Viet Nam 2: mille colori, mille sorrisi!

Fuori dal tempo, tra le minoranze etniche del nord-ovest vietnamita

Chi ha letto "Good morning, Vietnam", prima parte di questo resoconto, sa già che parlo del viaggio effettuato tra gennaio e febbraio 2003 dal sottoscritto Leandro con gli amici Walter e Mario. In essa ho avuto cura di fornire una grande quantità di notizie pratiche che possano essere di aiuto a chi voglia organizzare per conto proprio, come abbiamo fatto noi, un viaggio in Việt Nam (è questa la grafia corretta, essendo il vietnamita, almeno della pronuncia, una lingua monosillabica); ho continuato poi con il diario dei primi cinque giorni, dedicati ad Hà Nôi e alla Baia di Ha Long.
Il tema di questa seconda parte verte su un ambito totalmente diverso, quello delle province nord-occidentali, di grande interesse per la presenza di numerose minoranze etniche, alcune ormai integrate con il contesto urbano, altre immerse ancora in un isolamento, sia spaziale che temporale, che ne fa l’affascinante testimonianza di un mondo destinato fatalmente a scomparire. Da poco più di una decina d’anni il turismo vi si è affacciato, dapprima timidamente per la quasi inesistenza di vie di comunicazione e poi con maggiore afflusso grazie al progressivo, se pur lento, miglioramento delle strade; quando saranno state allargate fino a consentire il passaggio dei pullman dei grandi Tour Operators, temo che avrà inizio la veloce fine di un ambiente davvero unico.
Proprio questa parte del viaggio ci ha riservato le esperienze che ricorderemo con maggior piacere, quindi, se volete andarci, fate alla svelta!
Prima di riprendere il diario, mi sembra opportuno un breve inquadramento dei gruppi che risiedono nella zona in cui ci apprestiamo a passare sei giorni, a mio parere una durata al di sotto della quale consiglio di non scendere per trarne una buona conoscenza.
Circa il 90% dei circa 80 milioni di abitanti del Paese sono di razza Việt, mentre i restanti 8 milioni appartengono a 54 etnie differenti distribuite nelle zone collinari e montane, in prevalenza proprio nelle province di nord-ovest.
Per i viaggiatori ciò significa imbattersi in villaggi più o meno grandi costituiti da abitazioni in legno, talvolta sopraelevate a palafitta, nei quali vivono comunità intente ai lavori quotidiani; come prima evidenza, siamo attratti in particolare dai variopinti costumi tradizionali che ancora quasi tutte le donne indossano, mentre gli uomini, salvo rare eccezioni, vestono con camicia e calzoni di stile occidentale. Il realtà questo mondo è assai più complesso di quanto sembri: esistono infatti forti differenze, anche tra gruppi etnici confinanti, nella tipologia delle abitazioni, nei colori e nella fattura degli abiti e dei copricapi, nel linguaggio, nell’organizzazione sociale, nei cerimoniali religiosi e funerari, nella propensione per questo o quel tipo di coltivazione o di allevamento, anche in relazione al territorio pianeggiante, collinare o montuoso che favorisce a seconda dei casi la coltura del riso, del tè, dei cereali o altro.
Non è per noi una materia facile, ma nel corso delle giornate passate qui impareremo parecchie cose, che di volta in volta cercherò di partecipare anche a chi legge.
Sotto l’aspetto del “turismo responsabile”, oggi tanto conclamato ma non sempre attuato correttamente, l’ingerenza da parte nostra in questa realtà deve avvenire nella misura più discreta possibile. Fermare la macchina davanti a un gruppo di case, scendere armati di macchine fotografiche e telecamere puntandole a destra e a manca è l’approccio peggiore, con l’immancabile risultato di provocare un fuggi-fuggi se non ostilità.
Un accostamento tra tipologie umane così differenti deve avvenire in termini paritari, sempre cercando di impostare una forma di dialogo ed evitando gli atteggiamenti di superiorità tipici di un neocolonialismo del tutto fuori posto. Come ho fatto cenno nella parte introduttiva di questo resoconto, la reciproca conoscenza non potrà avvenire che tramite gesti, sorrisi, qualche parola non compresa, disegni su un pezzo di carta o sul terreno, regalando una matita colorata o un biscotto, assaggiando un cibo se viene offerto: ma non ha davvero prezzo il momento in cui quella che poteva sembrare un'intrusione lascia il posto a un avvicinamento tra due mondi distanti che per qualche minuto trovano un punto di contatto e motivi di curiosità gli uni per gli altri. E tutto ciò al di là della foto da una parte o dal tentativo di vendere qualcosa dall'altra.
Non mancheranno alcuni episodi significativi e talvolta divertenti, che riferirò nel corso del racconto.Lunedì 20 gennaio 2003: LÀO CAI – SA PA
Dopo una notte di sonno alterno nelle cuccette, alle 5,40 il treno termina la sua corsa al capolinea di Lao Cai, mentre gli altoparlanti di bordo già da qualche minuto hanno cominciato a tenerci svegli con musiche marziali: di ciò che dice il coro non capiamo naturalmente nulla se non, qui e là, le parole Hà Nôi e Việt Nam, declamate con una tale enfasi da far pensare a un retaggio delle parate dei Paesi dell’ex blocco sovietico.
