Sei Yamaha xt in Mongolia

Avventura su due ruote nella terra di Gengis Khan

Noi siamo in sei: Renzino, Sergio 1 (Serjei), Sergio 2 (Balos), Massimo, Ferruccio e Adriano, il sottoscritto.
E le moto? Due Tenerè 600, due XT 550, una XT 600 e una TTE. Hanno al loro attivo complessivamente parecchie centinaia di migliaia di km percorsi su tutti i terreni. Dall’Islanda al Marocco, dall’Egitto a Capo Nord, dalla Russia alla Turchia. Ma questa è la prima volta che le nostre moto vengono spedite, ed è stata una spedizione sofferta a causa dei ritardi subiti.VENERDI’ 10
Partenza! Percorriamo 5 chilometri di strada poi, appena usciti dall’infernale traffico di Ulaan Baatar come d’incanto l’asfalto sparisce. Ha lasciato il posto ad una larga pista, frequentata da diversi veicoli: camion, auto 4x4, moto locali, pullman.
Abbiamo sospirato le nostre moto per una settimana e ora che siamo in sella non ci ferma più nessuno. Almeno fino a che, dopo una cinquantina di km, la TTE di Renzino perde la parte posteriore del telaio con annessi bagagli nell’ennesima buca.
E’ un bel problema, ma fortunatamente sopraggiungono due jeep di turisti francesi: consegniamo loro tutti i bagagli e ci rimettiamo in viaggio, non prima di esserci dati appuntamento a Lun, un villaggio distante 80 km.
Dopo 25 km, nel bel mezzo del nulla, noto qualcosa che potrebbe essere un’officina: Renzino ed io ci fermiamo e riusciamo a farci saldare il telaio, anche se non come vorremmo noi.
Mentre siamo intenti al lavoro sopraggiungono gli altri quattro, superano lentamente il luogo dove siamo e proseguono. Non ci hanno visto e li ritroveremo dopo 50 km.
Riparato il telaio Renzino ed io ripartiamo. La pista è veloce e ampia, stiamo procedendo allegramente quando noto in mezzo al tracciato qualcosa di strano: è una testa di mucca, presumibilmente il povero animale è morto da poco. Ma dov’è il resto del corpo?
Proseguiamo fino a che la pista diventa poco più di una traccia, poi sparisce. La direzione è giusta ma manca la strada. Non ci rimane che addentrarci nella steppa tra cespugli e creste sabbiose sino a quando in lontananza vediamo un camioncino passare in un gran polverone: è la nostra pista, dista almeno una decina di chilometri. Continuiamo nella steppa talvolta aggirando ostacoli, talvolta scavalcandoli sino a che ci immettiamo nuovamente sulla pista.
Ogni tanto incrociamo un veicolo in una nube di polvere, ma il peggio viene quando dobbiamo sorpassare qualcuno che va nella nostra stessa direzione: bisogna seguirlo con cautela tenendoci controvento, poi al momento buono superarlo a destra o sinistra, qui nessuno si formalizza. Sperando nel mezzo del sorpasso di non finire nella sabbia alta, che ci fa sempre vedere i sorci verdi.
Arriviamo a Lun dove ci ricongiungiamo con gli altri, facciamo benzina e proseguiamo.
La pista è insidiosa: a tratti abbastanza lisci, che permettono velocità di 90-100 km/h, si alternano tratti con buche profonde che mettono a dura prova i telai e le sospensioni.
Dappertutto ci sono aquile, ferme ai lati della pista, che si alzano in volo al nostro passaggio oppure che ci accompagnano volando a pochi metri da noi. Poi marmotte in abbondanza, che scavano profonde buche dove ogni tanto finiamo dentro. Ad un tratto vedo un branco di gazzelle in lontananza, che nell’avvicinarmi scappano con lunghi balzi.
Giungiamo nei pressi di un gruppo di gher, la tenda circolare in uso da tutti i popoli nomadi asiatici, dove un gruppo di uomini e donne ci invita ad unirsi a loro. Stanno brindando a non so cosa e la Vodka scorre in abbondanza: noi assaggiamo giusto per farli contenti e ci fermiamo mezz’ora, quando comincia ad alzarsi un vento fortissimo. Nel volgere di pochi minuti inizia a formarsi una nube di sabbia: noi salutiamo tutti, c’infiliamo i caschi e ripartiamo.
Al tramonto arriviamo a Karhorin, l’antica Karakorum, dove piantiamo le tende in una verdissima distesa.

SABATO 11
In mattinata visitiamo l’antica capitale Mongola poi ci rimettiamo in viaggio. Percorse alcune decine di km ci fermiamo in una splendida vallata, con cavalli e pecore al pascolo. La nostra pista si perde in lontananza nella valle proseguendo per un centinaio di km mentre alla nostra sinistra si eleva una catena di montagne aspre e sassose.
La nostra formazione di viaggio prevede di tenere un paio di minuti di distanza uno dall’altro per evitare di ingoiare troppa polvere, ragione per cui dopo una sosta di mezz’ora io riparto. C’è un ponte crollato e guado il torrente, poi riprendo la pista e proseguo. Viaggio allegramente per 5 minuti poi rallento, per vedere se arrivano gli altri. Non notando polvere in lontananza mi fermo ma dopo qualche minuto decido di ritornare: qui non arriva nessuno.
