Lo Sciliar e l'Alpe di Siusi

Il regno delle streghe!

Sono ritornato sull’Alpe di Siusi lo scorso luglio. Ne mancavo da sette anni e ho colto l’occasione per accompagnare Gino, sicuro compagno di camminate ma nuovo della Val Gardena, nel fantastico scenario del Rifugio Bolzano, belvedere privilegiato da quota 2460 verso il gruppo del Catinaccio.
Intirizziti sulla seggiovia che sale da Malga Frommer ci domandiamo se non sarebbe stato meglio rimanere a fare shopping per le strade di Ortisei insieme con gli amici: infatti siamo avvolti da un nebbione che non permette di vedere il seggiolino davanti al nostro e quando raggiungiamo i 1936 metri dello Spitzbühel i nostri capelli grondano umidità come se avessimo appena fatto uno shampoo.
Ma oggi è il penultimo giorno di questa vacanza dolomitica e rinunciare vorrebbe dire rinviare la gita di un anno. Del resto la dimensione di calma ovattata nella quale ci troviamo immersi regala suggestioni a modo loro incomparabili e ci incamminiamo senza esitare lungo il sentiero n. 5, tagliando in lieve discesa gli splendidi pianori erbosi dell’Alpe che per il momento posso soltanto ripassare nella memoria di precedenti escursioni. La situazione non cambia fino a Malga Santner, che si raggiunge in poco di più di mezzora e che scorgiamo solo quando ci troviamo a pochi metri dalla sua facciata in legno annerito; attraversata poi la passerella sul Rio Freddo e intrapreso il cosiddetto Sentiero dei Turisti, cominciamo a guadagnare costantemente quota sul fianco di un bosco che si fa via via più rado fino a lasciare posto ai mughi per scollinare infine sull’apertissimo scenario dell’Altopiano dello Sciliar.
Qui ci aspetta il premio sperato: verso sud-est si è fatta largo una schiarita sempre più ampia e ci affrettiamo verso il Rifugio Bolzano per guadagnarci alla svelta un posto in prima fila da quello che è giustamente considerato uno dei più spettacolari belvederi alpini. Entriamo nel bell’edificio allo scoccare delle due ore e dieci di marcia, venti minuti in meno di quanto indicano le guide, si vede che il freddo ci ha stimolato: però ho faticato parecchio a tenere il passo di Gino, di dieci anni più giovane e allenato da un’attività fisica ben più costante della mia.
Ci cambiamo gli abiti fradici e ci piazziamo in tutta rilassatezza a contemplare, binocoli e macchine fotografiche ben all’erta, il palcoscenico naturale che si estende davanti a noi: da sinistra a destra si allineano Molignon, Cime di Valbona, Catinaccio d’Antermoia, Torri del Vajolèt, Croda di Laurino, Catinaccio, Coronelle, Roda di Vaèl. Ho sempre pensato che, volendo convincere una persona restia a entrare in contatto con il mondo della montagna, questa sia una delle vedute più “ruffiane” per far cambiare idea: se poi ci aggiungessimo un pernottamento al Rifugio Bolzano per non perdere una sola sfumatura dei colori che tingono quelle cime al tramonto, beh, insomma, la vedo proprio come una scommessa vinta in partenza.
Anche l’interno del rifugio contribuisce a completare le vibrazioni positive che questo altopiano sembra emanare. Nell’ampio salone che ospita la sala da pranzo, con il monumentale camino in ceramica e la quantità di trofei di caccia appesi alle pareti, basta chiudere gli occhi e liberare un po’ di immaginazione per tornare indietro fino ai tempi dell’impero asburgico, quando cioè su queste montagne poteva capitare di incontrare Francesco Giuseppe e Sissi, assidui frequentatori del mondo dolomitico.
Una consigliabile appendice per i gitanti che sono giunti fin qui può essere la passeggiata di un quarto d’ora fino alla croce che contrassegna il Monte Pez, punto più alto dello Sciliar con i suoi 2563 metri.
Un sostanzioso piatto fumante di canederli in brodo, un quartino di Merlot e una bella grappa di genziana ed eccoci pronti a ripartire. Abbiamo tutto il tempo di prendercela comoda, così ci avviamo sul sentiero n. 4, per una traversata in ambiente apertissimo che si sviluppa con qualche modesto saliscendi; lasciamo sulla sinistra il bivio per la Ferrata Maximilian, poco più avanti incrociamo il vertiginoso Buco dell’Orso, un sentierino da capre che sulla destra sale dalla selvaggia Valle di Ciamin, finchè dopo un’ora e mezza raggiungiamo il Rifugio Alpe di Tires, che il tetto rosso rende riconoscibile già da lontano.
Siamo ai piedi del piccolo gruppo dei Denti di Terrarossa, una cresta formata da una successione di curiosi campaniletti e pinnacoli rocciosi, che devono la denominazione alla componente argillosa che li differenzia dalle montagne circostanti.
Di lì in pochi minuti si scollina oltre la Forcella di Terrarossa, affacciandosi così nuovamente sul versante dell’Alpe di Siusi. Un tratto un po’ ripido a tornanti fa perdere velocemente quota, dopodiché un’agevole passeggiata porta in meno di due ore a Compaccio, il punto più caotico dell’Alpe in un brulicare di alberghi e negozietti, dove si può utilizzare il servizio di linea che ci riporta al parcheggio di Malga Frommer.