E’ ancora buio mentre ci avviamo verso l’uscita della stazione dal lato Việt Nam, mentre a breve distanza dal retro già si scorge la frontiera cinese.
Non è nemmeno necessario guardarci attorno per capire che per il trasferimento a Sa Pa c’è già chi ha pensato a tutto. Un’impiegata a un bancone sul quale campeggia l’insegna “Tulico Tourist”, l’operatore evidentemente consorziato con l’azienda ferroviaria, ci vende infatti per 25.000 dong ($ 1,60) a testa i tagliandi per uno dei tanti pullmini per turisti, gestiti dalla medesima agenzia intestataria dei biglietti acquistati alla stazione di Hà Nôi: li vediamo allineati sul piazzale e pronti a partire man mano che si riempiono fino all’ultimo centimetro cubo. Un servizio ben gradito, ma cominciamo a pensare che forse a Sa Pa non saremo i quattro gatti che pensavamo…
Stipati i bagagli nel cassone posteriore, il minibus lascia l’abitato di Lao Cai alle 6,20, scavalca un ponte sul Sông Hống (Fiume Rosso) e si inoltra nella strada a tornanti in lieve ma costante salita che in poco meno di due ore copre i 38 km. che portano a Sa Pa. In un buio ancora totale, debolmente rischiarato dai fiochi fanali dell’automezzo, sulla strada, in buona parte sterrata, c’è già parecchio movimento di gente a piedi, su carretti, in bicicletta o moto (tutti mezzi rigorosamente senza luci); immersi in un ininterrotto polverone, c’è davvero da augurarsi che l’autista conosca a memoria la via e riesca a non rotolare a valle o travolgere persone e animali che disinvoltamente procedono in mezzo alla sede stradale.
Giungiamo alle 8 in punto sulla piazza di Sa Pa, immersa in una nebbiolina sottile, e subito vediamo quello che non avremmo mai voluto vedere: donne H’mong in costume già in posa per la foto insieme con un gruppo di turisti giulivi appena scesi dal pullmino di un gruppo organizzato, probabilmente dopo avere appena spillato il famigerato “one dollar” che è uno dei ritornelli ai quali ci siamo ormai abituati.
Augurandoci di non essere arrivati troppo tardi per vedere ancora qualcosa di autentico, scarichiamo gli zaini valigia, che da azzurro, verde e rosso che erano hanno assunto una tonalità unificata di grigio-polvere, e individuiamo subito la nostra meta. Siamo tra i pochi giunti qui senza avere prenotato il pernottamento e dobbiamo averlo scritto sulla fronte, viste le “attenzioni” che immediatamente ci sono rivolte dagli emissari dei vari alberghi. Ma abbiamo già fatto la nostra scelta tramite la fedele Lonely Planet e dirigiamo con decisione verso l’Auberge Hotel (come dire, l'Albergo Albergo), che prospetta proprio sulla piazza.
Per $ 20 totali fissiamo, in mancanza di triple, due camere doppie per questa sera. L'hotel, uno dei primi sorti a Sa Pa, è una grossa struttura un po' bizzarra, con tre corpi collegati da scale, terrazze, aiuole di bonsai, passaggi interni ed esterni, ma confortevole e simpatica, gestita da Mr. Đăng Trung Thục, con l'ausilio di uno stuolo di suoi parenti. Sa Pa è situata a 1650 metri e non c'è da stupirsi che alle 8,30 nelle camere, con le finestre spalancate dopo le pulizie, faccia un freddo caino; per giunta, secondo la normalità vietnamita, gli scaldabagni sono spenti, così, in attesa che l'acqua delle docce si scaldi, scendiamo alla reception per un primo sondaggio.
L'hotel, come un po' tutti in città, organizza le attività nei dintorni, dal giretto di tre ore nei villaggi vicini all'affitto di motociclette, dal trekking sul Fansipan (con i suoi 3143 metri la montagna più alta del Việt Nam) all'escursione completa di cinque giorni Sa Pa – Lai Châu – Điên Biên Phu – Sơn La – Mai Châu – Hà Nôi che è quella a cui siamo interessati.
L'intero pacchetto, comprensivo di trasporto in jeep con tutte le soste che vogliamo, autista e guida, carburante, tutti e quattro i pernottamenti e tutti i pasti nelle località prestabilite, nostri e dei due accompagnatori con la sola esclusione delle bevande, è offerto a $ 160 a testa. Riusciamo a scendere a 145, dai quali Mr. Thục, che parla un ottimo francese, non intende smuoversi; l'uomo dà la netta sensazione di conoscere il suo mestiere e non batte ciglio mentre gli chiediamo di lasciarci qualche ora per decidere. Sa bene che gireremo la città per interpellare altri operatori, ma sa anche che torneremo da lui.
