Andare per borghi nell'entroterra di Albenga

Un’intensa giornata nell’entroterra ligure di ponente, una terra prodiga di infinite sorprese

Più volte, nei numerosi resoconti sulla Liguria scritti per Ci Sono Stato, ho raccomandato di andare oltre i luoghi comuni che sono associati alla mia regione. Intendo dire che la Liguria non è soltanto l’Acquario di Genova, le Cinque Terre, il Parco di Portofino, la mondanità di San Remo e le tante attrattive delle pur bellissime località costiere.

Non tutti, fra i “foresti” che vengono a visitarla, sanno che quella della Liguria, al di là della vocazione marinara che non può non essere peculiare di un territorio costituito da una sottile striscia affacciata sul mare, è soprattutto una civiltà di terra: lo si desume dalla cerchia di montagne che la coronano, severe nonostante in linea d’aria distino dal mare poche decine di chilometri; dalle coltivazioni, spesso ricavate e caparbiamente curate rubando terreno a pendii talvolta impervi; dalle vie storiche di comunicazione commerciale protese verso nord; da una cucina povera basata sui prodotti della terra e solo successivamente anche sulla pesca; da tante altre realtà locali - e arriviamo alla tematica di questo “invito al viaggio” - radicate negli innumerevoli centri abitati sviluppatisi spesso lungo le valli scavate dai tanti fiumi (non di rado a regime torrentizio) che scendono verso il Mar Ligure.
Un ottimo esempio di quanto sopra è rappresentato dalle Valli di Albenga, un’area che mi è particolarmente cara per la bellezza dei borghi che vi sono insediati, oltre che le infinite opportunità per gli appassionati di escursionismo di cui faccio parte. Non a caso sul sito ho già trattato più volte quelle zone, sia con resoconti sia con video: Valle Argentina, Val Neva, Val Pennavàira, solo per fare degli esempi.
E’ ora la volta di un giro, ideale per occupare una giornata con visite non frettolose, che tocca tre località una più bella dell’altra, fra loro vicine ma profondamente differenti per storia, posizione e struttura urbanistica: Balestrino, Castelvecchio di Rocca Barbena e Zuccarello.

In cucina

Come riferito nella nota introduttiva, la gastronomia delle valli liguri è tipicamente “di terra” e molto legata alle produzioni locali, più di qualità che di quantità. L’ulivo e la vigna danno oli e vini di grande rilievo, mentre la piana di Albenga è tra le aree italiane più rinomate per gli ortaggi; ottimo anche il miele in differenti varietà.
Nelle valli sono numerosi i ristoranti e le trattorie, che propongono i piatti semplici ma gustosi della tradizione: spiccano le paste fatte in casa, i ripieni, le torte di verdure, i funghi, le carni bovine, ovine e di cacciagione.
Dei locali della zona trattata cito solo quelli di cui ho esperienza diretta o referenze affidabili, ma in linea di massima è difficile mangiar male:
* A Balestrino (nel paese nuovo): La Greppia.
* A Castelvecchio: Osteria del Ponte da Malco.
* A Zuccarello: Usteria du Burgu e Il Torchio, l’una di fronte all’altra sulla piazzetta esterna alla Porta Soprana.

Proposta di itinerario

Avendo per punti di partenza e arrivo due uscite autostradali attigue della A10 Genova-Ventimiglia (noi l’abbiamo effettuato in quello antiorario, ma il senso di marcia è indifferente), si compie in pratica un anello di circa 35 chilometri fra i caselli di Borghetto Santo Spirito e di Albenga. Si percorrono strade provinciali molto panoramiche ma inevitabilmente ad andamento tortuoso che consigliano una certa attenzione nella guida.

