo delle piogge, la campagna è più rigogliosa e ricca di colori.
Facciamo sosta per il pranzo al sacco su uno slargo panoramico che ci regala una vista spettacolosa, non lontano da quota 3000: sotto di noi ammiriamo l'opera di coloro che tracciarono questo percorso tagliando un ripido pendio con una lunga serie di arditi tornanti.
C'è da rimanere senza fiato: ma ci rendiamo conto di quanto è bella questa Etiopia?
E non è finita: terminata la salita, ci troviamo ad attraversare per una quarantina di chilometri uno sterminato altopiano su una quota fra i 3200 e i 3400 metri, in una successione di campi coltivati o in via di aratura squadrati con precisione, estensioni di tef a perdita d'occhio, rari agglomerati di tukul, minuscoli bacini d'acqua per l'irrigazione, mandrie al pascolo.
Nelle frequenti soste non si vorrebbe mai risalire sulle macchine, anche perché gli incontri con la gente (non mi stanco di ripetere che bastano pochi minuti per vederne sopraggiungere da ogni direzione) hanno qui un valore ancora più significativo: una minoranza di turisti, infatti, raggiungono Lalibela via terra, preferendo la più parte appoggiarsi al piccolo aeroporto nei pressi della cittadina. Da parte di queste popolazioni semplici, i contatti con gli stranieri sembrano quindi essere un autentico avvenimento: non dimenticheremo mai i loro sorrisi spontanei, quasi infantili, avulsi da ogni forma di tornaconto, anche se piccoli doni (perfino una bottiglia di acqua minerale vuota o un vecchio paio di calze) sono sempre graditi.
L'entrata in Lalibela sotto uno splendido sole al tramonto dà la sensazione, come scrivono le guide, di toccare la meta di un percorso iniziatico. Attraversiamo le tortuose stradine dell'abitato scortati da un codazzo di gente, in particolare bambini, fino a raggiungere l'Hotel Roha, nel quale sono previsti tre pernottamenti; è la solita struttura statale, comunque apprezzabile per le camere confortevoli e il bel parco alberato.
La cucina? Altrettanto solita: "soup or salad?", "meat or fish?", "water Ambo with gaz or no gaz?". Ma va bene comunque!

Martedì 24 ottobre 2006
Lalibela
Prima di passare al dettaglio delle visite, mi sembrano opportune alcune avvertenze.
Nonostante Lalibela possa essere definita la località più turistica d'Etiopia (il che è tutto dire…), in città non esistono banche né farmacie. C'è un microscopico ufficio turistico aperto "random" nel quale non sono disponibili che un paio di scarne pubblicazioni. Vale piuttosto la pena indirizzarsi all'Hotel Roha, che ha in vendita un discreto assortimento di libri.
La presenza di un (per quanto modesto) flusso turistico ha prodotto una certa pressione sui visitatori da parte dei ragazzini. Qui, oltre alla già sperimentata (e tutto sommato simpatica) consuetudine di farsi "adottare" come guide in cambio di qualche birr, sta prendendo piede la frequente richiesta di essere sovvenzionati per l'acquisto di libri scolastici: visto lo stato di povertà in cui versa l'Etiopia, si è - umanamente - portati a dare un aiuto (qualcuno di noi lo ha fatto), senonché tali libri sono in vendita in un solo emporio e strani conciliaboli con il negoziante e qualche battibecco tra i grandicelli e i più piccoli (evidentemente "mandati avanti" per impietosire maggiormente) suscitano più di un sospetto che i libri tornino poi, dietro compenso, al negozio dando luogo a un "riciclo" senza fine.
È un peccato riscontrare e riferire questi episodi, peraltro l'unica nota negativa di un viaggio indimenticabile. Ovviamente, questo spazio è a disposizione di chi mi possa smentire e resta in ogni caso il rammarico che i guasti, anche piccoli come questi, siano portati dal turismo, in ultima analisi da noi che siamo - per quanto involontari - "manifesti" del benessere.
È un tema sempre spinoso, al cui riguardo ciascuno si comporti secondo la propria sensibilità e coscienza: volendo dare una forma di aiuto, da parte nostra ci è sembrato costruttivo, su mediazione del nostro accompagnatore Delmo, recarci - come vedremo - in una scuola per portare penne e quaderni.
