New York, Boston, Cape Cod, Niagara Falls: essenza di

Due settimane in giro per l’est degli States

Non annoierò i lettori raccontando la storia per cui ho deciso di fare questo viaggio, né i motivi che hanno portato alla scelta dell’itinerario.
Devo anticipare che a parte le prime 4 notti prenotate, per le successive 8 ho cercato di volta in volta una sistemazione che fosse un buon compromesso tra qualità e prezzo, ma non sempre ci sono riuscito.
Ho scelto di dedicare alla visita di New York solamente una minima parte del mio viaggio, perché pur essendo incuriosito da tutto quello che di questa città si dice, si scrive e si racconta, avevo una mia personale interpretazione e potevo immaginare da prima le emozioni e le sensazioni che avrebbe generato in me. Non troverete quindi consigli sulle arcinote City Pass e tessere varie, in quanto ho scelto di non visitare tutte le attrazioni che queste convenzioni comprendevano e quindi per me non sarebbero state convenienti. Inoltre, essendo un convinto assertore dei benefici del moto, ho percorso NY quasi sempre a piedi, arrivando al ponte di Brooklyn dalla 60th Street. Quindi, niente tessere giornaliere, riduzioni o pacchetti famiglia, anche perché ero solo…
In generale, dovrete abituarvi al fatto che la quasi totalità dei prezzi esposti o dichiarati vengono poi corretti con una o più tasse (di stato, della città, di convenzione…), che li alzano di una percentuale che può raggiungere e talvolta superare il 12%.

Ultima informazione: quanto scrivo in queste pagine è frutto della mia memoria (piuttosto scarsa, a detta di tutti i miei amici) e delle poche ricevute e cartine che ho tenuto come ricordo di viaggio. Infatti, durante la visita al MoMA di NY durante il penultimo giorno di viaggio, ho smarrito la mia fedele agendina di viaggio, su cui avevo annotato emozioni e fatti di questa incredibile vacanza. Una volta in Italia, ho anche scritto una e-mail al MoMA chiedendo se qualcuno lo avesse riconsegnato, ma niente... probabilmente qualcuno deve aver riconosciuto in me un futuro scrittore di successo e lo ha tenuto per se come cimelio di valore inestimabile, magari tra qualche tempo saprò che è diventato un best-seller pubblicato in 58 lingue…

Itinerario
24 agosto 2008
Il volo prevedeva due tratte, separate da uno scalo di circa 4 ore a Londra Heathrow. Roma Fiumicino-Londra Heathrow (Alitalia, pace all’anima sua…) e Londra-NY Newark (Virgin Atlantic, ottima compagnia). Questo scalo, ma soprattutto quello di 7 ore del ritorno, mi ha probabilmente permesso di risparmiare qualcosa, circa 550 euro (tasse incluse) acquistando il biglietto su Internet circa 1 mese prima della partenza. Una volta arrivato a Newark alle 18.30 (-5 GMT, 6 ore indietro rispetto all’Italia), ho scelto di utilizzare il pullman che collega l’aeroporto con la stazione di Port Authority, in piena Manhattan. Il biglietto costa 15 $ e il pullman ferma proprio all’uscita del Terminal. Non segnate questa scelta tra le cose da fare, ora vi spiego perché… Beh, perché era un venerdì e ho impiegato quasi 2 ore per arrivare a destinazione. In questo modo, oltre a dare buca a mia cugina che mi aspettava per cena, mi sono anche subito una bella dose di stress appena arrivato. Per evitare che mi dimentichi, vi dico che il miglior compromesso per arrivare a NY è il treno. Dai terminal, un Air Train porta in pochi minuti alla stazione ferroviaria di Newark, da dove, con frequenza piuttosto elevata (circa un treno l’ora), un altro convoglio conduce in circa 35 minuti direttamente alla Penn(sylvania) Station, sulla 34th Street, a pochi isolati dal centro di Manhattan. Il costo del biglietto, che copre entrambe le tratte, è di 15$. No traffic, no stress…e non darete buca a vostro cugino emigrato che vi aspetta a cena (mia cugina, comunque, vive tuttora a Viterbo, era solo un modo di dire…).

Dopo essermi orientato nella incredibile confusione e nell’assordante caos di Manhattan, sono sceso nella metro (40°C) e mi sono diretto verso l’hotel prenotato, il Riverside Studios sulla West 72th Street, al costo di circa 110$ a notte, colazione esclusa e bagno condiviso, un posto che non consiglio nonostante l’aspetto promettente del sito, chiaro esempio di quanto una foto ben fatta possa facilmente indurre in errore. Motivi principali del mio giudizio negativo, l’aspetto inquietante (un incrocio tra l’Overlook di Shining e il xxx di Psycho) e la dubbia pulizia delle stanze.
Arrivato in camera, ho a malapena aperto la valigia e mi sono buttato sul letto, l’indomani mattina avrei preso un pullman molto presto.

25-26-27 agosto 2008
Immaginate di attraversare un bosco silenzioso, di fare jogging tra fattorie e querceti, di raccogliere e mangiare frutti di bosco. Se vi piace il quadretto, quello che dovete fare è programmare qualche giorno fuori da NY, affittare una macchina e guidare per due ore in direzione nord-ovest, verso una località chiamata New Paltz, a poche miglia dallo stupendo parco di Minnewaska. Se ancora non siete convinti, visitate il sito www.hungryghostguesthouse.com. Gestita da una coppia convertita felicemente al veganesimo, questa Guest House è immersa nella natura, a pochi passi da un bosco dove regnano daini e scoiattoli. Potrei dirvi di un bagno notturno nella Jacuzzi all’aperto e di una doccia all’aperto ai margini del bosco. Di sera poi, una volta in camera, vi godrete la romantica penombra di una stanza che osserva il bosco antistante.