Ritorno al luogo dove ci eravamo fermati ma non c’è anima viva: seguo le tracce dei pneumatici e scopro che i miei compagni hanno preso la pista delle montagne.
Anche questa pista conduce a Tsetserleg ma è più lunga; io decido di riprendere quella che avevo gia iniziato a percorrere.
Viaggio in solitaria per un paio d’ore finchè arrivo a un bivio: faccio un rapido calcolo e decido di ripartire, gli altri sono sicuramente ancora indietro e questo non è il posto più bello per aspettarli. Splende un sole abbacinante e non c’è un filo d’ombra neanche a pagarlo a peso d’oro.
La pista sembra aver subito un bombardamento, è una serie ininterrotta di buche che mettono a dura prova il bagaglio e le sospensioni. Spesso esco dal tracciato e procedo parallelamente in fuoripista, dove il fondo è migliore.
Altri 50 chilometri e arrivo al villaggio di Tsenhare e, incredibile! C’è un boschetto! E’ il posto ideale per attendere gli altri: mi appoggio ad un albero e schiaccio un pisolino.
Dopo mezz’ora non arriva ancora nessuno e io decido di ripartire e andare a Tsetserleg, che dista una trentina di km. I primi 10 sono infami, con un tracciato pieno di cunette e buche che sconquassano me e la moto. Poi, non credo ai miei occhi! Ecco un tratto asfaltato. Basta schivare le buche e riesco anche a tenere una buona media, peccato che duri solo 10 km poi ricomincia lo sterrato.
Arrivo a Tsetserleg e subito ho l’impressione di un paese disastrato, costruito nel mezzo di un deserto. C’è una pista di volo in terra battuta, sulla carta segnata eufemisticamente come aeroporto. Faccio un giro per il paese cercando un negozio dove comprare un po’ d’acqua ma non trovo nulla. Le vie sono scavate nella sabbia, sembra d’essere in spiaggia. Giungo ad un certo punto e decido di tornare, ma nel girarmi mi sbilancio e la moto finisce in terra. Non c’è nessuno in giro e la rialzo da solo, rischiando un’ernia al disco. Riparto e in quel mentre suona il telefono. Da non crederci! Mi ero disabituato al cellulare. Invece in questo buco di paese c’è ricezione.
E’ Renzino: lui e Massimo sono a Tsenhare, il villaggio dove mi ero fermato poco prima ad aspettarli, e mi stanno cercando: la XT di Ferruccio è in panne 20 chilometri prima.
Ripercorro i 35 chilometri appena fatti e incontro i miei due compagni che , fermi di lato alla pista, mi stanno aspettando. Insieme torniamo al galoppo sulla pista appena percorsa, troppo al galoppo! Dietro una curva mi aspetta uno spesso strato di sabbia dove entro con la ruota anteriore, con conseguente capitombolo.
Ho rotto l’attacco di una borsa posteriore e le forcelle si sono torte, ma le raddrizzo appoggiandomi alla moto di Massimo. Quando raggiungiamo gli altri li troviamo intenti a rimontare la XT, che nel frattempo ha deciso di ripartire.
Torniamo a Tsenhare e nonostante siano solo le 18 decidiamo di accamparci: la moto di Ferruccio ha bisogno di attenzioni. Piantiamo le tende e prepariamo i soliti spaghetti mentre Ferruccio si dedica alla riparazione del serbatoio dell’olio della sua XT, che perde copiosamente. Il tutto mentre subiamo l’assalto di una nuvola di grossi moscerini, che fortunatamente non mordono…
Nella notte riceveremo la visita di una mandria di yak che verranno a leccarci le padelle da noi incautamente abbandonate, e di quattro cani randagi che ci terranno compagnia fino al mattino, quando ce ne andremo non prima di averli sfamati con i biscotti avanzatici.

DOMENICA 12
La mattina rieccoci a Tsetserleg, dove facciamo rifornimento: da questo paesello la pista inizia ad arrampicarsi su per la montagna. Il paesaggio diventa alpino, attraversiamo alcune pinete con radi alberi sino a giungere a quota 2600 metri. Qui la pista comincia a scendere per qualche centinaio di metri fino a livellarsi in un’immensa vallata, che prosegue per quasi cento chilometri. Ci fermiamo verso l’una in una locanda persa in mezzo al verde, attratti dalle aquile che vi volteggiano sopra. Mangiamo una scodella di zuppa, ossia tagliolini cotti con pezzi di carne grassa di montone.
Nel pomeriggio arriviamo al Lago Bianco e decidiamo di darci una rinfrescata. In quel mentre Renzino scopre di avere la ruota anteriore a terra: la smontiamo e la ripariamo. Si è pizzicata la camera d’aria nell’urto con una delle tante pietre. Finito il lavoro ci concediamo un bagno nell’acqua limpida di un affluente del lago, poi ripartiamo.
Ora la pista si stringe e ritorna ad arrampicarsi sulla montagna, passando dai terreni sabbiosi che ci mettono in difficoltà nella guida a fondi duri, rocciosi, che mi fanno temere per l’incolumità delle camere d’aria. Siamo completamente fuori dal mondo, mi aspetto sempre di trovare un orso in mezzo alla pista dietro la prossima curva.
