Mongolia: il volo dell'aquila

Struggente come il mal d’Africa, il regno di Gengis Khan ci chiama di nuovo!

Con un’ora di ritardo da casa… traffico fermo sull’autostrada che porta alla Malpensa, insomma nulla ci sarà risparmiato in quel giorno di partenza. Con qualche effrazione al codice stradale arriviamo da mia cugina per lasciarle la macchina e correre come fulmini all’aeroporto.
Ci siamo e, miracolo, i nostri 45 chili fanno solo 43.8 sulla loro bilancia! Certo Angelo, mio marito, era andato al check-in da solo mentre io custodivo al riparo degli occhi indiscreti i nostri bagagli a mano fuori legge per il peso e la misura. Ma pare che non dettero troppi sospetti, è vero che un po’coperto dalle giacche a vento e portati come se fossero imbottiti di sola piuma era facile (?) ingannare il personale. Primo controllo del bagaglio a mano e ahimé una cosa dentro attirava l’attenzione dei controllori. Cosa sarà mai pensai, di sicuro uno degli autoradio destinati agli autisti di Mejet, ma non gli interessano affatto, neppure le due bottiglie di Champagne destinate a festeggiare il nostro ritorno nella patria di Gengis Khan, né la cioccolata svizzera ne tanto meno i due libri di fiabe favolosamente illustrate da un grande innamorato dalla Mongolia, Cristiano Lissoni. Allora si sballa tutto, non so più che cosa ho messo in quella maledetta borsa e quello che a loro faceva pensare ad un ombrello o tergicristallo erano i due sgabelli da pesca che andavano finire la loro vita nelle steppe mongole! Mi aiutano a risistemare la borsa e sorpresa ci sta tutto dal primo colpo!
Ci dirigiamo verso la gate B25. È quasi l’ora dell’imbarco. Coda, e mi accorgo che lo steward scuote la testa: non è la gate giusta! Come sarebbe se alla gate B25 parte un aereo per Mosca alla stessa ora del nostro? Non sarà mica l’ultima barzelletta alla moda? Dove sarà l’errore? Ci dice di correre il piu svelto possibile alla B5, avevamo confuso il numero dei posti da sedere 25 con la gate 5 con tutti questi 5 poi! Allora il cuore in gola, l’ansia nelle gambe si parte, si corre, si vola direi con ognuno i suoi 15 kili di borsa e le giacche a vento sotto il braccio piene zeppe di occhiali per le mie opere umanitarie laggiù, perchè pure loro servivano da bagaglio, e certamente le scale mobili non esistono per la salita in questi casi, sarebbe troppo facile vero? Nella testa martella solo una frase: non ce la faremmo mai, oramai l’aereo è perso e nessuno ci chiamò!
Ma Gengis Khan vegliava alla nostra insaputa, la B5 è subito lì e l’imbarco non è neppure iniziato! Le signorine erano in ritardo perchè rimaste intrappolate pure loro con un altro aereo! Buttiamo a terra più che depositare queste maledette borse ansimando quasi a sputare i polmoni. Siamo i primi a presentare i documenti e a salire a bordo e con un enorme sospiro di sollievo ci sediamo sudati come cavalli furiosi mongoli per riprendere fiato e rimetterci dalle nostre emozioni aspettando le prossime… e allorché circa mezz’ora dopo l’aereo si alza nel cielo della pianura lombarda immaginando che alcuni di voi scrutavate le nuvole per intravederlo sapevamo che oramai la Mongolia era ad un tiro di schioppo da noi!
Stretti come sardine, le ginocchia nelle narici adagio adagio il grande uccello bianco prese la rincorsa nel crepuscolo russo senza immaginare che alcune ore dopo avremo la più bella sorpresa della nostra vita: le steppe mongole innevate. Semplicemente grandioso come quel sentimento di tornare a casa che ci sommergeva! Distese a perdita d’occhio bianche infreddolite sotto la neve, a volte dando l’impressione di una cartolina postale in bianco e nero. Per il nostro ritorno Gengis Khan aveva orchestrato il più bello spettacolo che poteva offrirci: una Mongolia immacolata.

Due giorni dopo eccoci sulle strade, ma 200 km dopo la partenza senza avvertire la jeep ci lascia a piedi! Fermatasi per ammirare il raduno delle gru in partenza per il deserto del Gobi, il loro volo ci fu fatale! Gengis Khan appena ritrovati ci avrebbe abbandonati ? Non potevamo crederci… Fu solo dopo 48 ore di smontaggio totale del motore, di laboriosi colpi di telefoni verso la capitale da dove partirono i soccorsi con i pezzi da ricambi per essere in panne a loro volta che potemmo partire finalmente verso le nostre prossime avventure accompagnati da vecchie canzoni del folclore mongolo e l’ombra d’ora in avanti protettrice di Gengis Khan…