Abbiamo visitato una minima parte del grande parco Minnewaska, facendo lunghe passeggiate ai bordi di laghetti incantati (come quello di Mohonk, incredibile e magico con i colori del tramonto), ascoltando il suono new age di cascate spuntate dal nulla, arrampicandoci tra immense rocce e stretti passaggi o semplicemente saccheggiando mirtilli e lamponi a portata di mano. Per tutti questi motivi, e altri che non vi sto a raccontare, siamo rimasti 3 giorni in questo paradiso. Dopo una ricca colazione alla Guest House, a base di marmellate e cibi completamente naturali coltivati da Petra, le giornate trascorrevano piene e veloci, troppo veloci... Per la cena avevamo solo l’imbarazzo della scelta tra una serie di locali di vario genere, ospitati all’interno di quelle tipiche casette di legno colorato che nei film americani sembrano finte. Tra gli altri, abbiamo provato il particolarissimo “The Egg’s Nest”, raggiungibile facilmente tramite la mappa che la stessa Petra vi fornirà.
Il costo del pernotto con prima colazione è di circa 135 $ al giorno, con possibilità di utilizzare tutto quello che mette a disposizione la Guest House. Il bagno è condiviso ma sempre pulitissimo.

28 agosto 2008
Come da tutti i sogni, anche da questo mi sono risvegliato e il quarto giorno ho proseguito da solo il mio viaggio, destinazione Buffalo e cascate del Niagara. Da New Paltz ho fatto due tappe in pullman, la prima verso Albany (cittadina orrenda, incredibilmente eletta capitale dello stato di New York) a 16$ e l’altra verso Buffalo a 65$.
Buffalo è una città che non mi ha suscitato particolari sentimenti, piuttosto anonima seppur vivibile e simpatica. Erano le 18.00 quando sono arrivato alla stazione dei pullman. Ho inconsciamente deciso di pernottare in città anziché avviarmi verso Niagara Falls, sarei arrivato troppo stanco per mettermi serenamente a cercare un posto dove dormire. Così, ho chiesto consiglio ad un passante sugli alberghi in zona e mi sono avviato verso quello che sembrava il più vicino. Si trattava di un hotel della catena Hyatt. Appena arrivato ho creduto di aver fatto il tragitto a vuoto, in quanto sembrava piuttosto lussuoso (rispetto ai miei standard) e quindi al di sopra del mio budget. Alla receptionist molto cortese che mi ha accolto, ho chiesto senza vergogna la sistemazione più economica. Per una notte con colazione ho pagato 112$, tasse incluse. In realtà ho dovuto “accontentarmi” di dormire in una “living room”, praticamente un monolocale da 40mq tutto per me completo di divano, poltrona, tavolo con 8 sedie e bagno. Unico svantaggio, il fatto che il letto era una brandina (è uno svantaggio secondo voi?...). La stanza era al 9° piano e si godeva di una bella vista sulle luci della città. Il tour di Buffalo si è limitato ad una veloce incursione all’interno di un concerto mangiando pizza.