Occupiamo così un paio d'ore in questa indagine. Contattiamo dapprima una struttura turistica dalla parvenza statale, i cui addetti, oltre alla difficoltà di mettere a punto un itinerario plausibile, sembrano fare a pugni anche con la calcolatrice per una semplice addizione; poi la reception di un altro hotel, dove a ogni domanda ci è invariabilmente risposto di sì senza però saper chiarire cosa è compreso e cosa è escluso; infine un terzo hotel che offre un pacchetto analogo al nostro, ma dispone solo di un pullmino (contro le cinque-sei jeeps dell'Auberge), comodo e luccicante, troppo luccicante per essere in buoni rapporti con le strade (chiamiamole strade…) che bisogna percorrere.
La scelta è quindi scontata e torniamo da Mr. Thục per chiudere la trattativa. Visto che ci conferma il prezzo definitivo di $ 145 a testa, giochiamo il jolly, accettando cioè a condizione che ci omaggi di un giro in jeep nei dintorni per occupare il pomeriggio: è un piccolo espediente che funziona quasi sempre e una stretta di mano suggella l'accordo. Avremo due vantaggi: effettuare gratuitamente una gita che costerebbe $ 15 e prendere confidenza con l'automezzo e con le due persone che condivideranno con noi i prossimi cinque giorni.
Il resto della mattinata è dedicato alla conoscenza di Sa Pa, località in bellissima posizione che sorse negli anni Venti del secolo scorso quale stazione di soggiorno montana al tempo dell'occupazione francese. La cittadina risente inevitabilmente della relativa “comodità” con la quale la si può raggiungere e, essendo l'ideale punto di partenza delle escursioni, è interessata da un certo movimento turistico (comunque roba da ridere rispetto ai parametri cui siamo abituati…). Lo dimostra la quantità di alberghi, pensioni e guest-houses aperti pur in bassa stagione, per non parlare di quelli in costruzione o ampliamento.
La maggioranza dei turisti arrivano qui da Hà Nôi con pacchetti di due giorni per visitare un paio di villaggi e il mercato, particolarmente vivace il sabato, al quale affluiscono con i loro prodotti gli abitanti delle valli circostanti, che appartengono a sei etnie differenti. Ma è una formula limitativa che propone una realtà in parte artefatta, proprio in conseguenza del turismo, anche se non è venuto meno l'aspetto pittoresco delle bancarelle, delle mercanzie più strane, dei costumi variopinti, dei profumi e la vivacità delle trattative.
Rientriamo in albergo verso le 13 e riscontriamo con piacere che l'Auberge, oltre che un buon hotel, è anche un ottimo ristorante: ancora una volta la Lonely Planet ha fatto centro! Per la cronaca, l'abbondante pranzo ci costa in tutto 240.000 dong, al cambio 5 € a testa.
Ma prima di metterci a tavola abbiamo modo di assistere, dalla terrazza al secondo piano, al passaggio di un funerale, del quale uno dei camerieri ci spiega alcuni rituali. Apre la sfilata un gruppo di uomini, ognuno dei quali porta un alto stendardo rosso bordato di giallo con raffigurazioni simboliche. Poi, il carro con la bara seguito da un altro più piccolo, come il primo a forma di pagoda e trasportato a braccia, sul quale sono posti oggetti appartenuti al morto insieme con piatti contenenti cibarie, il tutto destinato a seguirlo nell'aldilà. Nel folto corteo, parenti e amici portano una fascia bianca intorno al capo, mentre i familiari, ciascuno sorretto da un'altra persona, hanno la testa completamente coperta da un cappuccio pure bianco. In fondo, due donne prendono da una grossa cesta manciate di cubetti di cartoncino colorato che cospargono sul terreno: serviranno allo spirito del defunto per ritrovare la strada di casa.
Alle 14 eccoci pronti all'escursione concordata. Phong e Liêm, rispettivamente autista e guida, sono due trentenni (anche se sembrano ragazzini, l'età di questa gente è spesso indefinibile) che saranno il nostro supporto per i prossimi giorni. L'automezzo è una jeep UAZ di fabbricazione sovietica, modello sostanzialmente immutato rispetto agli anni cinquanta, tutt'altro che comoda ma solidissima: perfetta, come si vedrà, per i fondi stradali che percorreremo. Non mancano le "personalizzazioni", che i vietnamiti letteralmente adorano, della carrozzeria e dell'abitacolo, quali le portiere posteriori stile "o.f.i." (only from inside, cioè apribili solo dall'interno e private delle maniglie esterne): mah!
Percorriamo per qualche chilometro una sterrata in cornice, che ci consente di ammirare dall'alto il tipo di paesaggio che più di ogni altro si identifica con il Việt Nam: larghe terrazze gradinate per la coltivazione del riso che sembrano realizzate da un ingegnere, intervallate da piccoli gruppi di capanne, palme, bananeti e folta vegetazione.