Per noi uomini di mare che ogni anno veniamo a trascorrere un paio di settimane da queste parti, la prima veduta, più o meno all’altezza di Bolzano, del massiccio dello Sciliar identifica simbolicamente l’ingresso nel mondo dolomitico. Ogni volta, come a compiere un rito consueto ma sempre nuovo, accantoniamo la macchina in uno slargo per qualche minuto e scendiamo per contemplare in silenzio quella compatta muraglia verticale con le punte Santner ed Euringer che sembra ne siano state staccate da due colpi d’ascia sferrati da un titano.
Quello che vediamo costituisce, oltre che il punto culminante, anche l’estremità occidentale dell’Alpe di Siusi, meraviglioso altopiano caratterizzato da ondulazioni coperte da prati destinati a pascolo che si alternano a macchie di conifere su una superficie di oltre 50 kmq, vero paradiso dei camminatori d’estate e degli sciatori in inverno.
Geologicamente, prevale la Dolomia dello Sciliar, tipica formazione di scogliera, vale a dire strati tra i più antichi della regione dolomitica; come è noto, anche se la base è comunque il carbonato doppio di calcio e magnesio, alcuni gruppi presentano particolarità che li rendono unici, si veda ad esempio il Latemar e il Sella, anch’essi trattati in questa rubrica. Percorrendo i sentieri della zona, capita di imbattersi in piccole bancarelle improvvisate dai bambini davanti alle baite o ai fienili, dove si possono trovare bei campioni di minerale: spesso sono impresenziate e si richiede in cambio una semplice offerta sulla fiducia da versare in un barattolo.
Oltre alle bellezze naturali, lo Sciliar è però noto anche per un aspetto tutto particolare, a metà strada tra storia e mito, vale a dire quello delle streghe.
Alla base c’è la credenza popolare dell’esistenza di esseri leggendari, quali le Crestanes e le Salighe, fate benigne che danno aiuto senza chiedere compenso, le malvagie Susanes, che seminano sofferenze e sventure, o le Trute, che tentano di schiacciare col loro peso i dormienti ma si possono tenere lontane conservando sempre in casa tre cose bianche, cioè uova, sale e latte. Figure favolose tutto sommato simpatiche, anche quelle maligne.
Ma si può immaginare quanto i valligiani, ignoranti di leggi fisiche e nozioni scientifiche, potessero essere permeati di superstizioni. Il confine tra leggenda e realtà diventò sempre più indefinito ed ecco che ogni disgrazia, dalla morte di un bambino a un cattivo raccolto, da una malattia alla sterilità di una vacca a qualunque altro evento funesto cominciò ad essere attribuita a stregoneria. Bastava una semplice chiacchiera per scatenare una caccia che portava la sventurata di turno a un processo nel quale si faceva ampio uso della tortura e che immancabilmente finiva con il rogo. Il tutto con l’avallo di autorevoli teologi e di bolle papali; si stima che in Europa tra il 1480 al 1780 siano state giustiziate per stregoneria non meno di centomila persone, in prevalenza donne, ma secondo alcune fonti si può realisticamente aggiungere uno zero a quella già impressionante cifra.
Per quanto riguarda le valli di cui stiamo trattando, non c’è da stupirsi che la fantasia popolare collocasse proprio sullo Sciliar la sede dei periodici raduni delle streghe: il vasto tavolato sommitale, isolato dai paesi ma al tempo stesso facilmente raggiungibile (ancora di più per chi volava a cavallo di una scopa!), sembrava lo spazio ideale per ospitare i festini di diavoli e fattucchiere che affluivano da tutto il Tirolo e oltre.
Chi voglia avere una testimonianza di quel periodo buio, può tuttora effettuare una bella escursione con partenza da Castelrotto: in un bosco nei pressi della frazione Tinosels sono ben evidenti due grossi massi squadrati in porfido, probabilmente sito preistorico di culto solare, assemblea o giudizio, manufatti simili a quelli presso la cima della Bullaccia, meta finale della gita. Per i contadini e i pastori di cinquecento anni fa, tra lo scoprirli e l’indicarli come panche delle streghe il passo dovette essere brevissimo.
Quando finalmente nel codice penale emanato nel 1787 da Giuseppe II d’Austria fu vietata la tortura e abolito il delitto di stregoneria, in breve non si sentì più parlare di streghe, il che la dice lunga su quali punte possa toccare l’abiezione umana finché è legittimata dall’oscurantismo religioso e dall’intolleranza. Sbaglio o da qualche parte succede ancora ai nostri giorni?
Per fortuna oggi possiamo sorridere alla vista di streghe bonariamente raffigurate sotto forma di bamboline, sculture in legno, cartoline e spillette per la gioia dei collezionisti di souvenirs.

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