Incontriamo una coppia di ragazzi svizzeri che hanno viaggiato attraverso la Siberia con un camion 4X4, ora stanno girando per la Mongolia poi ritorneranno via Siberia-Russia sino casa.
Verso il tramonto ci accampiamo nei pressi di una pineta, dove una mandria di yak sta pascolando beatamente. Montiamo le tende mentre un branco di cavalli ci passa galoppando a nemmeno cento metri di distanza, affiancati da un mandriano a cavallo. Poi i cavalli rallentano e si fermano a brucare accanto alle tende, mentre il ragazzo che li accudisce si accovaccia in silenzio a pochi metri da noi. Gli offriamo una sigaretta per rompere il ghiaccio: accetta e ci aiuta a montare le tende, poi ritorna ad accovacciarsi qualche metro indietro godendosi lo spettacolo di noi che montiamo le brandine e prepariamo le pentole con gli spaghetti.

LUNEDI’ 13
Il mattino pioviggina, smontiamo il campo e indossiamo le tute impermeabili. Renzino scopre di avere perso la sua e ripiega sul poncho che Ferruccio utilizza per coprire la moto di notte (altrimenti “prende freddo…”).
Viaggiamo tutta la mattina e verso mezzogiorno arriviamo in un paese, Jargalant, dove facciamo rifornimento. E’ un paese in stile Far West, con due file di case in legno e al centro un’ampia via centrale larga 50 metri. Naturalmente tutto in terra battuta, con qualche rara, scassatissima, vecchia automobile e numerosi cavalli sellati legati ai pali. C’è una locanda, e parcheggiate davanti ci sono due Yamaha XTE targate Belgio. Entriamo e conosciamo i proprietari, due uomini e una donna che stanno viaggiando verso la Cina. Chiediamo come contano di entrarvi e se hanno i visti, ci rispondono che venderanno le moto poco prima del confine e proseguiranno in Cina il loro viaggio con mezzi pubblici.
Stiamo conversando quando si apre la porta della locanda e fanno il loro ingresso i due svizzeri, e in mano hanno un pacchetto scuro: la tuta impermeabile di Renzino! L’hanno trovata il giorno prima lungo la pista, e per una fortunata coincidenza ci hanno rincontrati in questo paese.
Quando ripartiamo usciamo dal villaggio e subito ci troviamo ad un bivio: prendere la pista in direzione Ovest, che è la nostra direzione, o prendere invece quella che va a Nord (più bella) sperando che poi devi verso Ovest? Decidiamo di seguire quella che va subito a Ovest, sperando sia quella giusta. Le cartine che abbiamo sono totalmente inaffidabili, e quasi sempre dobbiamo inventarci la direzione anche con lunghi tratti fuori pista.
Scendiamo da una ripida collina con 20 cm di sabbia come fondo, ma Renzino cade e rimane con la gamba sotto la moto. La fiancatina si è strappata nella caduta e la marmitta preme direttamente sul polpaccio. Prima che si possa togliergli la moto addosso riporta un’ustione ampia una decina di cm, ustione che d’ora in poi bisognerà curare e disinfettare giornalmente sino al ritorno a casa. Ripartiamo e dopo alcuni km cadono anche Serjei e Ferruccio, e quest’ultimo si storce una caviglia rimasta sottola moto.
La pista è disagevole e infida, e la sabbia è un trabocchetto ricorrente. Spesso procediamo tenendoci qualche metro di lato al tracciato, dove il fondo è migliore e non è segnato dal passaggio di altre ruote. Ci rendiamo conto di avere sbagliato pista ma non è possibile tornare indietro, non riusciremmo a risalire la collina sabbiosa di prima e in ogni caso la direzione è quella giusta.
Poco prima del tramonto arriviamo a un villaggio dove facciamo una sosta, vorremmo acquistare acqua e pane. Nel volgere di pochi minuti siamo attorniati da uomini, donne, anziani, bambini. Sono simpatici e cordiali, qualcuno si infila il casco di Ferruccio mentre gli fa indossare il proprio cappello. Un altro sale sulla moto di Balos facendolo poi provare a montare sul suo cavallo. E sul più bello chi arriva? Ma i due svizzeri, naturalmente.
Va a finire che ci fermiamo tutti insieme a mangiare la solita scodella di tagliolini accompagnati con pezzetti di carne di montone. Come dessert ci danno foglioline di ricotta essiccata: sembrano quasi ostie e sono dolcissime.
Dopo uno scambio di indirizzi ci salutiamo e ripartiamo, fermandoci dopo 20 chilometri su un altopiano dove piantiamo le tende.

MARTEDI’ 14
La notte è stata gelida, siamo a 2000 metri di altitudine e la temperatura è di 1 grado sopra lo zero. Ferruccio zoppica vistosamente e la scottatura di Renzino va tenuta disinfettata e ben pulita, ma bisogna mettersi in viaggio. Ci scaldiamo con una tazza di caffè e ripartiamo.
C’inoltriamo in una zona caratterizzata da vaste dune di sabbia color polenta: la pista inizialmente era larghissima, tanto che procedevamo affiancati su un fronte di qualche centinaio di metri. Poi ha iniziato a restringersi e ora vi è solo un accenno di traccia. Ci chiediamo se questa sia quella giusta, o se senza accorgercene abbiamo abbandonato il tracciato principale per una vecchia pista che non porta da nessuna parte.