Dalla notte dei tempi si sa dell’esistenza del mal d’Africa ma pochi sanno della nostalgia delle steppe mongole. Qual è quel sentimento sorto da così lontano che vela i nostri sguardi di questa malinconia alla sua sola invocazione? Da dove viene? Magari quei cavalieri che devastarono l’Europa accompagnati dal rumore infernale dei loro zoccoli hanno lasciato nelle nostre vene i loro geni?
È fisico, è così forte questa sensazione risentita dal più profondo del nostro essere davanti all’immensità, davanti a questo mare verde infinito, cosi simile però cosi diverso ad ogni onda che viene morire sulla landa. Qui nessun movimento violento, soltanto quando Salik (vento, in lingua mongola) si diverte a giocare con i fili d’erba, sorgente di vita per i cavalli e i greggi dei nomadi, un lento e grazioso movimento fa ondeggiare quel tappeto verde dove si mischiano le armonie del morin khur, il violino a testa di cavallo del popolo mongolo.
Per la terza volta i nostri passi calpestano quella terra magica… quella steppa che sa così bene vestirci di infinite emozioni.
Una iurta spunta come un fungo in mezzo al nulla. Un’altra, molto lontana, appena visibile. Nessun albero. Ciuffi d’erba grigia, esili, in un paesaggio lunare. Laggiù delle colline color ocra oscillano verso le montagne innevate dell’Altai che svettano sopra tre paesi: Mongolia, Russia e Cina. Siamo all’estremo ovest del territorio di Gengis Khan, nella provincia di Bayan Olgi. Questa mattina, sotto il vento che il sole non riesce a riscaldare, gli uomini lasciano le loro tende rotonde, a cavallo, in moto o a piedi. Avvolti in caldissimi cappotti, calzando i loro stivali , portano il tradizionale copricapo kazakh in seta tutto foderato di pelle di volpe, hanno appuntamento con le aquile, le loro aquile. Oggi l'onore e il saper fare ancestrale dei loro maestri può, con un colpo d'ala, volar via o ottenere il massimo rispetto dal clan dei falconieri.
Occhi pronti ad affrontare l’arsura del sole e capaci di reperire il minimo movimento nell’immensità, i Kazakh cavalcano da diverse generazioni attraverso la steppa. È nella regione dell’Altai dove si può incontrare quelli che hanno saputo meglio custodire l’arte della falconeria. I Kazakh catturano le loro aquile da giovani, un solo esemplare per nido e sempre una femmina. L’aquila rimane con loro circa sette anni prima di ritrovare la libertà per permetterle di riprodursi. Anni durante i quali l’uomo e l’uccello dipendono l’uno dall’altro: l’aquila riceve il cibo dalle mani del Kazakh, in controparte il Kazakh recupera le prede dell’aquila, soprattutto volpi e marmotte dalle quale ottiene la pelliccia che porta o che vende.
A passo di carica, la loro aquila troneggiante sul braccio, tutti i falconieri gallonati iniziano a girare più volte attorno allo stadio improvvisato in quell'angolo remoto della steppa e il ritmo della cavalcata si scatena nel seguire la musica. Il torneo è aperto!
Malgrado la loro stanchezza, senza dimenticare di fare scintillare nei raggi del sole i loro finimenti d’argento, i cavalli uno ad uno si avvicinano, lo sanno molto bene che pure da loro dipenderà la vittoria.
Per il concorso gli abiti tradizionali sono di rigore e sull’avambraccio destro del suo padrone l’aquila impassibile si lascia ammirare tremante di fare brutta figura sulla giuria, si è cosi tanto allenato per quello. Per lui così fiero e reale, durante le prossime quarantotto ore non ci sarà riposo e se vuole risentire l’eco della sua vittoria nella steppa sempre sul chi va là dovrà stare per non mancare l’ora della gloria.
La concentrazione è al massimo tra le aquile, dalla collina dalla quale devono lanciarsi aspettano con ansia la chiamata del loro padrone per aprire le loro ali ed esibire il volo più rapido ed elegante della loro vita prima di atterrare sul suo braccio. Alcuni faranno soltanto di testa loro andando a vagabondare alla grande disperazione dei loro proprietari nelle montagne dei dintorni.
Tifiamo per il nostro preferito, quello del più giovane falconiere, 12 anni, presente con suo padre che gli ha insegnato tutta l’arte della falconeria, come suo padre a sua volta aveva fatto con lui così tanto tempo fa oramai. Rispondendo istintivamente al suo grido, con un velocissimo e maestoso colpo d’ala, andrà a posarsi sul guantone del suo giovane padrone assicurandogli un eccellente punteggio.
Dopo una notte passata a confabulare sulle possibilità di ognuno, le aquile guardando i vari giochi di abilità equestri kazakh attendono sull’alto della montagna di poter piombare sulla falsa volpe trascinata dal suo proprietario dietro al suo cavallo dimostrando così la propria abilità a cacciare delle prede.
Delle grida rauche e selvagge rimbombano nella steppa fracassandosi sui monti circostanti. I Kazakh incitano le loro aquile a fare valere le loro capacità. Per gli allievi poco attenti sta scoccando l’ora dell’ultima chance. Taluni chiameranno invano con accenti disperati nella voce i loro uccelli, altri birbanti disdegneranno in un primo momento la finta volpe prima di decidersi a catturarla ma altri, come il nostro beniamino, saranno più fortunati e si poseranno sopra agitando con orgoglio le loro ali non dimenticandosi di reclamare con grida acute un po’ di carne di coniglio, della quale sono così ghiotti, prima di accettare di abbandonare la loro preda.
La distribuzione dei premi si farà in un gioioso disordine mentre lassù un ritardatario aleggia giocandosi delle correnti salendo e scendendo in un cielo puro. Prende il suo tempo, allarga le sue ali. Lo sa che è ammirato e temuto nello stesso tempo, questo decuplica il suo sentimento di fierezza e quando meno ce lo aspettiamo si abbatte rapido come un lampo sulla sua preda alla quale non rimane più già che un solo soffio di vita quando si sente sollevata da terra.
Ma è fuori concorso… perchè egli è totalmente libero in quella steppa che anche fa viaggiare le nostre emozioni, vera felicità per i nostri sensi.

L’autista Mejet può essere contattato in inglese: mejet69@yahoo.com

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