Per non parlare dei contributi in varie forme che, chi più chi meno, molti di noi abbiamo inviato dopo il ritorno in Italia.
Ma veniamo allo straordinario luogo nel quale passeremo due giornate intense. Ubicata a 2630 metri, quasi ad anfiteatro sui pendii dei monti Lasta in una conca dominata dalla vetta dell’Abuna Yusuf (4190m), Lalibela fu fondata dalla dinastia Zagwé (1137-1270) che ne fece la propria capitale con il nome di Roha.
Città santa per gli Etiopici quanto lo è Aksum, è senza dubbio uno dei più importanti siti storici, non solo del continente africano, ma dell'intero mondo cristiano per la presenza delle incredibili chiese monolitiche.
Per una curiosa combinazione ho avuto modo, meno di un mese dopo il ritorno dal viaggio che sto narrando, di visitare quell'analoga meraviglia che è Petra in Giordania: il paragone sorge quindi spontaneo.
In entrambi i siti ciò che sbigottisce è che gli edifici (qui chiese, là anche abitazioni, templi, magazzini, tombe, ecc.) siano stati eretti, contro ogni parvenza di logica, non sovrapponendo materiali da costruzione ma scavando la roccia, in sostanza asportando i pieni per ricavare i vuoti a creare l'edificato in un blocco unico. Ma mentre a Petra si scavò in orizzontale su pareti verticali, a Lalibela ciò avvenne verso il basso nel terreno di tufo rossastro, isolando una massa rocciosa per scolpirla sia esternamente che internamente, fino a darle la forma di un edificio. Le difficoltà nell'asportare i detriti - pensando alle risorse dell'epoca - dovettero essere titaniche e si è magari portati a dare credito alla leggenda degli angeli che di notte "davano il cambio" agli uomini nei lavori!
Si ritiene che con questo straordinario complesso di chiese rupestri il negus Lalibela (dal quale il nome poi dato alla città in luogo di Roha) avesse voluto ricreare in Patria, per i cristiani impossibilitati a raggiungere Gerusalemme, all'epoca in mano agli Ayyubidi di Saladino, i luoghi che erano stati teatro della Passione e Resurrezione di Gesù. È così che Lalibela fu concepita come un'imitazione della Terrasanta: è infatti dotata anch’essa di un Golgota, di un sepolcro di Cristo, di un Giordano e di un Sinai. I toponimi della città ricalcano quindi i luoghi di Gerusalemme e, secondo la tradizione, nel visitarli si acquisiscono le stesse indulgenze di un pellegrinaggio al Santo Sepolcro.
Le chiese di Lalibela, che dal 1978 è classificata dall’Unesco Patrimonio Culturale dell’Umanità, sono undici, suddivise in due gruppi: settentrionale e orientale. Quelle di ciascun gruppo sono collegate tra loro da corridoi, cunicoli, sottopassi, gradinature, cortiletti, strettoie. In tutta l'area si incontrano sacerdoti con i paramenti sacri, asceti, semplici fedeli, il che aumenta il senso di santità del luogo, avvertibile anche da chi non sia credente.
Senza scendere qui nel dettaglio delle singole chiese (che hanno in comune la denominazione "Bet" = casa e si differenziano per le caratteristiche architettoniche), basti dire che il visitatore si troverà davanti a un'interminabile sequenza di meraviglie, che si possono ammirare al meglio con una torcia elettrica vista la scarsa illuminazione degli interni: affreschi sui muri interni e sui soffitti, colonne, archi e capitelli intagliati con motivi animali e vegetali, finestre in pietra traforate in forma di croce, nicchie con rilievi di Santi in grandezza naturale, corredi religiosi con antichissimi messali miniati e preziose croci da processione che i monaci ben volentieri mostrano in cambio di un piccolo obolo.
Nelle chiese si entra senza scarpe, che si lasciano all'ingresso in consegna a un custode. Terminata la visita di un gruppo, si uscirà da un'altra parte, dove le si ritroveranno; tranquilli, ci saranno tutte e la mancia sarà quanto mai meritata.
Il pavimento, quasi mai rifinito, è coperto di tappeti, stuoie, drappi e paglia dalla dubbia igiene: conviene quindi portarsi alcune paia di vecchie calze (meglio se spesse), che all'uscita diventeranno un regalo gradito. Raccomandato anche un prodotto antipulci: noi abbiamo adottato l'ottima soluzione di una polvere acquistata in un emporio di forniture agricole, sciolta in acqua e di volta in volta spruzzata sulle calze.