Mentre Phong ci lascia per portarsi con la jeep al punto in cui ci preleverà al termine dell'escursione, cominciamo a scendere verso il fondo valle per una camminata di circa quattro chilometri. La zona è abitata dai H'mong neri, in comunità di quattro o cinque abitazioni adiacenti; le donne indossano abiti blu scuri fino al ginocchio con bande colorate solo sulle maniche, ampi calzoni e ghette dello stesso colore e in testa un basso copricapo cilindrico o un drappo variopinto. Il riflesso quasi metallico del tessuto è dovuto alla tintura a base di indaco, una pianta qui molto diffusa, la cui frequente manipolazione è anche evidente osservando le sfumature bluastre delle braccia e delle mani. Tutti si danno in qualche modo da fare, uomini dediti ai lavori agricoli, donne che trasportano carichi anche pesanti, bambini che portano sulle spalle ceste o i fratellini minori.
La vicinanza con la città è però chiaramente avvertibile: basta scendere dall'auto per essere circondati da bambini che vendono souvenirs, talmente smaliziati nelle trattative da tenere testa con energia anche a tre adulti. Come ho già detto, bisogna pagare il giusto, ma è sempre d'obbligo la contrattazione, anche per non indurre già nei più piccoli la convinzione del facile guadagno.
Liêm ci fa anche visitare una capanna più grande che ospita la scuola primaria, alla quale fanno capo le diverse comunità dei dintorni. Oltre all'immancabile ritratto di Hồ Chí Minh sopra alla cattedra, su due lavagne adiacenti sono scritti termini vietnamiti e i loro corrispondenti in inglese, che viene insegnato a partire dall'età di quattro anni: anche questo ci fa capire, come già rilevato nella prima parte, quanto sia diffusa la "voglia di Occidente".
Risalendo l'opposto versante della vallata ci imbattiamo in un villaggetto di etnia Dao (o Zao), che si distingue per gli abiti più colorati, i turbanti ricamati delle donne e le collane fatte spesso di monete. Lungo il torrente che fiancheggia il sentiero sono frequenti macine rudimentali che con un sistema di pale sfruttano la corrente dell'acqua per triturare i cereali.
Rientrati a Sa Pa, abbiamo ancora un po' di tempo prima della cena, che impieghiamo per mandare un paio di e-mails a casa. Non ho ancora detto che Internet è nel Việt Nam in una fase di autentica esplosione, curiosamente più al Nord che al Sud, più ricco e occidentalizzato; ad esempio, ad Hà Nôi quasi ogni hotel o caffè ha un PC a disposizione dei clienti, gratuito o a prezzi per noi irrisori, anche se le linee sono terribilmente lente. Qui a Sa Pa la struttura più avanzata è proprio nel nostro albergo (pure in questo Mr. Thục è stato lungimirante), una sala a piano terra con dodici postazioni sempre affollate di residenti e di turisti. Anche qui non manco di fare pubblicità a Cisonostato, mostrando a due signore canadesi del Québec il mio articolo con le foto della loro città.
C'è anche il tempo per una scenetta indimenticabile, per un'altra fotografia non fatta: un'anziana donna H'mong con il suo cestone sulle spalle si affaccia sulla porta d'ingresso immobilizzandosi a bocca aperta per diversi minuti davanti alla sfilata di monitor accesi. Non so cosa pagherei per leggere i suoi pensieri: due mondi che si sfiorano ma lontani un secolo l'uno dall'altro!
Concludiamo la serata con una cena appetitosa quanto il pranzo, che ci costa meno di quattro dollari a testa, e una piacevole chiacchierata con alcuni australiani, anch'essi ospiti dell'albergo.

Martedì 21 gennaio: SA PA – LAI CHÂU (km. 133)
Una breve premessa: essendo all'interno di un pacchetto "tutto compreso", potrò citare le strutture ricettive a cui faremo capo in questi cinque giorni senza essere però in grado di riportarne i rispettivi prezzi. Tenendo però conto della quota globale di $ 145, della quale fanno parte anche il trasporto, le spese dell'automezzo e il mantenimento dei due assistenti, si può fare una stima media pro-capite di $ 8-10 per ciascuno dei quattro pernottamenti e di $ 3-5 per ogni pasto (dieci tra pranzi e cene più quattro colazioni).
Alle 8 in punto, in una rigida mattinata resa ancora più uggiosa dal consueto nebbione, Phong mette in moto la UAZ e lasciamo definitivamente Sa Pa. Forti dell'esperienza del minibus Lao Cai – Sa Pa, abbiamo avvolto gli zaini-valigia in grossi sacchetti da spazzatura, saggiamente portati da casa, al fine di preservarli dalla polvere.
Abbiamo davanti cinque giornate nel corso delle quali percorreremo circa 690 km. a una media tra i 15 e i 25 orari. La tappa odierna si svolgerà per metà in direzione nord-ovest sulla statale 40 per poi puntare a sud sulla 16.