29 agosto 2008
La mattina successiva, dopo una abbondante colazione a base di frutta, yogurt, dolcetti vari, cereali e caffè, ho lasciato la valigia alla reception e alle 7.45 ero già ad aspettare l’autobus urbano numero 40, che con 2 $ e 40 minuti di viaggio porta a pochi metri dall’ingresso americano del parco. Durante il tragitto verso il parco si attraversano una serie di ponti che sovrastano il Niagara, avviato paciosamente verso il fragoroso salto delle cascate. Già da diverse miglia di lontananza, una nube di particelle d’acqua sospese crea un effetto di apparente nuvolosità permanente sopra la grande area del salto.
Una volta entrati nel parco, un reticolo di stradine asfaltate conduce senza possibilità di errore proprio davanti al fiume Niagara, i cui flussi tumultuosi e roboanti stanno per riversarsi verso il salto di oltre 50 metri. Alcuni enormi tronchi d’albero sono in balia dei flutti, incastrati da chissà quanto nel greto del fiume, aspettando quella coincidenza di eventi che li trascinerà, centimetro dopo centimetro, verso un formidabile tuffo. Ho percorso quasi in apnea il sentiero che costeggia il fiume, avvicinandomi lentamente verso le American Falls e “Bridal Veil falls – Cascate a velo nuziale”, per la tipica forma e il colore bianchissimo dei riflessi. Il fatto che fosse venerdì mi ha permesso di godere con relativa tranquillità delle emozioni, stare proprio sopra il salto delle cascate toglie il respiro.
Il lato americano del parco è quello meno scenografico, ma sicuramente il più suggestivo, in quanto consente di affacciarsi dai balconi che stanno proprio sopra i salti d’acqua. Sono indeciso, vorrei fare la crociera “Maid of the Mist” che passando davanti al “Bridal veil” e al “Terrapin point” arriva fino all’immensa area del “Horseshoe Falls – cascate a ferro di cavallo”. Ma allo stesso tempo non vorrei vivere le mie emozioni circondato dal rumore di un motore e dai gridolini di altre 50 persone. Mi convinco ad andare, dirigendomi quindi verso il Visitor Center situato all’ingresso del ponticello che conduce agli ascensori, all’interno della Observation Tower. Il biglietto di ingresso costa 14$ e comprende la dotazione di un k-way blu abbastanza ridicolo, che dovrebbe proteggere dall’abbondantissima pioggia che investirà il natante e tutti i suoi passeggeri. Lo indosso, diventando in tal modo simile agli altri colleghi gitanti, solo un po’ più alto di alcuni e un po’ più basso di altri. Noto sguardi quasi increduli, invasati, credono forse di stare sullo Shuttle... Tranquilli, vorrei dirgli, è solo l’essere umano che prova a sfidare la forza della natura, ma che al momento opportuno tornerà indietro con la coda tra le gambe facendo andare i motori al massimo. E così sarebbe stato. Subito una vista stupenda delle cascate dal basso (“American Falls”, “Bridal veil Falls” e “Terrapin Point”), dove l’acqua si schianta su gigantesche rocce con il peso della sua massa (una portata complessiva di 285.000 litri al secondo durante l’estate) e dell’accelerazione di gravità. E poi il veloce avvicinamento verso l’immenso “Horseshoe falls”, dove le migliaia di tonnellate di acqua e il pauroso frastuono creato annullano per qualche minuto ogni discorso sensato e qualsiasi smania di grandezza. La pioggia che arriva è degna di un uragano, preferisco tornare in coperta per non rimanere bagnato tutto il resto della giornata e soprattutto perché non riesco a vedere nulla, tantomeno posso azzardarmi a fotografare qualcosa con la mia nuda Canon digitale.
E si torna indietro, dopo circa 35 minuti siamo di nuovo al molo di partenza. L’ascensore della “Observation Tower” mi porta di nuovo al livello superiore e, dopo aver dovuto obbligatoriamente attraversare un tipico Tourist Store, proseguo la visita del parco, avvicinandomi ora verso il “Terrapin point”, un fantastico punto di osservazione a metà strada tra “Bridal veil” e “Horseshoe”. Foto, scatti, pose, attore protagonista la cascata in tutte le sue angolazioni e sfumature, che non renderanno mai giustizia alla realtà una volta riprodotte su uno schermo digitale o una carta kodak.
Dopo una doverosa sosta meditativa di fronte all’immenso scenario che avevo davanti, ho voluto fare una passeggiata attraversando la “Goat Island” verso le “Three Sisters Islands”, tre piccoli isolotti situati in mezzo al Niagara, uniti tra loro da piccoli ponticelli. Questa parte del parco, che si raggiunge con una breve passeggiata costeggiando il fiume, è piuttosto isolata e poco frequentata dai turisti, una buona occasione per fare una sosta silenziosa e guardare da lontano la zona delle cascate. Da qui la nube che sovrasta l’Horseshoe è surreale, soprattutto perché alle sue spalle si scorgono le spropositate costruzioni che sorgono tristemente sul lato canadese del parco.
Torno sui miei passi, lentamente mi avvicino alla zona più turistica, laddove il soundtrack è il rumore della cascata e la scena più ovvia è quella del turista ancora umidiccio, entusiasta dell’esperienza “Cave of the winds”, un percorso che arriva a pochi metri dalla cascata attraverso dei cunicoli scavati nella roccia dietro alla cascata. Per quanto mi riguarda sono soddisfatto di questa prima parte della giornata e posso serenamente avviarmi verso il “Rainbow Bridge”, il ponte che conduce verso il lato canadese del parco. Scoiattoli ormai quasi in cattività passeggiano a pochi metri da me, accompagnandomi verso il ponte. Un tornello a gabbia segnala l’imminente uscita dal territorio americano e l’ingresso nella zona di passaggio, il ponte appunto, sul quale una coda di macchine attende il proprio turno per l’ingresso in Canada. Per i pedoni come me, in pochi minuti si raggiunge il gabbiotto della dogana con passaporto in mano e si risponde alle domande di rito (“Cosa stai facendo qui?, Quanto tempo rimani?”) della guardia che nel frattempo appone il visto. Apro parentesi, portate con voi qualche moneta da 25 cent di dollaro USA, in quanto per tornare in terra americana ci vogliono 50 cent in monete da 25c, altrimenti il tornello non si apre…e non ci sono cambiamonete!!! Inoltre, per acquistare in Canada occorre cambiare in dollari canadesi, ma più semplicemente potrete usare la vostra VISA carica di euro.
Una volta usciti dal gabbiotto, i palazzoni che in terra americana si stagliavano davanti, ora sono proprio sopra le vostre teste. Fate finta di nulla e giratevi a sinistra, laddove una serie di aiuole vi accompagnerà lungo la passeggiata scenografica fino all’Horseshoe. Adesso è lì, la enorme massa d’acqua che prima scorreva sotto di voi si trova ora davanti per tutta la sua estensione (le American Falls sono lunghe 335 metri). Proprio così, è arrivato il momento! Vai con lo zoom, potete finalmente dare un senso alla vostra nuova memory card. Percorrendo il vialetto asfaltato si gode di uno spettacolo continuo, le cascate si mostrano da tutte le angolazioni e, seppur nel loro eterno e apparentemente costante movimento, ad ogni passo sembra di vedere qualcosa di nuovo e stupefacente, insomma l’esaltazione della fotocamera digitale!! Continuo la mia passeggiata, costeggiando belle aiuole fiorite e accompagnato da una pioggerella che attenua il caldo di fine agosto. Noto le piccole pozzanghere perennemente alimentate dalle goccioline e penso tra me e me che aggiustando gli intervalli spazio-temporali una minuscola frazione della cascata sta ora cadendomi addosso; preso dalla mia incorreggibile vena sognatrice mi immagino allora a fare il bagno sotto la cascata, in qualche modo giustificando quell’inarrestabile impulso che ha spinto tante persone a lanciarsi nei flutti…
Finalmente, arrivo a ridosso della Horseshoe Falls e posso solo rimettermi alla benevolenza delle decine di persone accalcate per cercare anche io di godermi qualche attimo il Niagara tumultuoso, laddove poche centinaia di metri prima le sue rapide (“Horseshoe rapids”) preparavano le acque al micidiale salto. Dopo aver letto qualcosa sulla storia delle cascate e sui progetti in essere per la loro salvaguardia, lo spettacolo naturale è finito perché spostandosi verso la città retrostante lo scenario cambia drasticamente, in modo quasi surreale. Infatti, dopo aver attraversato una stupenda coltivazione di rose, ed esser salito tramite una scalinata verso una zona tranquilla di prati, sembra all’improvviso di attraversare un tunnel che catapulta direttamente dentro un mondo di giostre e divertimenti, dal casinò al luna park, dai negozi ai fast food. Insomma, abbastanza per decidere di tornare sui miei passi dopo una mezz’ora, non mi manca davvero questo tipo di esperienza. Attraverso di nuovo i tornelli, questa volta verso gli USA (ricordatevi le due monete da 25c!) e dopo aver percorso il Rainbow Bridge affronto vincitore la dogana USA rientrando nel parco. Soddisfatto della giornata, torno verso la fermata del bus n.40 e per le 17 sono in hotel, stanco ma pieno di una giornata densa di emozioni, emozioni che avrei voluto condividere con... (si certo, avete ragione, avevo promesso di non annoiarvi…). Comunque, la giornata finirà piuttosto tardi, perché alle 23.30 ho il pullman per Boston, mi aspetta un bel viaggio di 10 ore.