Il GRUPPO SETTENTRIONALE ha per fulcro la Chiesa di Bet Medhane Alem "Salvatore del Mondo", ritenuta la chiesa rupestre più grande del mondo (m.36,5x27), un edificio sostenuto da 34 pilastri che lo fanno somigliare a un tempio greco. Una galleria la collega a un cortile sul quale prospettano la chiesa di Bet Maryam "Casa di Maria" e le cappelle di Bet Danaghel "Casa delle Vergini" e Bet Masqal "Casa della Croce": caratteristiche di quest'ultima, sono alcune grotte ancora oggi abitate da eremiti.
Nella parte occidentale del gruppo, sorgono Bet Mika'el "Casa di Michele" (o Bet Dabra Sina "Casa del Monte Sinai") con la Cappella di Selassie (raramente aperte al pubblico), contenente tre bellissimi altari monolitici, e Bet Golgotha che, secondo la tradizione, custodirebbe il luogo più segreto della città santa, cioè la tomba di re Lalibela.
Leggermente appartata in direzione sud-ovest dal nucleo suddetto, è Bet Giyorgis (San Giorgio): inconfondibile per la sua pianta a croce greca leggermente irregolare, è questa la chiesa meglio conservata, la più scenografica e fotografata, uno dei simboli più riprodotti non solo di Lalibela ma anche dell'Etiopia. Per l'osservatore, è anche quella che più rappresenta l'immane lavoro di scavo che produsse queste chiese: fu necessario asportare 3400 m³ di roccia nel cortile e 4500 m³ per l’interno. Essa è ricavata in un unico blocco isolato nel fondo di un cortile approssimativamente quadrato di circa 19x23m.
Del GRUPPO ORIENTALE, la chiesa di Bet Amanu’el "Casa dell'Emmanuele" è quella concepita e realizzata con maggior rigore architettonico, costituita da un blocco unico di tufo di 17.50x11.60 su un'altezza di 11 metri; è anche una delle più finemente scolpite. Da questa si passa a Bet Marqorewos "Casa di San Mercurio", un insieme di vani che probabilmente in origine non era luogo di culto (la presenza di ceppi per le caviglie fa pensare a un luogo di giustizia) ma lo divenne in seguito. Bet Abba Libanos è la sola chiesa di Lalibela ad essere ipogea, cioè col tetto unito alla roccia sovrastante, ed è circondata su tre lati da una galleria; ad essa collegata da un sottopasso è la cappella di Bet Lehem "Casa del Pane". Bet Gabri’el-Rufa’el, costituita da tre sale e due cortili (sembra che il re Lalibela si rivolgesse alla popolazione proprio dal sommo di questo edificio), si caratterizza per la facciata monumentale sulla quale spiccano le finestre con archi a punta. Da un tunnel si accede all'Amgi Beth Lehem, il forno del pane benedetto.
Vicino a Bet Abba Libanos sorge il "monastero-villaggio" in cui dodici monaci e sei monache vivono tuttora in piccole cavità scavate nella roccia: è un luogo di grande suggestione, accanto al quale passiamo mentre siamo prossimi all'ora del tramonto, ed è anche la conclusione della visita delle chiese nell'abitato di Lalibela.
La giornata di domani sarà dedicate ad alcune di quelle fuori città, non meno interessanti e ciascuna, a modo suo, unica.

Mercoledì 25 ottobre 2006
Dintorni di Lalibela
Anche i dintorni di Lalibela, su un raggio di una quarantina di chilometri, sono ricchi di chiese rupestri: alcune in rovina, altre molto ben conservate, impongono in certi casi trasferimenti lunghi e scomodi, a piedi o con automezzi; alcune sono di grande bellezza, altre modeste ma considerevoli per gli stupendi contesti naturali in cui sono inserite.
Come già per quelle del Tigray, manca purtroppo il tempo per visitarle tutte: sarebbero necessari giorni e giorni, se non settimane, ed è giocoforza fare delle scelte che sono anche, ahimè, delle rinunce.
Per la mattinata, decidiamo di dividerci in due gruppi, un modo di ricavare, perlomeno, una documentazione fotografica di due chiese non avendo modo (e tempo!) di visitarle tutti entrambe.