Un tratto di una quindicina di km. in prevalenza sterrato porta in un'ora ai 1900 metri del Passo di Tram Ton, il valico più elevato del Việt Nam. Come spiegato sulle guide di viaggio, il passo è un vero e proprio spartiacque climatico: scesi dall'auto, vediamo infatti dall'alto la vallata dalla quale proveniamo sommersa in una fitta nebbia mentre davanti a noi si scorge, sotto un cielo del tutto sereno, l'inizio del tratto in discesa che, con continui tornanti e vedute spettacolari, ci porterà in 120 km. a Lai Châu. Sembra incredibile, ma Sa Pa e Lai Châu, distanti in linea d'aria non più di settanta km., detengono rispettivamente i record del freddo e del caldo di tutto il Việt Nam.
Di lì a poco, causa lavori di asfaltatura, ci tocca accodarci ad altri mezzi per una sosta di mezzora. Notiamo che il manto viene posato solo nella fascia centrale della sede stradale lasciando sterrati i lati; supponiamo che la filosofia progettuale deve essere del tipo "Inutile sprecare asfalto per tutta la larghezza, quando gli automezzi circolano tutti al centro della strada schivandosi solo all'ultimo momento". Capito i Vietnamiti?
La fermata ci permette però un piacevole incontro con un gruppo di donne Dao scese da un pullmino squinternato pieno zeppo delle mercanzie più svariate. Una particolarità dell'etnia di questa zona è la testa rasata, del tutto o solo sulla parte anteriore, delle donne, che portano un copricapo davvero singolare. La nostra curiosità tocca evidentemente il loro orgoglio, tanto che una di esse ce ne porge uno mostrandocene con fierezza la fattura: si tratta di uno zucchetto di treccia nera avvolta a spirale a sostegno di una specie di catino in alluminio aperto all'insù, sul quale è posato un ampio foulard nero a coprire il tutto. Nero è pure l'abito, ravvivato da una sciarpa di lana rossa che pende sul davanti e una più piccola dalla cintura, alla quale sono appesi anche monili di metallo argentato.
Verso le 10,30 giungiamo a un piccolo centro abitato, dove Phong posteggia l'auto davanti a un ristorantino: evidentemente è un cosiddetto "locale convenzionato", ma di certo non intendiamo pranzare a quest'ora e facciamo presente che per noi l'ora abituale è intorno alle 13. Ci teniamo, con toni pacati ma decisi, a puntualizzare già dal primo giorno alcune condizioni, oltre questa anche il fatto di pagare l'extra per le bevande ad ogni pasto e non in un conto globale, meno controllabile, a fine viaggio. Fare chiarezza su tutto ed evitare equivoci fin dall'inizio è un punto fermo ai fini di impostare un rapporto corretto con i nostri assistenti, che in effetti nei giorni a seguire sarà sempre di collaborazione e cordialità.
La sosta per il pranzo avviene così nel paesino di Pa Tân in un ristorante nel quale ben pochi turisti si devono essere fermati prima di noi. Come quasi tutti i pasti di questo tour, mangiamo a menù fisso, ma in maniera senz'altro soddisfacente, vista la varietà e quantità delle portate che, tutte insieme, vengono schierate su un tavolo bassissimo; il fatto che si mangi bene non deve stupire, vista la presenza di una lunga tavolata di clienti abituali, evidentemente in pausa di lavoro. Assistiamo anche a un curioso cerimoniale, su cui Liêm ci dà qualche spiegazione: più volte nel corso del pasto riempiono dei bicchierini in ceramica di "nep moi" (vodka di riso), dopodiché, ma solo dopo averli svuotati d'un fiato, si alzano in piedi per brindare con un giro di strette di mano e toccano i bicchierini l'uno con l'altro tenendo il proprio più in basso o più in alto secondo la differenza di età, la posizione nella scala sociale o quella nell'ambito lavorativo.
Il reciproco rispetto è un valore molto sentito nella società vietnamita e tutti hanno cura di manifestarlo in ogni occasione. Si spiega così anche la grande varietà di formule di saluto, con sfumature, spesso in ambito locale, non tutte da noi comprensibili: due soli esempi, si dice "chào" (pronuncia ciao) tra persone amiche o nel rapporto informale, mentre "xin chào" (pronuncia sin ciao) è rivolto a superiori, anziani, autorità o persone ritenute a vario titolo rispettabili.
Ripartiamo dopo un paio di bicchierini di nep moi, una consuetudine che ci diventerà familiare, per proseguire in direzione sud; la strada corre per parecchi chilometri parallela al fiume Nậm Na, sempre sulla nostra destra, in un'alternanza di saliscendi, tornanti e tratti dissestati. Dobbiamo tenere conto che abbiamo intrapreso un itinerario lungo un'unica strada, priva di "vie di fuga", percorribile senza avere la certezza di poterlo concludere; non di rado si verificano frane che precludono il transito per giorni, nel qual caso l'unica possibilità è tornare indietro. Per fortuna non sarà il nostro caso e oggi possiamo ammirare scenari fluviali di rara bellezza.