Invece verso l’una giungiamo in un villaggio dove facciamo rifornimento. Sono tutte casette in legno e su una di queste adocchiamo un’insegna che parrebbe quella di un luogo di ristoro: decidiamo di entrare per dare un’occhiata.
Due ragazze gentilissime ci mostrano la loro cucina: un grosso pentolone, scaldato usando combustibile organico, troneggia nel centro della stanza. All’interno i soliti tagliolini, il piatto tipico ( e unico) delle zone più povere.
Mangiamo la nostra zuppa poi usciamo: una piccola folla si è radunata attorno alle nostre moto e la gente ci chiede dettagli: quanto fa? Quanto consuma? Da dove veniamo?
Nel mezzo della strada c’è un grosso cane nero: è morto, ma nessuno sembra curarsene.
Salutiamo tutti e ci avviamo lungo quella che sembra la nostra pista, ma che va infilandosi sempre più in una zona sabbiosa. Fatichiamo a restare in piedi, in certi tratti dobbiamo procedere a passo d’uomo sorreggendoci con i piedi.
Fortunatamente dopo un po’ ritroviamo un fondo decente, che ci permette di aumentare l’andatura.
Costeggiamo un’ampia vallata con un fiume che vi scorre al centro, e tutt’attorno foreste di pini: questa è una delle poche zone dove abbiamo incontrato alberi in quantità.
In Mongolia le piste che attraversano i lunghi tratti pianeggianti procedono su un fronte ampio anche una cinquantina di metri, con 4 o 5 tracciati che viaggiano parallelamente. In questi casi noi ci disponiamo ognuno in un tracciato e procediamo quasi affiancati.
Quando questi tracciati diventano troppo profondi o dissestati i mongoli li abbandonano e se ne inventano altri alcune decine di metri più in là. Succede che i vecchi tracciati restano e si coprono di vegetazione, e quando il povero motociclista che viaggia fuori pista nella steppa ne incrocia uno e non riesce a rallentare in tempo si becca una botta dell’accidente. Talvolta si cade, come oggi è successo prima a me a causa un tratto di sabbia alta poi a Serjei, finito appunto in una profonda pista in disuso; oppure si rompe il portapacchi o addirittura il telaio, come invece è capitato alla XT 550 di Balos.
Lo teniamo unito usando i ferri smonta gomme e nastrando il tutto, poi ripartiamo. Un paio di ore dopo giungiamo in un villaggio di pastori ma non hanno la saldatrice. Proseguiamo e verso le 18 arriviamo in un paese abbastanza grosso, dove ci indirizzano presso un’officina meccanica.
E’ un grande cortile delimitato da una staccionata, ed al centro vi troneggia un’enorme generatore che utilizza un motore di un vecchio camion russo per produrre energia elettrica, in quanto nel paese non ce n’è.
Ci fermiamo un paio d’ore per la riparazione attorniati da tutti i bambini del posto, e quando ripartiamo è buio. Ci allontaniamo dal paese una decina di km e abbandoniamo la pista per accamparci, ma alla luce dei fari illuminiamo alcune tombe; procediamo allora per altri 5 minuti poi ci fermiamo, spegniamo le moto, prepariamo l’acqua per la pasta e montiamo le tende.

MERCOLEDI’ 15
Il mattino presto ci vede già in viaggio, tenendoci sempre a debita distanza l’uno dall’altro per non mangiare troppa polvere.
La moto di Balos perde benzina dal carburatore, ma proviamo a procedere lo stesso sperando si sblocchi la valvola a spillo. Invece dopo pochi chilometri dobbiamo fermarci e smontare il carburatore per pulirlo.
Tendiamo un grande telo per fare un po’ d’ombra in modo che chi lavora non debba abbrustolirsi al sole. Nemmeno un’ora dopo la moto è a posto e ripartiamo, addentrandoci tra le montagne. Dopo una curva incontro quattro splendidi avvoltoi neri, grossi come tacchini. Spengo la moto e tento di estrarre la cinepresa ma quelli volano via, lasciandomi a imprecare contro la cerniera che si è inceppata.
Arriviamo ad una deviazione e scegliamo la pista che punta verso le montagne. C’infiliamo attraverso paesaggi collinari su un tracciato che va stringendosi sempre più, sino a scomparire. Ci inventiamo di tutto per non tornare indietro: Massimo ed io andiamo in esplorazione alla ricerca di uno sbocco, Massimo si arrampica su per un pendio sperando di trovare la pista ma niente da fare: dobbiamo ritornare sui nostri passi.
Al bivio stavolta prendiamo verso la pianura e dopo avere percorsi almeno 70 km incrociamo la pista principale, dove ci buttiamo per recuperare il tempo perso.
Ora il percorso è abbastanza buono e riusciamo a tenere velocità di 90-100 km/h. Viaggiamo in un’ immensa, arida pianura in un calore abbacinante: la sabbia della pista è bianca, come bianco è lo scenario che stiamo attraversando. In lontananza si intravede una catena montuosa ma non sappiamo a che distanza sia: l’aria è talmente calda e tremolante che inganna la percezione di distanza.