Ashetan Maryam è situata in posizione spettacolare alla sommità di una montagna di 3150 metri, che si raggiunge da Lalibela con una camminata di circa un'ora e mezza.
Si ritiene che questa chiesa-monastero sia stata iniziata durante il regno di Lalibela, ma portata a termine sotto Na’akuto La’ab nel 1247; è ricavata in un torrione tufaceo di circa 7x8 metri, aderente al monte con i lati N ed E, e all'interno è rozzamente rifinita. Alla semplicità della struttura architettonica fanno però riscontro i magnifici paesaggi attraversati e l'immenso panorama dalla cima, che rendono la fatica dell'ascesa decisamente ben ripagata.
Nel frattempo, il mio gruppo si reca a Gannata Maryam "Giardino di Maria", che sorge non lontano dalle sorgenti del Tekazè a 31 km. da Lalibela; è necessaria un'ora e mezzo d'auto su una strada spesso disagevole più una decina di minuti di salita a piedi in prossimità di un gruppo di tucul dai quali non tardano a uscire le solite frotte di bambini curiosi.
Per la struttura esterna scandita da 24 imponenti colonne rettangolari e l'ubicazione sul fondo di un grossa fossa squadrata, ricorda la già descritta Bet Medhane Alem. Datata con sicurezza al regno di Yekuno Amlak (1270-1285), la ricchezza e la straordinarietà dei dipinti e iscrizioni che rivestono interamente pareti, pilastri e soffitti in una sorta di "horror vacui", rendono questa chiesa di estremo interesse. Le opere pittoriche possono essere suddivise in sei gruppi: soggetti storici, vetero- e neo-testamentari, agiografici, angeli e animali; vale veramente la pena soffermare l'attenzione in ogni angolo dell'interno alla ricerca di particolari a volte sorprendenti (ad es. un volto del Cristo a forma di luna o due elefanti che si guardano), che rendono Gannata Maryam veramente unica fra tutte le chiese di Lalibela e dintorni.
A pochi chilometri, una breve deviazione porta ad una scuola, sicché preghiamo di autisti di portarci e Delmo di introdurci. Si tratta di due prefabbricati bassi e lunghi, resi gradevoli da variopinte raffigurazioni didattiche sulle pareti esterne, opera degli stessi allievi, delle più varie discipline: dalle lettere dell'alfabeto a frasi in inglese, dallo schema di funzionamento del cuore allo scheletro umano, dall'architettura (manco a dirlo, la chiesa di Bet Giyorgis) addirittura alla tavola periodica degli elementi di Mendelejev!
Il nostro ingresso in una delle aule stipate ha del commovente: tutti gli allievi all'unisono schizzano in piedi, per quelli della mia generazione un vero salto indietro nel tempo, quando in aula entrava il "signor direttore"! Ce ne sono di tutte le età, evidentemente qui si radunano ragazzi che vanno dal livello elementare alla media superiore. Regaliamo alcune scatole di penne e quaderni, intrattenendoci per qualche minuto con i tre insegnanti che ci accennano in quali condizioni precarie debbano lavorare, sia per la limitatezza delle risorse che per le difficoltà di convogliare qui allievi che provengono dai tanti villaggi (spesso distanti) della zona.
C'è però da dire (lo feci notare già nella parte introduttiva "Il volto dell'Etiopia") che uno degli aspetti che ci hanno più favorevolmente colpito di questo Paese è proprio l'elevata scolarizzazione: lo si può vedere dalla quantità di studenti - spesso in divisa - che (fatta eccezione per le aree più isolate) si incontrano sulle strade.
Intorno alle 13 ricompattiamo i due gruppi in hotel dove, dopo pranzato, ci dirigiamo alla volta di un altro luogo straordinario oltre che assolutamente singolare.
Singolare è la parola giusta: distante 45 km. a nord-est di Lalibela e raggiunta tramite una strada riassestata negli ultimi anni, Yemrehanna Krestos si differenzia nettamente da tutte le altre chiese per il fatto di non essere scavata nella roccia ma costruita con tecniche tradizionali al riparo di una vasta cavità. Fu fondata dal Negus Yemrehanna Krestos “Ci guidi Cristo”, terzo sovrano della dinastia Zagwe, che regnò dal 1152 circa al 1172, ed è raggiunta in una ventina di minuti, dopo avere lasciato le jeep presso un gruppo di case, tramite un sentiero in salita nella parte finale agevolato da una gradinatura in lastre di pietra. La piccola fatica è alleviata dalla rigogliosa vegetazione in cui si è immersi e dallo splendore della meta.