30 agosto 2008
Eccomi a Boston, sono le 9.30, sabato. Dopo aver rimediato una mappa dettagliata della città e un elenco di Hotel/B&B all’ufficio Security dentro la South Station, senza fretta mi sono incamminato valigia al seguito verso il centro della città percorrendo Summer Street, una via molto carina che mi ha ricordato il centro di Oxford. Vi consiglio di prenotare un alloggio prima di arrivare, soprattutto se capitate durante l’ultimo week-end di agosto, quello che precede il labor day, che per gli americani è l’ultimo giorno dell’estate. Non avendolo fatto, confidando troppo nella fortuna, ho passato un’ora buona per trovare un posto dove stare, percorrendo tutta Beacon Street partendo dal Boston Common. Alla fine ho dovuto rassegnarmi ad un hotel della catena Howard Johnson, pagandolo anche piuttosto caro, e comunque molto più del budget ipotizzato, ben 229 $ (tasse incluse però, magra consolazione…). Probabilmente non avrei mai visto questo quartiere.
Ho cercato di prendere il lato positivo della cosa e, dopo aver letteralmente lanciato la valigia in camera, ho approfittato per girare un po’ nei dintorni del Fanwey Park, lo stadio dei Red Sox, amatissima squadra di baseball della città. Erano appena le 12 e di cose da fare ne avevo in mente tante, tra cui cercare un alloggio più economico e centrale. Una volta tornato a piedi verso il centro, ho iniziato il famoso Freedom Trail, un percorso di diverse miglia che inizia dentro il Boston Common e si snoda attraverso la città seguendo una doppia fila di mattoncini rossi o una più semplice linea rossa. Prima di iniziare, ho deciso di investire 2$ acquistando una mappa descrittiva del percorso, giusto per avere una vaga idea di cosa mi trovavo davanti ogni volta che mi fermavo in una delle “stazioni”.
Una volta arrivato alla Fenauil Hall, Boston mi si è rivelata in tutta la sua divertente armoniosità. Anche per l’effetto week-end, quest’area era gremita di persone. A due passi c’è il mitico Quincy Market, affollatissimo mercato coperto con decine di chioschi divisi sui due lati. Seguendo un corridoio centrale largo poco più di 3 metri, è possibile assaggiare pasta, dolciumi, cibo etnico e soprattutto la mitica aragosta, simbolo culinario della città. Per circa 20$ potrete togliervi lo sfizio di mangiare un’aragosta oppure per 10$ accontentarvi di un lobster-roll, molto meno appariscente panino farcito di pezzetti di aragosta e insalata. Al centro del corridoio, un ampio spazio con tavoli e panche è l’ideale per fermarsi a mangiare qualcosa. La restante parte del Freedom Trail può aspettare fino a domani, il porto è la mia tappa successiva.
Una sosta tranquilla seduto sul molo ad osservare la baia, cercandone l’uscita verso l’oceano, è l’ideale per aggiornare la mia agenda di viaggio e per scatenare la mia vena malinconica. La zona del porto è affascinante, piena di ristoranti e di fontane, il posto ideale per godere di una giornata di sole. Dopo la sosta, tornando verso la Faneuil Hall mi ritrovo quasi per caso su State Street, davanti all’Harborside Inn. Sembra carino e dopo aver chiesto le tariffe decido che qui trascorrerò la mia prossima notte. Per 129$ ho una bella stanza con bagno, postazioni Internet e caffè sempre gratis. Il pomeriggio è scivolato via lentamente, le giornate erano ancora lunghe e all’imbrunire ho goduto delle luci e dell’allegria della Faneuil Hall, dove i negozi erano ancora brulicanti e i locali mangerecci iniziavano ad affollarsi. Visto che ero solo soletto, dopo aver approfittato della luce serale per fare qualche foto, ho scelto con calma il posto dove mangiare. Per tornare verso l’hotel, nonostante la lontananza e la stanchezza, ho deciso di camminare. Senza un itinerario preciso, ma solo seguendo la direzione di marcia, mi sono incamminato un po’ a zig-zag verso le parallele di Beacon Street, percorrendo Boylston Street e Newbury Street.
All’improvviso, mi sono trovato immerso in un clima da sabato sera che non ha nulla da invidiare a quello delle estati romane. Una sfilza incredibile di locali molto curati, ristoranti e wine bar gremiti di ragazzi, le strade percorse da una scia luminosa di macchine di lusso in cerca di parcheggio. È un’atmosfera che mi piace, per puro caso ho scoperto una delle zone più vive e probabilmente più frequentate della città, dove l’aria che si respira mi ricorda molto il centro storico della mia Roma. La lunga camminata si è rivelata così meno faticosa del previsto e una volta nei pressi dell’hotel ho anche avuto la fortuna di vedere il Fanwey Park illuminato a giorno; era in corso una partita di campionato dei Red Sox e dallo stadio emergevano le grida roboanti dei tifosi. A questo punto la mia giornata è davvero terminata, me ne sono tornato all’hotel a pochi passi.