In questa piatta pista vedo in lontananza una nube di polvere: è una vecchia auto che va nella nostra stessa direzione. Tenendomi controvento la raggiungo e la supero, aspettandomi che i miei compagni facciano lo stesso. Invece questi si posizionano alcune decine di metri dietro all’auto senza superarla. Evidentemente Ferruccio, che è il secondo, non ritiene di sorpassare e preferisce ingoiare una montagna di polvere (e farla ingoiare agli altri 4).
Io accelero e vado da solo, tenendo d’occhio gli specchietti. Quando vedo che non arriva nessuno mi fermo e aspetto qualche minuto sino a che vedo sopraggiungere l’auto con sempre dietro il gruppo di moto. Poi riparto, sperando che Ferruccio si decida a superare. Tiro oltre i 100 km/h cantando a squarciagola nel casco chiuso, poi di nuovo mi fermo ad aspettare.
Ad un tratto noto un gruppo di cammelli a fianco della pista, sono animali stupendi e mi fermo a scattare qualche fotografia. Nel mentre arriva il gruppo auto compresa, e riparto. Via di nuovo allegramente sul dritto, finché la pista disegna una “esse” con l’attraversamento di un “oued”, il percorso di un fiume in secca. Quando risalgo dal oued mi fermo come al solito ad aspettare: arriva l’auto ma dei miei amici nessuna traccia. Esco di lato alla pista e li aspetto, può darsi che si siano fermati anche loro a scattare alcune foto ai cammelli.
Passano 5 minuti e decido di tornare sui miei passi: viaggio a 110 km/h per 10 minuti poi mi fermo: non si intravede anima viva. Controllo le tracce e noto il passaggio di varie ruote da moto: ma allora sono gia passati da qui. Perché non li ho visti? Ritorno a manetta sino al punto dove mi ero fermato ma nulla: c’è traccia di pneumatici ma non riesco a capire in quanti sono o se invece sono le mie tracce.
E se si fossero accorti di avere perso qualcuno e fossero tornati indietro a cercarlo? Mi ributto sulla pista per 15 km sino a giungere al luogo dove mi sono fermato a fotografare i cammelli e controllo le tracce: qui sono sicuramente passati e non sono tornati.
E allora? Possibile che abbiano deviato uscendo dalla pista lungo questo tratto, sapendo che io ero più avanti? Ritorno seguendo le orme dei pneumatici e per la terza volta rieccomi ad attraversare l’oued, ma non c’è nessuno. E sicuramente nessuno è passato oltre a qui.
Parcheggio e scendo, sto guardando bene le tracce quando con la coda dell’occhio vedo passare un paio di caschi: sono Renzino e Serjei che mi stanno cercando. E finalmente si chiarisce l’inghippo: nel arrivare all’inizio della “esse”, una prima curva a sinistra poi una a destra, Ferruccio aveva deciso di superare l’automobile sulla destra senza avvedersi che la pista girava a sinistra. Un piccolo tracciato secondario proseguiva dritto in discesa e tutti i miei amici l’avevano imboccato, deviando così dalla pista principale.
Proseguiamo sul tracciato secondario in quanto gli altri sono più avanti e poco dopo ci ricongiungiamo. Chiarito l’equivoco riprendiamo il viaggio, ma ben presto ci rendiamo conto che questa pista secondaria è un disastro: il fondo sta diventando sempre più sabbioso e ci crea parecchi problemi. Talvolta percorriamo lunghi tratti con sabbia alta 20 cm, il che ci obbliga a procedere quasi a passo d’uomo aiutandoci con i piedi.
Decidiamo di uscire di pista tagliando verso Sud-Ovest per andare a intercettare la pista principale. Procediamo nella steppa per diversi km su un percorso parecchio accidentato, ma almeno il fondo è abbastanza duro. Ad un tratto incrociamo una vecchia pista abbandonata, profonda una trentina di cm. Prendiamo tutti una bella botta ma la moto di Renzino accusa il colpo: si spacca nuovamente la parte posteriore del telaio e perde il bagaglio al completo.
Dopo un’ora di lavoro riusciamo a rimetterlo in sesto, legandolo con i soliti smonta gomme e due pezzi di ferro. Si lavora sotto il sole cocente del pomeriggio e al momento di ripartire bevo un sorso d’acqua: nonostante sia quasi calda mi sembra un vero nettare.
Proseguiamo fuori pista per una ventina di km sino a che incrociamo la pista iniziale, sulla quale ci immettiamo. E’ meglio di quella che abbiamo lasciato, anche se è piuttosto disastrata. Spesso usciamo dal tracciato mantenendoci a pochi metri e viaggiando affiancati, chi a destra e chi a sinistra del percorso.
Riusciamo anche ad insabbiarci in un tratto particolarmente soffice e ne veniamo fuori sfrizionando e spingendo con i piedi. Renzino arriva in una curva sparatissimo e finisce a gambe all’aria, fortunatamente senza conseguenze.
Io piombo in velocità dentro una grossa buca: la moto vi entra e riesce ad uscirne con il posteriore alzato di 30 cm. Nell’atterraggio della ruota dietro prendo una botta dell’accidente e si spacca il portapacchi e un tubo del telaio; non mi lamento, sono rimasto in piedi per miracolo. Il bagaglio si è inclinato indietro di parecchi gradi ma rimane al suo posto: ci diamo tutti quanti una bella calmata e
la marcia riprende.