Su uno slargo tra gli alberi affollato di fedeli in preghiera incombe una larga e profonda caverna del massiccio Abuna Yusuf, su un fronte di circa 45 metri, con un’altezza di 10-12, addentrandosi per oltre 50. Un brutto muro eretto nel 1985 funge da protezione, ma al di là di questo sembra di entrare in un luogo sospeso nel tempo. Sull'originario muro di pietre e fango si aprono due varchi che immettono nel complesso sacro vero e proprio, costituito da due edifici: uno, di m. 17x8, era destinato a riunioni, ospitalità o altri usi monastici, secondo taluni a custodire il tesoro. La chiesa propriamente detta, nelle misure di m.12x9,50, si presenta a fasce alternate bianche e scure, costituite rispettivamente da intonaco e da travi di legno annerito dal tempo. Porte e finestre hanno intelaiature lignee e alcune finestre portano inserite transenne traforate in pannelli di pietra: sono differenti l'una dall'altra e la lavorazione è di grande raffinatezza.
La decorazione interna della chiesa è di impareggiabile bellezza: tutte le pareti, intagliate o dipinte, presentano colori rossi, gialli e azzurri su un fondo comune di colore bruno scuro costituito dal legno tinto originariamente o invecchiato. Gli archi e gli elementi in legno sono intarsiati riccamente, i cassettoni delle navatelle riportano motivi cruciformi, pitture dipinte direttamente sul legno ricoprono il soffitto. I ricchi cicli pittorici raffigurano storie del Nuovo Testamento ed, essendo stati stimati coevi alla costruzione della chiesa, risultano i più antichi d'Etiopia. Di tali meraviglie non abbiamo purtroppo documentazioni fotografiche: l'interno è del tutto buio (solo una volta l'anno, in occasione di una ricorrenza, viene illuminato), l'uso del flash è vietato e dobbiamo accontentarci di quello che riusciamo a vedere con le torce elettriche.
Verso l'interno della grotta sono presenti alcuni sepolcri scavati, uno dei quali sarebbe quello del fondatore Yemrehanna Krestos; infine, a ridosso di un secondo muro a secco, sono raccolte alla rinfusa numerose mummie o cadaveri disseccati naturalmente, resti di monaci o semplici fedeli che vollero essere sepolti qui.
Tornati agli automezzi, sottostiamo volentieri al consueto bagno di folla dei bambini del villaggio (è una delle cose che più ci mancherà al termine del viaggio) e rientriamo a Lalibela per l'ultimo pernottamento, non senza una sosta per ammirare l'ennesimo tramonto sul meraviglioso paesaggio etiopico.

Giovedì 26 ottobre 2006
Lalibela - Kombolcha (km. 260)
Lasciamo con rimpianto Lalibela, anche se l'addio sarà stemperato dalla visita all'ultima chiesa dei dintorni, ubicata a soli 7 chilometri dalla città, quella di Na’akuto La’ab, fondata dall'omonimo successore del negus Lalibela nonché suo nipote.
Ricavata - un po' come Yemrehanna Krestos, ma più in piccolo - in una grotta naturale ad anfiteatro che si apre su una parete rocciosa, già da lontano la si scorge in basso dal sentiero che si dipana tra una fitta vegetazione di alberi di alto fusto, agavi, euphorbie e felci (una quindicina di minuti dal parcheggio).
E' una struttura semplice delimitata da un muro esterno e da alcuni interni, eretta probabilmente su un sito di culto molto più antico, nella quale si aggirano monaci e fedeli che contribuiscono al senso di serenità trasmesso dal luogo. La chiesa custodisce diversi tesori che si dice siano appartenuti al suo fondatore, tra cui croci, corone e una bibbia miniata, mostrati da un anziano monaco in cambio del solito piccolo obolo. Alcuni vecchissimi recipienti di pietra disseminati sul pavimento sterrato raccolgono fino all'ultima goccia l'acqua che sgocciola dal tetto della grotta, considerata santa.
Il tragitto fra Lalibela e Woldya, già nota località che è bivio con la n. 1, avviene solo in parte lungo la strada dell'andata, il che ci consente di ammirare scenari ancora diversi, la cui bellezza non decanterò ulteriormente per non sembrare monotono.