31 agosto 2008
Il giorno dopo mi sono alzato di buon’ora, avevo già in mente un itinerario impegnativo, ovvero terminare il Freedom Trail e andare a visitare il quartiere di Brighton, dove si trova Harvard, nella parte nord occidentale della città. Mentre camminavo seguendo la linea rossa che si snoda lungo le vie, ho attraversato parchi e ponti, che offrono una splendida prospettiva sulle varie zone della città. Se volete farvi due risate, osservate come i turisti seguono il Freedom Trail, non staccano i piedi da terra e spesso effettuano svolte repentine seguendo gli angoli retti dell’itinerario, assomigliando in maniera inquietante a dei robot telecomandati. Il Freedom Trail termina presso la Freedom Tower, un obelisco che può essere visitato salendo circa 200 scalini e arrivando a godere una spettacolare vista della città. Per gli amanti delle navi da guerra, lungo il percorso si arriva ai margini del porto, dove è ancorato e gratuitamente visitabile uno stupendo incrociatore in disuso, tenuto in perfette condizioni da un gruppo di volontari. Se volete un consiglio, evitate di pagare la visita al veliero ancorato poco prima (e per il quale nei periodi affollati dovrete anche fare la coda) e fate un rapido giretto sull’incrociatore, ma su questo mi rimetto ai gusti di ciascuno.
Dopo un rapido pranzetto, sempre a piedi, mi sono avviato verso Harvard. Il percorso è abbastanza lungo, ma in compenso si attraversa buona parte della città, passando gradualmente dall’atmosfera turistica e affollata del centro a quella goliardica e spensierata di Brighton, dove un continuo brulicare di gruppi di ragazzi mi ha fatto nostalgicamente tornare indietro agli anni dell’università. Anche gli edifici mutano, passando ad assumere un aspetto rigorosamente ordinato e discreto. Per chi non volesse faticare troppo, la fermata della metro Harvard arriva davanti all’ingresso del campus, al centro esatto di una vivace piazzetta. La mia visita si è divisa in due parti: la prima per la visita al campus, dove ho incontrato in rapida successione ragazzi che facevano jogging, gruppi di studenti riuniti sui verdi e curatissimi prati, turisti che fotografavano la statua di Harvard, il maggior finanziatore della famosa struttura universitaria. Ho avuto la fortuna di capitare durante la cerimonia di iniziazione delle matricole, una sorta di festa rituale che da il benvenuto ai nuovi arrivati. La seconda parte della visita mi ha visto seduto sul muretto del piccolo spazio adiacente all’uscita della metro, ad ascoltare un musicista di strada, niente di meglio per trovare l’ispirazione ed annotare qualcosa sulla mia agenda. Al ritorno, sono rientrato gradualmente nel clima cittadino più caotico, fino ad arrivare alla Faneuil Hall, dove ancora una volta ho trascorso l’ora di cena.