Il traffico è decisamente scarso, ma quel poco è talmente estraneo a ogni norma di circolazione che Phong, autista davvero abile, non può permettersi di distrarsi un attimo, e dovrà fare i conti per cinque giorni con passanti con i loro carichi, cani, bufali, oche, chiocce con un codazzo di pulcini, maiali (in maggioranza scrofe scure gravide o con i piccoli), cereali o canne distesi ad asciugare sui lati ma anche in mezzo alla strada, oltre a biciclette, carretti e soprattutto motorette cariche all'inverosimile: fino a quattro-cinque persone su ciascuna, per non parlare dell'immancabile gabbia cilindrica in bambù appesa dietro che di volta in volta ha funzione di portaortaggi, portafrutta, portagalline, portaoche o portamaiale.
Il restante tragitto ci riserva ancora due soste forzate. La prima è dovuta a strani rumori del motore, evidentemente sporco e in difficoltà a mantenere il minimo sulle salite; posteggiati su un piccolo slargo, Phong ne smonta buona parte pezzo per pezzo per una profonda pulizia. Incrociando le dita e augurandoci che niente vada perduto, procede poi al rimontaggio: fortunatamente si rivela anche ottimo meccanico e quando, dopo circa un'ora, ripartiamo, il motore canta che è una meraviglia! Non ci darà più problemi fino al termine del viaggio.
La seconda sosta, di una ventina di minuti, ci tocca all'altezza di una cava: l'intera sede stradale è occupata da un camion sul quale alcuni operai stanno caricando, interamente a mano, una catasta di pietre che un altro gruppo sta spaccando con pesanti mazze. Le due squadre, composte in pari misura di uomini e donne, lavorano di buona lena ma al nostro passaggio nessuno ci risparmia un sorriso e un saluto.
Sono le 17 quando entriamo in Lai Châu, cittadina a quota 600 nei pressi della confluenza del Nậm Na nel Sông Đà, il fiume che forma più a valle l'omonimo invaso artificiale, il più grande del Việt Nam, sbarrato dalla diga di Hòa Bình. Il termine châu, presente spesso nei nomi delle località, significa bufalo ed è chiaramente spiegabile dall'impiego prevalente del paziente bovino come animale da fatica: ben lontano dall'"imbufalirsi", basta lasciarlo libero di fare ogni tanto un bel bagno integrale nel fango per renderlo felice.
Tutta la vita è concentrata lungo un'unica via, in pratica un ininterrotto mercato, sulla quale si affacciano le case che, come ad Hà Nôi, sono al tempo stesso abitazione, esercizio commerciale, magazzino e, la notte, garage per moto e biciclette.
A parte un paio di strutture parastatali, sconsigliate dalle guide di viaggio, esistono in paese due soli posti meritevoli della definizione di albergo, uno dei quali, decentrato di qualche centinaio di metri, ci ospiterà per la notte. Il Lan Ahn Hotel, decisamente accogliente sia per le camere che per il ristorante, è un bell'edificio a due piani totalmente in legno strutturato a palafitta, con le stanze affacciate su una piacevole veranda con tavolini e poltroncine, circondato da un piccolo parco alberato. Nel cortile davanti alla sala da pranzo c'è una notevole animazione: è in via di allestimento una cena che deve avere una certa "ufficialità", vista la presenza, tra i commensali, di alcuni uomini in divisa ai quali sono mescolati degli anziani, evidentemente reduci della guerra, che indossano abiti grigioverde e il caratteristico casco dei vietcong. È una presenza nella quale capita di imbattersi piuttosto di frequente in città, paesi e strade di tutto il Việt Nam, evidentemente una forma di orgoglio nazionale da parte di chi partecipò a un conflitto tanto lungo e sanguinoso.
Come veniamo a sapere, oggi è il primo dei dieci giorni che precedono il Tet, vale a dire la festa del Capodanno cinese che interessa, oltre naturalmente la Cina, buona parte del sud-est asiatico; questa è quindi ad ogni effetto la serata inaugurale del periodo più importante dell'anno, festeggiata ovunque con pranzi, rinfreschi, musica, danze e riti di varia natura. Quello che avrà inizio il 1° febbraio sarà l'anno della Capra.
In attesa dell'ora di cena, facciamo una passeggiata fino alla via principale immergendoci nella consueta animazione di negozietti e banchi del mercato, affollatissimo benché sia ormai l'ora del tramonto e fonte, come sempre, di continue sorprese.
Tornati all'albergo, con nostro stupore non c'è più anima viva e le sole tracce del "pranzo di gala" sono i tavoli coperti di avanzi, vassoi e piatti vuoti che i camerieri stanno già finendo di sparecchiare. Sono appena le 19,30 ed è davvero il caso di dire: paese che vai, orari che trovi!
La sala è quindi semivuota quando prendiamo posto per la cena, gradevole e in linea con gli apprezzamenti per questo hotel da parte della Lonely Planet.
Gli unici ospiti stranieri sono, oltre a noi tre, due ragazzi danesi con i quali scambiamo notizie e impressioni di viaggio; essi stanno effettuando un viaggio di due mesi che interessa anche Laos, Cambogia e Cina meridionale su due Minsk (moto bielorusse da 125 cc. molto diffuse in Việt Nam), noleggiate ad Hà Nôi per $ 5 ciascuna al giorno. Non possiamo che complimentarci con loro: anche se uno dei vanti di queste moto è di essere semplici da smontare, rimontare e riparare con un'attrezzatura minima, è anche vero che viaggiare così per due mesi in questi Paesi e su queste strade richiede una grinta non indifferente (e magari anche avere i loro ventidue anni…).