Tornati sulla via principale, una deviazione sulla destra (ovest) indica la Piana di Uccialli, famosa per il trattato del 1889 fra Etiopia e Italia la cui discrepanza nella traduzione fu una delle cause scatenanti della Guerra che portò alla battaglia di Adua.
In parte frenati da lavori stradali e da un paio di forature (ne ho fatto cenno nella parte introduttiva, non è passato giorno senza che ne capitassero, a questa o a quella macchina), sono ormai le 18 quando raggiungiamo il Lago Hayk: situato a 2030 metri di quota, nella luce bassa del tramonto ci regala giochi di colori e riflessi di grande suggestione. Un istmo collega la terraferma all’isoletta di Santo Stefano, di forma quasi triangolare e impreziosita da monumentali sicomori, in cima alla quale si eleva la chiesa circolare di Endà Estifanòs, strutturata analogamente ai monasteri del Lago Tana. Un primo luogo di culto sarebbe stato qui costruito nell’850 da un ignoto re e battezzato Dabra Naguadguad “convento dei tuoni”, che raggiunse grande fama nel XIII sec. con Iyasus Mo’a, monaco del Dabra Damo.
La chiesa attuale, aperta solo agli uomini, più nulla ha dell’antico convento, eccezion fatta per il più antico manoscritto conosciuto recante la propria datazione: il libro dei quattro vangeli realizzato per il monastero nel 1280-1281. Purtroppo, l'apertura avviene solo per le liturgie; inoltre la tenuta "disinvolta" del custode, svogliatamente accorso, fa indovinare senza sforzo che sia stato distolto dal progetto di una bella nuotata nel lago, il che non lo rende facilmente disposto a fare un'eccezione. Si limita ad aprire un sedicente museo (leggasi: un capanno), che ospita pochi oggetti ben poco significativi.
Non rimane così che coprire i 50 km. che ci dividono da Kombolcha, dove è previsto il pernottamento, ma non è tutto così liscio: a metà strada dobbiamo infatti fare i conti con l'attraversamento di Dessie, una cittadina di 100.000 abitanti a quota 2470 che si rivela estesissima e, soprattutto, fagocitata da un traffico spaventoso rincarato da cantieri stradali che impongono diverse deviazioni.
Sono quindi quasi le 21 quando entriamo nell'Hotel Tekle, una struttura privata modesta ma ordinata e pulita che finalmente si differenzia dagli alberghi statali tutti uguali di cui abbiamo fatto collezione. Anche la cena, imbandita sotto una piacevole veranda, è degna di nota, così come merita una menzione l'ospitalità del titolare, facilitata da una discreta disinvoltura con la lingua italiana.

Venerdì 27 ottobre 2006
Kombolcha - Addis Ababa (km. 375)
Anche la colazione, meno monotona e impersonale delle solite, conferma i giudizi favorevoli per l'Hotel Tekle, che lasciamo intorno alle 9 per la tappa che ci riporterà ad Addis Ababa, chiudendo idealmente l'anello iniziato tredici giorni fa.
Vale quanto affermato per il tratto da Gondar ad Aksum: la tappa è di puro trasferimento, nel senso che non sono previste soste per visite, ma i grandiosi panorami etiopici non cesseranno di accompagnarci, di tanto in tanti intercalati da piccoli centri abitati e villaggi con la consueta variopinta animazione quotidiana.
Dopo circa 150 chilometri si tocca la località di Dabra Sina, crocevia stradale più o meno a quota 1500; sulla via principale (parola grossa…) si è creato un ingorgo di autocorriere e camion causa un guasto a uno di questi, cosicché approfittiamo del fatto che è mezzogiorno e della presenza di un ristorantino "da camionisti" per fare la pausa pranzo.
Riprendiamo il viaggio sempre in salita costante che, tornante dopo tornante, porta all'imbocco della Galleria Mussolini, un tunnel stradale di 587 metri scavato dagli italiani lungo la strada da Asmara ad Addis Ababa ed inaugurato nel 1938.