Nel tardo pomeriggio arriviamo a Ulaangom, una cittadina abbastanza importante. C’è un posto di controllo, l’unico per ora trovato in Mongolia, e ritroviamo l’asfalto. Siamo distrutti, sporchi luridi, affamati (il pasto di mezzogiorno spesso ce lo dimentichiamo…), 3 moto hanno urgente bisogno di essere saldate e quella di Ferruccio ha problemi di accensione: si spegne e per un’ora non riparte più.
C’è un distributore di benzina e riempiamo i serbatoi: al momento di ripartire noto che la gomma posteriore di Balos è sgonfia, un chiodo l’ha bucata. Mentre 3 di noi riparano la ruota gli altri vanno a cercare un albergo e un saldatore.
E’ ormai buio che facciamo ingresso in una locanda, dove possiamo finalmente farci una doccia e dormire in un letto.

GIOVEDI’ 16
Appena svegli andiamo da un saldatore che in poco più di un’ora sistema i portapacchi e i telai rotti.
Anche la moto di Massimo fa i capricci ma la sistemiamo e verso le 10 siamo tutti pronti a partire. Seguiamo la strada asfaltata per 20 km poi deviamo su una pista sterrata in direzione Ovest: l’asfalto ci porterebbe invece a Nord in Siberia.
Incontriamo una carovana in trasferimento: è composta da una decina di cammelli che procedono allineati, da un gregge di pecore e capre e da un branco di cavalli. Tutta la famiglia segue a cavallo: un uomo, la moglie, un ragazzo e due bambini di 6-8 anni.
I mongoli imparano a cavalcare sin da piccoli, è normale vedere bambini di 6-7 anni che accudiscono le greggi stando in sella al loro cavallino.
Giungiamo ad un passo a 2400 metri di altitudine da dove si ammira un panorama mozzafiato: montagne innevate si stagliano verso Nord, sono i monti Altay che sconfinano in Siberia. A Ovest la pista scende in una vastissima pianura, dove numerosi piccoli laghi la obbligano ad un percorso tortuoso.
Da lassù vediamo due piste principali che vanno nella nostra direzione: una va a Sud-Ovest e l’altra a Nord-Ovest. Chiediamo indicazioni a un gruppo di persone e queste ci indicano senza dubbio la pista di destra. Poco più avanti altre persone ci danno come buona la pista di sinistra. Che fare?
Chissenefrega, vanno entrambe verso Ovest e sono una più bella dell’altra. Punto verso quella di sinistra, a Sud-Ovest, seguito uno alla volta dal gruppo.
Procediamo in un paesaggio fantastico, la pista è bella e filiamo veloci per parecchi chilometri. Poi si restringe ed inizia ad arrampicarsi verso una montagna per poi ridiscenderne, per incontrarne dopo poco una successiva.
Aquile appostate sul bordo della strada attendono sino all’ultimo, e quando giungo a una decina di metri da loro si girano e spiccano il volo per posarsi pochi metri più in là. Talvolta mi fermo e riesco a filmarle prima che se ne vadano: uno spettacolo maestoso. Noto però che cominciamo ad assuefarci, e transitare in moto a pochissimi metri da un’aquila è diventato per noi una cosa normale come lo è per i Mongoli.
Un grosso gregge sulla pista ci costringe a fermarci, e nell’attesa che si sposti possiamo notare che è sorvegliato da una bella donna a cavallo, accompagnata dal figlioletto anche lui sul suo cavallino da dove non arriva neppure alle staffe.
Ora la pista è diventata pietrosa e dobbiamo fare lo slalom tra grossi sassi. Ad un tratto Balos scivola e va a sbattere contro uno di questi, spaccando il carter del magnete.
E’ un grosso guaio, l’olio è uscito e il carter è sfondato verso l’interno. Lo smontiamo e mentre Ferruccio inizia la riparazione del grosso buco io smonto il volano alla ricerca dei vari pezzetti d’alluminio che si sono fermati all’interno. Visto che la sosta si prevede andrà per le lunghe Massimo e Renzino preparano l’acqua per la pastasciutta: almeno una volta mangeremo anche a mezzogiorno!
Ferruccio fa un lavoro da certosino: ritaglia da una borraccia che conteneva grappa (non prima di averne ingollato il contenuto) un pezzo d’alluminio da 3x3 cm e lo incolla sulla spaccatura utilizzando acciaio liquido, che non manca mai nei nostri viaggi.
Mentre il metallo si asciuga mangia un piatto di spaghetti, per tornare poi a dare un altro strato di collante.
Verso le quattro possiamo ripartire: la moto di Balos trasuda qualche goccia d’olio ma è un’inezia, in confronto al danno che aveva.
Siamo fuori dal mondo, persi tra valli e montagne. Sto procedendo in mezzo a grosse rocce e prati quando incontro un piccolo pullman: sono militari con tanto di bandiera sventolante sul davanti del veicolo.
A quanto pare è da parecchio che non vedono anima viva: scendono tutti e inizia la festa. Arrivano anche i miei compagni e i discorsi si sprecano, alternando il russo al dialetto bresciano. Sono una ventina e tra loro ci sono anche quattro ragazze, tutte ben messe.