BALESTRINO

Usciti dall’autostrada a Borghetto Santo Spirito, sono subito evidenti le indicazioni stradali per la S.P. 60 che si segue per 4 km fino a Toirano per poi deviare a sinistra sulla S.P. 34. La strada prende gradualmente quota fra terrazze coltivate a ulivo finché a un tornante a circa 8 km oltre il bivio si scorgono quasi all’improvviso i ruderi del vecchio Balestrino che digrada da un pendio, con il nuovo paese sorto leggermente più in alto.
Ancora poche centinaia di metri portano all’ingresso dell’abitato moderno (quota m.371), con il Municipo sulla destra e il piazzale di una chiesetta a sinistra, sul quale si può parcheggiare: da qui un sentiero sul fianco del Castello consente di intraprendere la visita di uno dei luoghi più singolari della Liguria. Ma non solo della Liguria: non a caso, siti specializzati annoverano Balestrino fra le venti “ghost towns” più caratteristiche del mondo.
Un breve cenno storico: intorno all’anno Mille i Bava furono i primi signori del feudo di Balestrino e dell'intera vallata costruendo alle pendici della rocca Curaira il primo nucleo del Castello. Nel XII secolo il feudo passò ai marchesi Del Carretto, una delle più potenti e longeve famiglie nobiliari del Savonese che verso la metà del ‘500 ampliarono il Castello alle dimensioni attuali. Nonostante i frequenti contrasti fra i Del Carretto e gli abitanti dovuti alla durezza del loro governo, Balestrino ebbe lunghi periodi di floridezza grazie all’attività di mulini, frantoi e fornaci diventando una sorta di capitale economica della valle e godendo anche una certa autonomia dalla - all’epoca potentissima - Repubblica di Genova.
Fra il 1962 e il 1963 segni sempre più evidenti di cedimento del terreno causato da dissesti idrogeologici causarono lo sgombero dei residenti, sistemati nelle abitazioni del nuovo paese che stava sorgendo a breve distanza in posizione più sicura. Il processo avvenne gradualmente, anche perché molti abitanti - in specie i più anziani - erano restii ad abbandonare le case in cui erano nati e vissuti: l’ultima fu una vecchietta che si rassegnò solo nel 1972.
La visita ha inizio dalla strada ai piedi del Castello (oggi di proprietà privata e non accessibile), che offre una veduta d’assieme del borgo in rovina, già di potente suggestione. Due tornanti in acciottolato portano alla sottostante piazza (ormai sterrata e disseminata di erbacce - come del resto l’intero abitato) che era probabilmente il fulcro della vita sociale: vi prospettano la chiesa di Sant’Andrea, la facciata di un edificio con una meridiana ormai cancellata, alcune botteghe nemmeno più identificabili, il torrione cilindrico noto come “pilone” ai cui piedi avvenivano i giudizi e le esecuzioni capitali.
Da qui in avanti non ha senso suggerire un itinerario di visita: meglio “perdersi” fra gli incanti delle stradine che si diramano dalla piazza, dei piccoli slarghi, dei sottopassi, dei saliscendi, inoltrandosi anche all’interno delle abitazioni (con la dovuta cautela ed evitando i piani alti a causa dei pavimenti sconnessi e dei tetti sfondati), spesso premiati dalla scoperta di dettagli sorprendenti.
Non mancano piccole concessioni all’estetica ancora individuabili, come fregi sulle facciate esterne, minuscole edicole votive scrostate, tracce di affreschi sui muri interni, un soffitto a volta dipinto in rosso pompeiano. Prevalgono ovviamente i segni del Tempo, come parti di edifici ridotte in macerie o le scalinate ammantate di muschio o le architravi squinternate o le radici che progressivamente avviluppano in un abbraccio mortale i muri simboleggiando - come in una Angkor in miniatura - la forza della Natura che fagocita l’opera dell’Uomo.
Curiose, e talvolta pure commoventi, sono le testimonianze di una quotidianità che in certi casi rendono l’idea dell’abbandono repentino del borgo da parte degli abitanti di cinquant’anni fa: una bicicletta arrugginita, un recipiente in alluminio per il trasporto del latte, un macchinario per cardare la lana, una tramoggia per il grano, uno scarpone squarciato, vecchie stufe di ghisa incrostate di nerofumo, stoviglie che, se non fosse per lo spesso strato di polvere, sembrerebbero quel che resta di un pasto interrotto bruscamente pochi giorni fa.
Al termine della visita sorge spontaneo vagliare l’opportunità o meno di un recupero del vecchio borgo, una questione da tempo aperta e controversa al cui riguardo - a parte la mole e i costi dei relativi lavori - personalmente sono molto perplesso: al pensiero di una “valorizzazione” (termine dal quale prendo sempre le distanze) che stravolga il “genius loci” originario, magari portando qui scolaresche chiassose e i grossi pullman turistici, reputo impagabile il vagare fra questi ruderi, magari in una giornata uggiosa, circondati da un silenzio di tanto in tanto interrotto da un soffio di vento fra gli alberi, dal cigolio di una porta, dal fruscio di un gatto nell’erba o da scricchiolii di assestamento che ci piace però attribuire a una delle misteriose entità che popolano le tante leggende ispirate da questo luogo fermo nel tempo.
Non desta stupore che Balestrino abbia pure ispirato il mondo del cinema: nel 2009 vi furono girate molte scene del film “Inkheart - La leggenda del cuore d’inchiostro”.
Ad ulteriore completamento, consiglio il documentario "Ghost Town - Balestrino: il fascino antico di un borgo fantasma", visibile cliccando QUI