Alle due estremità sono tuttora presenziate due garitte con soldato di guardia, un anacronismo che fa sorridere: ci viene infatti raccomandato di non fotografare la galleria… chissà quale valore strategico potrà avere oggi e quale prezzo mirabolante ci pagherebbe la C.I.A. per un'immagine, in tempi in cui con Google Earth chiunque può guardarci in casa! Sono aspetti di questo Paese che fanno davvero tenerezza.
Siamo in breve ai 3100 metri del Passo di T'armaber, dove l'Etiopia ci riserva l'ennesima insospettata sorpresa: un nebbione fittissimo che impedisce la visuale fra un'auto e la precedente! La sosta in uno scenario così ovattato ha una magia tutta particolare, ben presto completata dal consueto accorrere di bambini, che ormai non ci stupisce più a dispetto della visibilità vicina allo zero e dell'isolamento del luogo. Un altro bellissimo momento del viaggio.
Riprendiamo la marcia con cautela, finché, ormai in vista di Dabra Berhan che si scorge in basso a quota 2840, si fa largo una schiarita sempre più ampia. Gli ultimi 130 km. che rimangono sono tutti su strada agevole e senza ulteriori impicci raggiungiamo la capitale e il già noto Hotel Hilton giusto in tempo per una buona doccia e la cena.

Sabato 28 ottobre 2006
Addis Ababa - Lago Wenchi e ritorno (km. 310)
Esaurito con soddisfazione il programma "ufficiale", l'ultima giornata in terra d'Etiopia è dedicata a una delle classiche gite "fuori porta" degli abitanti della capitale.
Non per questo, però, si pensi a una meta banale, anzi! Anche oggi ammireremo paesaggi di struggente bellezza, in un rigoglio di vegetazione lussureggiante, lungo un percorso che ci farà di nuovo superare i 3000 metri di quota.
Lasciata l'interminabile periferia di Addis Ababa, dirigiamo in direzione ovest fino a raggiungere dopo 125 km. Ambo, materializzazione del nome che fin dal primo giorno abbiamo imparato: si tratta infatti della zona in cui sgorga e viene imbottigliata l'acqua minerale più diffusa in Etiopia.
Deviamo ora verso sud per altri 30 km., con meta il Lago Wenchi, un bacino quotato 2880 metri che occupa il cratere di un vulcano spento. Si lasciano le auto sui uno spiazzo intorno a quota 3100, dal quale un sentiero scende fino al livello dell'acqua: purtroppo ce ne manca il tempo, per cui ci limitiamo a una passeggiata di mezz'ora fino a un belvedere dal quale si gode una vista da favola sul profilo frastagliato del lago, al cui centro emerge un'isoletta con una chiesa.
Sulla cornice del cratere sorge anche un piccolo villaggio, i cui abitanti evidentemente possono contare su ottime coltivazioni favorite dalla fertilità del terreno vulcanico e dall'umidità della regione. E' l'occasione per l'ennesimo - l'ultimo - contatto con grandi e piccini, idealmente l'addio (o chissà, l'arrivederci) alla fiera gente d'Etiopia.
Manca solo l'epilogo. Con un filo di commozione ci raduniamo negli uffici di Splendor Ethiopia dove esprimiamo con Delmo e il titolare Getachew Gebrehiwot la reciproca soddisfazione per la perfetta riuscita del viaggio, suggellandola con l'ottima cena finale (massì, in un ristorante italiano!), presenti proprio tutti: noi, gli autisti e lo staff dell'agenzia.
A mezzanotte in punto, come già all'andata da Roma, decolliamo da Addis Ababa lasciando il suolo etiopico.
Ed è già nostalgia…

In fase di consuntivo di un viaggio indimenticabile, alcuni doverosi riconoscimenti:
* Grazie ad Alberto per l'organizzazione impeccabile e l'immenso apporto informativo, di consulenza e revisione al presente resoconto, ma soprattutto di amicizia.
* Grazie ad Anna, Sandro e Valentino per alcune foto gentilmente concesse.
* Grazie a tutti gli altri partecipanti (in rigoroso ordine alfabetico Beppe, Carlo1, Carlo2, Daniela, Eugenia, Jane, Laura, Lino, Sergio, Silvia, Susy) per esserci stati!
* Grazie all'accompagnatore/interprete locale Delmo, ai cinque infaticabili autisti, al sig. Getachew Gebrehiwot di Splendor Ethiopia di Addis Ababa, che ho avuto il piacere di rincontrare quattro mesi dopo alla B.I.T. di Milano.

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