Mercoledì 22 gennaio: LAI CHÂU – ĐIÊN BIÊN PHU (km. 135)
Ho poco fa accennato alla Festa del Tet e mi sembra il caso di darne almeno qualche sommaria delucidazione. Essendo legato alle fasi lunari, il Capodanno cinese cade di anno in anno in date diverse, a cavallo tra fine gennaio e inizio febbraio. Inteso come momento di rinnovamento, comprende una serie di rituali, volti a propiziare un futuro felice, che vede la partecipazione di tutta la popolazione; è l'occasione per ricongiungere le famiglie, al cui scopo i membri che vivono lontano affrontano viaggi spesso lunghi e dispendiosi. Si ricompongono eventuali diatribe, ci si rappacifica, si saldano i debiti e si fanno grandi pulizie nelle case; importanza basilare ha anche la celebrazione dei defunti, i cui spiriti sono idealmente presenti nel nucleo familiare.
Per gli approfondimenti, a volte complessi e non sempre da noi comprensibili, preferisco rinviare all'esauriente articolo sul Tet presente sulla Lonely Planet; come ospiti di un Paese in piena atmosfera di festa, le esteriorità per noi più evidenti sono i grandi mercati di piante nei quali si acquistano gli alberelli di arancino cinese, l'equivalente del nostro albero di Natale. Oltre che simbolo principale della festa, riveste un ruolo di rilievo nella tematica, cui ho già accennato, del rispetto e dei ruoli sociali: la mancata presenza della pianta-simbolo in una casa andrebbe a discapito della buona reputazione della famiglia, per cui tutti, anche a costo di indebitarsi, affrontano una spesa tra i 10 e i 20 dollari, certo non leggera in relazione a stipendi mensili tra i 50 e i 60.
Un'altra presenza in cui ci imbatteremo per giorni è quella dei rami di pesco destinati a decorare esterni ed interni delle abitazioni: praticamente ogni persona se ne fa carico, dal ramoscello portato dai bambini a casa o a scuola, al cespuglio trasportato sulla bicicletta, fino alle enormi fronde fissate alle moto in miracoloso equilibrio che occupano in certi casi buona parte della sede stradale. Un particolare curioso è che, di giorno in giorno, passeremo dai rametti con pochi boccioli ancora chiusi a quelli in via di apertura fino alle complete fioriture, anche tenendo conto che ci sposteremo sempre verso sud, quindi temperature più elevate.
Dopo un ultimo giro nel mercato di Lai Châu, in pieno fermento mattutino, lasciamo la cittadina innestandoci sulla statale 6. Tra le due strade che portano a Điên Biên Phu, questa è meno agevole e più lunga di una trentina di km. rispetto alla più frequentata n. 12 ma paesaggisticamente da non perdere, tanto che in sede di accordi con Mr. Thục dell'Auberge Hotel di Sa Pa, avevamo posto la condizione tassativa di percorrerla. Come vedremo, sarà in realtà scomoda ma non più di tante altre, anche se prima della partenza Phong e Liêm "ci provano" a dissuaderci, ma desistono quasi subito: non sono fessi e ormai hanno capito che siamo tre ossi duri.
Pochi tornanti in salita ed eccoci su uno slargo per una sosta d'obbligo: l'ultima vista dall'alto su Lai Châu in mezzo al rigoglio di verde della piana circostante lascia davvero senza fiato e non possiamo sottrarci a una vena malinconica. Buona parte della regione è coinvolta nel progetto di quella che sarà la più grande centrale idroelettrica del sud-est asiatico e chi si fermerà in questo punto nel 2010 vedrà al posto di questo scenario da favola uno sterminato lago artificiale.
La prima metà della tappa odierna si svolge su un percorso a saliscendi in uno scenario di risaie terrazzate, campi coltivati, palme e bananeti, piccoli abitati di capanne che, anche se inevitabilmente ripetitivo, trasmette la sensazione di trovarci in una realtà del tutto estranea a ogni valutazione di tempo e spazio. Non si fa nemmeno caso agli scossoni quasi continui dovuti allo stato pietoso della "strada" (le virgolette ci vogliono proprio) e alla rigidità della jeep, che peraltro si conferma il mezzo più adeguato per questo itinerario.
Tuần Giáo, una cittadina sviluppata lungo la statale e che ha qualche importanza in quanto bivio tra la 6 e la 4 che porta a Điên Biên Phu, resterà nella mia memoria come uno dei luoghi più polverosi che abbia mai visto, ma anche per il pasto peggiore di questa esperienza vietnamita. Lo scenario di questo sgradito episodio è uno dei due soli ristoranti del paese, ubicati in pratica uno di fronte all'altro; non ne rammento il nome, ma chi passi da queste parti tenga conto che è quello con la tettoia-posteggio sulla facciata e la scala di accesso esterna. Gli springrolls (involtini primavera) sono riscaldati, bisunti e disgustosi, ma altrettanto scadenti sono gli altri piatti, che nemmeno ricordo avendoli immediatamente rimossi dalla memoria.