CASTELVECCHIO DI ROCCA BARBENA
Lasciata Balestrino, si prosegue sulla S.P. 34 fino al bivio di Ca’ de Berna (km.4), deviando poi a sinistra sulla 44. Altri sette chilometri portano a un tornante dal quale si ammira la prima e più celebrata veduta su Castelvecchio, ormai ad appena un centinaio di metri dal parcheggio: questo è stato oculatamente ricavato da una rotonda stradale rialzata, dimodoché risulta un incomparabile belvedere dall’alto sul borgo nella sua interezza.
Arrivando da Balestrino, non si può non notare il contrasto fra la cupezza di quello e la luminosità di Castelvecchio dovuta alla sua posizione dominante.
Il paese è situato infatti alla sommità della Val Neva a quota 420 ed è collegato (un’alternativa all’auto per chi disponga di più tempo e sia disposto a camminare per poco più di un’ora) a Zuccarello con una storica mulattiera di 2,5 km. ottimamente messa in sicurezza, in una successione di scenografiche vedute su entrambi i borghi.
Come si può arguire, il nome del paese è riferito al Castello che domina il paese e tutta la sottostante vallata; eretto con evidenti scopi militari, visse le ripetute dispute legate alle dominazioni dei Clavesana e dei Del Carretto fino alle vicende dell’era napoleonica. A partire dal 1997 provvidenziali interventi conservativi hanno consentito di salvaguardare dal degrado l’imponente edificio, un ottimo esempio di residenza fortificata.
Un’altra veduta di grande suggestione, assai istruttiva per comprendere l’impianto urbanistico di Castelvecchio, si ha dal piazzale panoramico nella parte bassa del paese in prossimità della Parrocchiale dell’Assunta, degli antichi lavatoi e di un’inconfondibile torre completamente avvolta di edera rampicante: verso la bassa valle, con le fasce coltivate a vigna e ulivo, si notano con evidenza le stratificazioni di roccia sedimentaria molto antica che prende il nome di “verrucano”; verso l’alto ci si può invece fare un’idea della struttura del borgo, con le case digradanti “a cascata” dal Castello, tipiche per le facciate scure in pietra a vista sulle quali spiccano le finestre incorniciate di bianco, quasi a rappresentare un presepio permanente.
Addentrandosi nell’abitato, ci si trova nel cuore di un reticolato di “carruggi” stretti e tortuosi, scalinate ripidissime, sottopassi angusti e bui che talvolta obbligano a procedere di fianco o ad abbassare il capo, case-fortezza collegate da tratti di mura e da archi, a formare un tutt’uno di straordinaria compattezza. Raggiunta, districandosi in questo vero e proprio labirinto, la sommità del borgo, si possono individuare alcune torri di guardia che si alzano tra i tetti del paese, la cui architettura originaria è rimasta per fortuna inalterata nel corso dei secoli, e ben si comprende quanto potesse essere ardua la conquista del castello da parte di eventuali assedianti. Purtroppo, giunti a un doppio sovrappasso a schiena d’asino che costituisce uno degli angoli più pittoreschi, un cancello impedisce di raggiungere, se non proprio il Castello, almeno la base delle sue mura: infatti, come ci viene riferito, il complesso è oggi proprietà di privati.
Nella struttura urbanistica di Castelvecchio si possono osservare alcune strutture curiose; una è costituita dalle coperture a terrazza o “a volta sfuggente” spesso sovrastate da essiccatoi, localmente denominati “vissà”; un’altra consiste nei forni sporgenti in forma di semicupola dai muri esterni, ingegnoso espediente per non togliere spazio ai locali interni già piuttosto piccoli.
La seconda parte nel nome del borgo è riferita alla vicina Rocca Barbena, un massiccio montuoso alto 1142 metri fatto di rocce impervie, torrioni e pareti verticali che ricordano le forme dolomitiche. L’accesso più semplice alla cima avviene con un’escursione di poco più di un’ora dal Colle Scravaion, un valico a quota 820 raggiungibile da Castelvecchio con una strada di 8 km prodiga di splendidi panorami.