1 settembre 2008
Oggi ho in programma il doppio viaggio in autobus verso Province Town, all’estrema punta della penisola di Cape Cod. Le schedulazioni della “Plymouth & Brockton” (http://www.p-b.com) non sono troppo frequenti, il che rende piuttosto scomodo il raggiungimento della mia destinazione finale. Tappa obbligata è Hyannis, dove dovrò aspettare qualche ora la coincidenza. Questa piccola cittadina è piuttosto anonima, più che altro famosa per i soggiorni di JFK e per essere il punto di partenza verso le isole di Nantucket e Martha’s Vineyard. Non ce la facevo con i tempi per fare queste escursioni e ho rinunciato volentieri all’alternativa di una rapida crociera nella baia. Dopo una breve sosta al porticciolo, ho deciso di approfittare del tempo a disposizione per acquistare qualche regalino, trovando un’inaspettata quanto incantata oasi nel vicolo della Beech Tree Gallery (http://www.beechtreegallery.com), indicato lungo la strada principale del paese. Si tratta di un piccolo angolo di tranquillità, che prende il nome dalla antichissima ed enorme quercia che si trova al suo interno. Per il resto, il paese offre un museo dedicato a JFK (che vedo solo da fuori) ed un piccolo parco intitolato ad un capo indiano. Mi separo volentieri da Hyannis alla volta di Province Town, dove il mio obiettivo principale è quello di fare whale watching, un’attività che qui è di moda in ogni stagione. Arrivato alle 15.30, ho cercato rapidamente un posticino dove passare la notte e questa volta ho trovato un buon compromesso tra qualità e prezzo. La John Randall House (http://www.johnrandallhouse.com/) è un posto molto ospitale a pochi minuti dal centro del paese. La mia camera era molto piccola, giusto lo spazio per letto e comodino. Il bagno era condiviso ma molto pulito. Ho pagato 99$ con colazione, forse avrei potuto trovare di meglio ma non avevo tempo e voglia. Il gestore del B&B è stato molto gentile e ha controllato su internet (http://www.whalewatch.com/dolphinfleet/tickets/whalewatchtickets.php) gli orari di partenza delle escursioni.
Visto che per la mattina seguente avevo già in mente un giro in bici nei dintorni e poi il ritorno verso Boston, ho deciso di approfittare della partenza delle 17, pensando anche che in questo modo, se avrò fortuna, vedrò le balene che sbuffano col sole che tramonta. Il biglietto (34$) può essere acquistato presso l’ufficio della capitaneria adiacente al piccolo porto. Siccome mancavano ancora 45 minuti alla partenza ho fatto un giro nella via principale della città, una sequenza di botteghe appariscenti, ma comunque particolari e interessanti, con le loro colorate insegne decorate artisticamente. L’aria è quella di un posto animato da uno spirito bohemien e alternativo. La cittadina è infatti famosa anche per la totale tolleranza verso le coppie omosessuali, che infatti passeggiano tranquillamente mano nella mano. Mi piace questa atmosfera, è rilassante poter passeggiare senza fretta tra biciclette e bandiere colorate, così me la sono presa comoda arrivando al porto solo pochi minuti prima della partenza. Circa 50 minuti li abbiamo impiegati per arrivare nella zona degli avvistamenti, nota con il nome di Stellwagen Bank.
Allontanandoci dalla terraferma, ho osservato le lunghe e deserte spiagge della penisola, immaginando un soggiorno in uno dei meravigliosi fari sparsi su Cape Cod (http://www.massvacation.it). Una volta arrivati nella zona degli avvistamenti, il motore rallentava e i primi esemplari spuntavano dalla superficie, sbuffando e immergendosi mostrando la inconfondibile coda. Il numero di balene è stato notevole, non c’era bisogno di spostarsi da una parte all’altra della barca seguendo le urla entusiaste di qualche passeggero. Bastava aspettare e avere la macchina fotografica a portata di mano, di lì a poco un esemplare sarebbe stato lì davanti per farsi immortalare. Avendo fortuna, qualche curiosona arriva fino a pochi metri dalla barca, magari perché si è resa conto che da lontano non azzecchiamo neanche una foto! E così ho passato una buona ora a scattare foto, emozionato come mi succede ad ogni contatto ravvicinato con la natura. Anche questa esperienza, come tante altre, avrei voluto viverla abbracciato a lei (…). Secondo quanto mi consigliò qualche anno fa un navigato conoscitore delle balene durante un’escursione simile, non serve stare tutto il tempo a scattare foto, il tempo per farlo ci sarà, l’importante è fotografare con gli occhi, impressionare la nostra di memoria, vivendo quei momenti dentro noi stessi, conservando preziosamente quell’emozione insieme ai suoni, ai colori, agli odori che riusciamo a percepire. E così ho fatto anche stavolta, e funziona davvero… ho il tramonto negli occhi, mentre una balena sbuffa ed immerge lentamente la sua coda biforcuta, sparendo sotto la superficie, un limite che non ci è dato oltrepassare…
Il motore, fino a quel momento al minimo, va su di giri e, dopo aver posizionato il timone verso il porto di Province Town, ha riportato lentamente tutti noi verso la realtà. Il freddo si faceva sentire, ho indossato il mio k-way e ho osservato gli ultimi bagliori del sole che spariva, prima di entrare sottobordo e godermi il tepore della cabina. Come unica serata a Province Town, ho deciso di godermi l’atmosfera mangiando un lobster-roll seduto su una panchina nella piazza principale, dove un gruppo di musicisti aveva attratto un capannello di ragazzi che li accompagnavano.
Per digerire il paninazzo con l’aragosta, un po’ deludente, mi sono fatto un giro al porto per godermi con calma le luci del paese e della torre, mentre una gremita fila di persone stava aspettando la partenza del traghetto veloce per Boston. Considerando che la giornata successiva non sarebbe stata riposante, e ascoltando la stanchezza e la sensazione di freddo ancora viva, mi sono convinto ad incamminarmi verso la mia camera, soddisfatto di aver inserito questa tappa nel mio itinerario di viaggio.