Tra fotografie e filmati ci fermiamo una mezzora, poi il loro capo si informa sulla nostra direzione. Dapprima ci sconsiglia di transitare dal passo verso cui siamo diretti, dicendo cheq è chiuso. Ci consiglia di deviare a destra sulla pista più bassa ma gli viene in mente che c’è un fiume: è in piena e l’acqua supera abbondantemente i 120-130 cm.
Gli facciamo capire che il livello è troppo alto per le nostre moto, allora ci da indicazioni per arrivare al passo. Insiste però che la strada finisce alla sommità e ce lo fa capire incrociando le braccia sul petto.
Quando ripartiamo ci accompagnano suonando il claxon e sbracciandosi, poi noi andiamo per la nostra strada.
Capisco subito cosa voleva dire il capitano: la pista è diventata una traccia che si arrampica sulla montagna, tra pietre e pozzanghere. Dobbiamo procedere in prima a passo d’uomo, su un tracciato da trial con un bagaglio di oltre 40 kg.
Ferruccio ha la moto più pesante e cade varie volte, e dopo un’ora di patire finalmente arriviamo quasi alla sommità del passo.
Siamo a 2600 metri di altitudine in una zona paludosa, è prossimo il tramonto e soffia un vento dell’accidente. E la moto di Ferruccio cosa fa? Ma si spegne, naturalmente.
Bisogna sapere che Ferruccio ha caricato la sua moto con tutto e di più: pare che con più abbia roba e più sia contento. Per smontare il bagaglio, la sella ed il serbatoio impiega un’ora e altrettanto ci vuole per rimontare il tutto. E bisogna anche sapere che la sua moto ha preso il vizio di spegnersi un paio di volte al giorno, facendo impazzire il sottoscritto poiché quando finalmente è spogliata di tutto e si potrebbe accedere ai vari componenti…decide di ripartire.
Stavolta invece sostituisco la bobina ma non si accende, smuovo una matassa di cavi…e via che va in moto.
Nel bel mezzo dell’operazione sopraggiunge un furgoncino Uaz che si ferma: si apre lo sportello e iniziano a scendere donne, uomini e bambini. Conto 11 persone che vengono a curiosare, poi risalgono e se ne vanno. E’ incredibile come i mongoli vadano dappertutto con questi scatolotti!
Anche stavolta non riesco ad individuare la causa ma non c’è tempo: sta venendo buio e dobbiamo scendere a valle. Rimontiamo in fretta il bagaglio e finalmente arriviamo in cima al passo, giusto in tempo per accorgerci che la traccia finisce.
C’è un corso d’acqua che scende dalla montagna e passa in mezzo all’erba scavando solchi profondi una ventina di cm, micidiali per le ruote delle nostre moto. Il tutto in mezzo a pietre e pozzanghere.
Io e Massimo iniziamo cautamente a scendere: il percorso è insidioso e siamo continuamente con i piedi a mollo. Ad un tratto ci giriamo per controllare gli altri e…disastro!!! 3 moto sono a terra e Ferruccio sta urlando. Piantiamo lì le nostre e torniamo correndo: Ferruccio è caduto ed è rimasto con la caviglia già distorta sotto la moto, e sta urlando dal dolore.
Arrivano prima gli altri che gli tolgono la moto di dosso, ma lui resta a terra tra rigagnoli di acqua e continua a urlare.
La situazione è critica, ormai è quasi buio e siamo ancora in cima. Io e Massimo gli proponiamo di scendere a valle subito, lasciare giù una moto e risalire in due con l’altra. Poi lo caricheremo sulla moto e l’altro scenderebbe con la sua.
Lui rifiuta, il dolore non è più così lancinante e vuole salire in sella. Lo aiutiamo e lo sorreggiamo per qualche tratto, poi torniamo a prendere le nostre moto e le portiamo giù un altro pezzo, e via così. Quando arriviamo a valle è buio pesto, ci sono parecchie gher e i pastori con le loro famiglie sono tutti fuori per vedere gli extraterrestri che sono appena arrivati.
Chiediamo loro se hanno una gher da affittarci ma ci rendiamo conto che è un’impresa impossibile: in ognuna di esse ci sono 7-8 persone, dove andrebbero?
Troviamo un posto abbastanza pianeggiante e alla luce dei fanali montiamo il campo: siamo a 2300 metri e fa freddo ma non abbiamo alternative.

VENERDI’ 17
La notte trascorre tranquilla, pur con i cani dei pastori che vengono a gironzolare tra le tende. Al mattino riceviamo la visita di tutti i bambini dell’accampamento e anche qualche adulto. Noi beviamo un caffè e partiamo.
Inizia a piovere e indossiamo le tute impermeabili. Questo ha i suoi vantaggi: la sabbia bagnata non è così micidiale e non c’è polvere. Procediamo per un paio d’ore finché la moto di Ferruccio si spegne. Ci risiamo: solita ora per smontarla, dopodiché sostituisco lo statore. Altra ora per rimontare il tutto e ripartiamo.
Viaggiamo altre due ore e di nuovo la moto si arresta. Penso a un filo che non fa contatto, apro la matassa dei cavi elettrici e di nuovo la moto riparte.
Arriviamo in uno squallido villaggio in mezzo alle paludi e ci domandiamo come la gente possa viverci: nugoli di fameliche zanzare ci tormentano e non ci danno tregua.