ZUCCARELLO
Lasciata Castelvecchio, sei chilometri di un tratto fra i più spettacolari della S.P. 582 consentono, grazie a numerosi tornanti, di perdere 290 metri di quota raggiungendo i 130 di Zuccarello, in pratica il fondovalle inciso dal fiume Neva che dà il nome alla valle.
È opportuno posteggiare la macchina sull’ampio piazzale all’esterno (lato nord - ne esiste uno più piccolo lato sud) del borgo murato, peraltro precluso al traffico motorizzato, e inoltrarsi a piedi lungo le stradine del paese. L’impianto urbano è caratterizzato da una direttrice principale (via Tornatore) affiancata da portici, scanditi da tozze colonne - alcune squadrate e ricoperte, altre cilindriche di recupero lasciate in pietra grezza - con capitelli romanici a cubo, sotto i quali si affacciavano i laboratori artigiani e le botteghe, in parte a tutt’oggi ben conservati.
Alle due estremità dell’asse viario sono tutt’ora presenti due torri in pietra che affiancano le porte ad arco: la Porta Soprana o del Piemonte a nord e la Porta Sottana a sud: una volta chiuse, esse rendevano difficilmente espugnabile il borgo, con le case protette lato monte da mura addossate alla collina mentre dall’altro poche viuzze perpendicolari hanno sbocco sul Neva che fa da difesa naturale. Uno di questi stretti passaggi coperti immette sullo scenografico ponte medioevale a schiena d’asino che costituisce la “cartolina” di Zuccarello, uno dei più belli della Liguria; raggiunta la sponda opposta del fiume, si può ammirare una delle più classiche vedute delle valli di Albenga, con il ponte in primo piano sullo sfondo della sfilata di case che si alzano direttamente sulla riva rocciosa.
Degna di nota è la parrocchiale di San Bartolomeo, rimaneggiata nel Seicento lasciando però intatto l’elegante campanile in pietra a vista del XIII secolo; all’interno spicca una bella “cassa” in legno dipinto da processione, una forma d’arte tipica del Savonese e del Genovesato. L’abitato è dominato dalle rovine del Castello dei Del Carretto, nel quale nacque Ilaria Del Carretto, esponente di una delle famiglie (un’altra fu quella dei Clavesana) più importanti nella storia del Ponente ligure. Andata in sposa a Paolo Guinigi, signore di Lucca, morì nel 1405 all’età di 26 anni dando alla luce la secondogenita: Ilaria è immortalata nel celebre sepolcro marmoreo di Jacopo della Quercia del 1408, uno dei massimi capolavori dell’arte scultorea che si può ammirare nel Duomo della città toscana, mentre esternamente alla Porta Sottana di Zuccarello ella è raffigurata in una bella statua bronzea a grandezza naturale.

Lasciata Zuccarello, per chiudere il nostro anello non resta che guadagnare Albenga e il relativo casello autostradale. Sono 10 km sulla S.P. 582 lungo i quali si toccano gli abitati di Martinetto, Conscente (deformazione di “ad confluentem”, trovandosi alla confluenza del Neva e del Pennavaira) e Cisano sul Neva, da qualche anno diventata meta degli amanti dello shopping per la presenza di un vasto outlet di grandi marche.
Non approfondisco qui Albenga, meritevole di un capitolo a parte essendo uno dei più grandi e ricchi centri storici della Liguria.

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