2 settembre 2008
La mattina successiva, dopo aver fatto colazione e una chiacchierata con il gestore del B&B, ho affittato da Arnold’s una bici per 2 ore (10$), visto che il pullman per Hyannis sarebbe partito alle 13.45. Avendo tempo, qualche ora in più mi avrebbe fatto comodo perché a poca distanza ci sono parecchi percorsi meravigliosi dove pedalare con tranquillità, godendosi la pace e la natura circostante.
Uscendo da Province Town, dopo un breve tratto di strada asfaltata che costeggia dune di sabbia, ho seguito le indicazioni per la ciclabile che inizia a breve distanza. Dopo un primo tratto che costeggia la spiaggia praticamente deserta, la pista si addentra nell’interno. Un saliscendi molto rilassante, dune e vegetazione di conifere accompagnano senza problemi di orientamento verso le varie destinazioni del percorso ciclabile, indicate sulle mappe disponibili presso ogni negozio che affitta le bici. In tutto sono circa 15 km, che vale la pena percorrere con tranquillità per godere appieno del silenzio e della meraviglia circostante. Molto suggestiva la costruzione (Old Harbor Station) che tra il 1872 ed il 1915 costituì il punto di partenza per il pattugliamento della costa e il soccorso (U.S. life-saving service) nel caso delle molte tragedie del mare che avvenivano da queste parti. Infatti, soprattutto negli ultimi anni del 1800, prima che fosse costruito il canale che permetteva di attraversare senza problemi la penisola evitando le rocce affioranti, molti velieri andarono distrutti sulle rocce a causa di tempeste e fitte nebbie. Ancora oggi, saltuariamente vengono scoperti sotto la sabbia i resti dei velieri che subirono la sciagura di spezzarsi sulle rocce di questa zona. Tra le vicende più tragiche, quella del veliero Jason, che si spezzò in due il 5 dicembre 1893 mentre era diretto a Boston provenendo da Calcutta. Sembra che solamente un certo Samuel J.Evans si salvò dalla tragedia, indossando il proprio giubbotto salvagente e nuotando fino alla spiaggia.
Sempre raggiungibile tramite percorso ciclabile, una stupenda foresta di querce (beech tree forest) ombrosa e silenziosa, l’ideale per aggiungere un pezzo di valore allo stupendo libro dei ricordi di questa vacanza.
Se avessi avuto più tempo a disposizione, avrei volentieri affittato una bici per qualche giorno e girato con calma una parte della penisola, costeggiando senza fretta le spiagge infinite e decidendo di volta in volta le soste, senza programmarle. In ogni caso, alle 13.30 ero in partenza per Boston (29$). Alla stazione, poche altre persone attendevano la partenza, proprio al centro di una giornata soleggiata che avrebbe meritato di essere trascorsa in riva al mare, e non in pullman. Alle 17.20 ero di nuovo a Boston, alla South Station. Questa volta avevo già deciso dove andare e, dopo aver raggiunto la metropolitana (linea rossa), mi sono diretto subito verso l’Harborside, proprio all’uscita State della linea blu. Lasciata la valigia in camera, dove avrei passato solamente le poche ore della notte, mi sono immerso nuovamente in città per aspirare ancora una boccata della sua atmosfera frizzante. Il week-end era passato e si respirava una maggiore tranquillità, erano rimasti solo i turisti ad affollare i locali e a girare per negozi, ma era comunque bellissimo osservare le luci del porto, ascoltare la musica che aleggiava nell’aria, assaporare una birra fredda pensando al destino…
Dopo una rapida cena alla Faneuil Hall, mi sono avviato verso la mia stanza e, dopo aver fatto il resoconto della giornata sulla fedele agendina, mi sono addormentato pensando agli ultimi tre giorni di vacanza che trascorrerò a New York. New York… per molte persone la città più bella del mondo, la città dove la leggenda dice che può avverarsi o svanire un sogno.

3 settembre 2008
Alle 6.30 ero già alla South Station, dove avevo deciso di dare fiducia alla compagnia cinese Fung Wah, che per soli 15$ porta a New York nello stesso tempo (4 ore) della Greyhound (40$). Le partenze sono molto frequenti, una ogni ora, il pullman è pulito e gremito di persone di ogni razza, il viaggio è trascorso tranquillo e in perfetto orario siamo arrivati a Canal Street, in piena China Town. Non è mica un problema! La metro è a poca distanza ed in pochi minuti sono arrivato a West 46th Street, in piena Manhattan, dove al 129 avevo una prenotazione presso il Comfort Inn. Il prezzo di 225$ per notte con colazione era un po’ sopra le mie possibilità, ma per una notte ho potuto concedermi questo regalo, soprattutto per dimenticare l’esperienza del Riverside Studios, ricordate? Per la prossima notte nella grande mela avrei cercato un altro posto, avevo già qualche idea.
Non vi racconto la mia prima giornata a New York per gli stessi motivi per cui ho deciso di non raccontarvi la genesi della vacanza. Comunque, la sera ero di nuovo solo e ho seguito un consiglio azzeccato, quello di cenare nel locale “Via Brasil”, sulla Little Brasil Street. Ottimo cibo e atmosfera rilassante, proprio quello che vi voleva per staccare dalla caotica Manhattan. Una volta tornato in camera, ho chiamato la “Leo House” (332 West 23rd Street), una residenza ecclesiastica meta di moltissimi turisti, in quanto ottimo compromesso per soggiornare a New York a pochi isolati da Manhattan. Il costo della stanza con bagno è di circa 100$ (senza colazione) e, alla luce dei prezzi di altri posti in zona, era davvero un affare… lo prendo, ci vediamo domani!!