Chiediamo indicazioni sulla pista e alcune donne ci indicano una direzione. La seguiamo ma finiamo di nuovo per perdere la traccia, e altre persone ci indicano tutt’altra direzione. Usciamo dal villaggio percorrendo un sentiero in mezzo alla vegetazione finché ci troviamo sulla riva di un torrente. Lo guadiamo ma è solo una ramificazione, siamo di nuovo di fronte ad un altro corso d’acqua.
Stiamo procedendo a tentoni, tenendo la direzione Ovest, ma la pista ormai non esiste più. Guado anche questo corso d’acqua ma mi rendo conto che mi sto infognando sempre più e torno sui miei passi. Gli altri sono in attesa, li raggiungo e in quel mentre sbuca dalla vegetazione un cavallo montato da due ragazzini.
“Turgen!” grido loro. Quelli continuano a ridere ma mi fanno cenno di seguirli. Partono al galoppo nel greto del fiume e noi dietro. Guadano un affluente e noi li seguiamo: l’acqua è abbastanza alta e il cavallo non ha il filtro dell’aria come le moto, per cui loro non hanno problemi mentre noi ci impiantiamo in mezzo al pietrisco. Ad un certo punto la moto di Serjei si spegne in mezzo all’acqua e dobbiamo aspettare che riparta. A Massimo viene una mezza idea che quei due si stiano divertendo alle nostre spalle e a momenti li fa scappare: invece alla fine ci tirano fuori dai guai portandoci sulla pista giusta, altrimenti saremmo là che giriamo ancora adesso.
E’ una pista che passa in mezzo a una zona paludosa e quando entriamo nelle pozzanghere non sappiamo mai se l’acqua è alta pochi cm o se affonderemo fino al motore. Percorriamo parecchi km in queste condizioni, talvolta ci piantiamo nel fango e dobbiamo spingere per uscirne. Proviamo ad uscire fuori pista ma è peggio: sembra di essere in una risaia con l’acqua che è a filo dell’erba.
Finalmente usciamo da questa palude e ci buttiamo sul percorso: viaggiamo in mezzo alle pietre ma almeno viaggiamo. Entro sera dobbiamo arrivare a Tsaagaannur, un villaggio al confine con la Siberia.
La pista ora devia dalla pianura e si infila in una gola per parecchi chilometri, mi accingo ad entrarvi quando noto che gli altri sono scomparsi dagli specchietti. Torno indietro qualche centinaio di metri ed eccoli fermi: la moto di Ferruccio non va più.
Lui la prende a calci, a pugni, la insulta, penso la brucerebbe volentieri ma niente da fare: lei non va.
Cambiamo tattica e iniziamo una partita a carte, tanto tra poco partirà da sola. Invece dopo parecchie mani ancora non arriva corrente e dobbiamo smontarla. Sostituisco la centralina e rimontiamo il tutto e via, ripartiamo.
La strada sale di quota attraversando vallate con accampamenti di gher e greggi di pecore, l’aria è fredda e dai comignoli delle tende esce fumo. Giungiamo a Tsaagaannur nel tardo pomeriggio stanchi, infreddoliti ed affamati. Facciamo benzina e cerchiamo un bazar dove acquistare acqua e pane. E’ un villaggio in muratura stile messicano con le abitazioni verniciate di bianco, e sembra disabitato. Invece troviamo un negozietto che ha appena sfornato delle pagnotte calde che divoriamo in un amen. Compriamo anche formaggio e birra, poi ci viene un’ispirazione: siamo oltre i 2000 metri e c’è un vento freddo dell’accidente: se piantiamo le tende stanotte ci congeliamo. Perché non chiedere al proprietario se ci affitta una stanzetta?
Inizialmente rifiuta, poi però interviene Ferruccio, addetto alle public relations, che lo convince a ospitarci nel magazzino.
Evviva! Portiamo dentro la nostra roba e prepariamo i sacchi a pelo, oltre ai fornelli per la pastasciutta. Uno dei fornelli funziona a benzina ed io e Serjei, non molto pratici, a momenti diamo fuoco alla stanza. Decidiamo così di accenderlo all’esterno, mancherebbe solo di mandare arrosto la casa dopo che sono stati così gentili da ospitarci!
Offriamo un piatto di spaghetti anche ai padroni di casa poi ci buttiamo nei sacchi a pelo, addormentandoci quasi subito.

SABATO 18
Al mattino prepariamo le nostre cose sotto gli occhi curiosi della famigliola che ci ha ospitato, laviamo le pentole usate la sera precedente, poi ci avviamo.
Oggi è il giorno fatidico: tra poco usciremo dalla Mongolia. La strada è sempre sterrata: arriviamo alla dogana mongola ed in capo a mezz’ora siamo pronti a ripartire, per andare ad affrontare quella russa. Proseguiamo sempre in sterrato per la terra di nessuno sino ad arrivare ad una sbarra, al di là c’è un militare russo, una garrita e… l’asfalto.
Poi un’estenuante giornata trascorsa alla dogana russa, finalmente la partenza verso Novosibirsk, la polizia russa che ci tormenterà, il caldo torrido in Siberia, l’incidente occorso presso Samara, Russia, a Balos, le ore angoscianti in ospedale dopo l’intervento di asportazione della milza…
Ma questa è un’altra storia.

ADRIANO

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