4 settembre 2008
La mattina successiva, dopo la colazione ho lasciato la valigia al Comfort Inn e mi sono incamminato verso la vicina 52th Street, obiettivo MoMA. Ho eletto il MoMA unico museo che visiterò, soprattutto perché al 6° piano in quei giorni c’era una mostra temporanea di Salvador Dalì, il mio pittore preferito. Dopo aver atteso le 10.00, orario di apertura dei botteghini, e dopo una breve coda per il biglietto (20$), ho lasciato lo zaino, che va obbligatoriamente depositato senza oggetti di valore, quindi macchine fotografiche (anche se scarse), portafogli (anche se vuoti), computer (anche se rotti), i-pod (anche se poco capienti…).
Una volta entrato, mi sono diretto subito al piano di Dalì. Se decidete di prendere l’ascensore, preparatevi a sostare in quasi tutti i piani; il mezzo più veloce per salire e scendere sono le scale mobili. Una grossa fotografia del Genio si trova proprio all’ingresso dell’area riservata alla mostra, che inizia con la proiezione del cortometraggio “Le chien andalou” di Luis Buñuel, un film in cui un giovanissimo Dalì interpretava la parte di uno stralunato personaggio. Le sale erano davvero strepitose, gremite di capolavori che mi hanno lasciato stupefatto, anche se di Dalì avevo già visto altre mostre a Roma e Barcellona. Durante la visita, ho scoperto che la sua genialità è stata utilizzata da vari registi, che gli hanno commissionato la creazione di scenografie per spezzoni di film come “Il Sogno”, con Gregory Peck, ma soprattutto per lo spettacolare “Fantasia” di Walt Disney. Per questo film, a Dalì fu commissionato di creare la scenografia per la commovente ballata “Destino”, del compositore messicano Armando Dominguez. Dopo la visita al 6° piano, per me poteva già bastare. Scendendo, i due piani successivi sono una commistione di capolavori dei vari Mirò, Matisse, Klimt, Van Gogh, Picasso. Li ammiro dal basso della mia immensa ignoranza in materia e ad alcuni faccio anche una foto, pur essendo contrario, in quanto di queste opere si possono trovare riproduzioni di ogni genere su Internet. Del 4° piano serbo un triste ricordo; infatti, al bagno ho smarrito la mia agenda di viaggio, lasciando ai posteri un manoscritto di valore inestimabile.
Uscito dal MoMA nel primo pomeriggio e diretto verso sud, ho attraversato zigzagando le principali Avenue e Street di Manhattan, ho ripreso la valigia al Comfort Inn e trasportata fino alla “Leo House”. Deposito veloce del bagaglio in camera e mi sono immerso di nuovo nella calda e caotica atmosfera pomeridiana. Sulla 23th Street volevo dare un’occhiata al negozio di elettronica B&H, indicato su tutte le guide come uno dei più forniti di NY. Dopo un’oretta passata a provare qualche macchina fotografica senza alcuna intenzione di acquistare, ho assaggiato al volo qualche trancio di pizza in uno dei molti chioschi disponibili.
Un paio di fermate di metro mi hanno portato a ridosso del ponte di Brooklyn, dove non potevo mancare lo spettacolo del tramonto. È da non perdere, gli archi delle due enormi campate, la scia di persone incolonnate su una corsia, i ciclisti che sfrecciano sull’altra, i grattacieli imperiosi di Wall Street, orfani delle Torri Gemelle, che riflettono il sole colorandosi di tinte surreali, la Statua della Libertà che lì a fianco sembra quasi un giocattolo, il Manhattan Bridge che merita rispetto, le macchine che scorrono lentamente sul piano inferiore del ponte, separando i pedoni dal lontanissimo fiume Hudson che scorre laggiù in basso. Mentre percorrevo una prima volta il ponte diretto verso Brooklyn, il sole si abbassava lentamente e questa scena romantica si fissava nella mia memoria più che nelle mie foto, immaginando di poter rivivere gli stessi momenti in un ideale spazio temporale futuro. E il tramonto è in effetti magnifico, mentre l’astro del cielo si nasconde lentamente dietro al muro di cemento dei grattacieli, sfumando le tinte di una città che, vista così, sembra più umana e meno opprimente. Adesso posso godermi una sosta appollaiato su una delle panchine del ponte, uno dei posti di NY che ricordo con maggiore emozione.
Dopo aver percorso a ritroso il ponte, cercando di catturare la foto simbolo del mio soggiorno a NY, con una breve deviazione sono arrivato a Ground Zero, per rendermi conto di cosa dovessero essere quelle due torri immani. Ora rimane un cantiere a cielo aperto, dove notte e giorno il rumore delle ruspe confonde il ricordo di una tragedia, dove gli interessi economici stanno decidendo cosa fotograferanno in futuro i turisti in quest’area.
Una giornata intensa, ora avevo voglia di mangiare e poi mettermi a letto. Ho percorso camminando la Broadway verso nord e, dopo essermi fermato a mangiare qualcosa, sono finalmente arrivato alla Leo House. Le stanze sono spartane, è presente solo l’indispensabile. Nel lavandino del bagno, i pomelli per aprire l’acqua hanno un curioso meccanismo per cui occorre tenerli aperti con la mano, perché altrimenti tornano automaticamente in posizione chiusa. Ho chiesto spiegazioni, pensando che ci fosse qualche problema, ma ho saputo che si tratta di un meccanismo ideato a suo tempo per risparmiare acqua. Per fortuna la doccia funziona in modo standard!!

5 settembre 2008
Ultimo giorno nella grande mela, alle 20.50 ho il volo di ritorno e non voglio perdere neanche un secondo. Per come sono fatto, per il mio carattere malinconico e silenzioso, due giorni e mezzo sono sufficienti per apprezzare la bellezza di NY, per prendere solo quello che mi fa stare bene, che mi rilassa.
Avevo già deciso cosa fare, dedicherò tutta la mattinata alla visita di Central Park. Il polmone verde è spettacolare, non solo per la vastità che annichilisce e disorienta, non solo per il silenzio che rasserena e riconcilia, non solo per la miscela di animaletti e personaggi che stupisce e meraviglia. Ma anche e soprattutto perché addentrandosi nelle sue viscere si esce per qualche ora dal clamore, dal rumore, dal disorientamento della megalopoli, vivendola come parte di una sensazione ancestrale che tutti noi abbiamo dentro.
L’itinerario è quello segnalato da tutte le guide. Sono entrato all’altezza della 55th Street, l’ho percorso tutto, a piedi, senza saltare nulla. Ho gustato la musica nei pressi della fontana di Bethesda, ho apprezzato la mistica ma forse esagerata atmosfera intorno al mosaico con l’immagine di Lennon, ho percorso i verdi prati immensi dove i ragazzi si sfogano giocando a baseball e football. Se avessi avuto più tempo avrei fatto una corsa, avrei lasciato sui sentieri qualche goccia del mio sudore, per sentirmi newyorkese, ma anche non newyorkese…
Una volta esaurito il tour dentro Central Park, mi sono incamminato ancora una volta verso la Leo House, percorrendo lentamente, una dopo l’altra, tutte le Street, e ogni tanto zigzagando da una Avenue alla parallela. Attraversando Manhattan sentivo di aver preso il meglio di questa città, il meglio per come vivo i miei viaggi. Soddisfatto, ho preso con comodo anticipo un treno dalla Penn Station fino alla Railway Station di Newark e da qui un AirTrain fino ai Terminal. New York era già lontana dagli occhi, ma nel cuore e nei ricordi rimanevano tanti sentimenti e sensazioni indimenticabili, per vari motivi che non sto qui a spiegarvi…

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