Il tratto di 65 km. fra Tuần Giáo e Điên Biên Phu è forse quello panoramicamente più bello dell'intera escursione; il paesaggio, nel quale dominano i consueti terrazzamenti coltivati, è più movimentato grazie a frequenti elevazioni di arenaria ricoperte di vegetazione che ricordano un po' quelle di Cát Bà e i faraglioni della baia di Ha Long. Anche se siamo tuttora in zone abitate da minoranze quali i Thai e i Dao, è qui più raro imbattersi in persone che indossino i costumi tradizionali. Ciò non toglie che gli incontri con la gente che vive nei piccoli nuclei abitati nei pressi della strada regalino sempre il piacere del contatto con un mondo appena sfiorato dal turismo e per questo semplice e spontaneo.
Una delle soste di oggi avviene in una comunità formata da alcune capanne più ampie, occupate ciascuna da un nucleo familiare allargato; come sempre, cerchiamo di essere educati e non invadenti, contando sulla mediazione di Liêm ma anche sulla curiosità reciproca. Un anziano, evidentemente persona di riguardo, ci introduce in una delle abitazioni, in pratica un unico grande locale con diversi letti su due livelli di altezza, qualche panca, tavoli bassi, l'altarino con gli incensi accesi, ai muri pagine di riviste raffiguranti paesaggi e l'immancabile ritratto di Hô Chí Minh; l'edificio adiacente è invece una scuola, nella quale è in corso una lezione per adulti.
La visita di qualche straniero deve essere un'occasione da non mancare, tant'è vero che in pochi minuti si sono radunati all'esterno non meno di una ventina di bambini più o meno tra i quattro e i dieci anni d'età, di certo l'intera popolazione infantile del villaggio; il coro di "Hallo!" e le mani agitate in segno di saluto mentre risaliamo in auto resteranno tra i momenti più simpatici del viaggio.
Qualche chilometro più avanti fermiamo ancora l'auto presso una capanna per osservare un tratto di risaie sulle cui terrazze sono installati piccoli mulini a pale per l'irrigazione; la curiosità per noi, per l'auto, per la fotocamera digitale di Mario e il binocolo di Walter fa sì che in pochi minuti si formi attorno a noi un piccolo capannello di bambini e adulti. Mentre è comprensibile lo stupore nel guardare l'anteprima delle foto sul display della digitale, è davvero impagabile l'espressione, un misto tra meraviglia e timore, di un uomo alla vista delle immagini ingrandite dal binocolo: evidentemente è la prima volta nella sua vita che ne vede uno, pur essendo una persona di una quarantina d'anni!
Continuano invece nelle loro occupazioni due simpatici vecchietti seduti davanti alla capanna, lui a rammendare con infinita pazienza una rete da pesca a maglie strettissime, lei ad affettare degli strani tuberi: si tratta della kashava, una specie di barbabietola molto allungata che viene tagliata a fette, messe poi a essiccare al sole e infine sminuzzate per ricavarne una grossolana farina. Un'altra scenetta da inserire nella collezione dei ricordi, due splendidi sorrisi fissati in una fotografia tanto più preziosa in quanto incoraggiata dai soggetti stessi.
Sono circa le 17 quando giungiamo in vista di Điên Biên Phu. La cittadina, costituita in massima parte di edifici moderni anche se piuttosto mal tenuti, sembra già prepararsi al ruolo di capoluogo della provincia di Lai Châu che ricoprirà al posto dell'omonimo attuale destinato, come detto, a scomparire sott'acqua con la costruzione della nuova centrale idroelettrica. In questa spinta verso il modernismo sembra inquadrarsi alla perfezione il nostro hotel, il Muong Thanh, il migliore della città, tant'è vero che quel poco di turismo che passa da queste parti si riversa qui; "migliore" vuol dire, del resto, che le camere, un po' anonime ma grandi e confortevoli, non costano più di 15-20 dollari l'una.
Mentre i nostri assistenti si occupano degli adempimenti della reception, piuttosto affollata, ci facciamo quattro risate alla vista delle "americanate" (davvero non ce l'aspettavamo in questo posto in capo al mondo) disseminate nel cortile interno: sulla parete di fondo della piscina è dipinto un enorme affresco, a dir poco fantasioso, della baia di Ha Long, mentre tutto il perimetro è popolato di animali in vetroresina a grandezza naturale, dai bufali alle giraffe, dai leopardi alle zebre, dai leoni ai pinguini!
La sala da pranzo, molto grande, è anche karaoke-bar (autentico, non come quelli di Cát Bà che mascheravano dei bordelli) e quando ci mettiamo a tavola siamo già in pieno fermento da Tet, con esibizioni in certi casi esilaranti. Oltre a noi, gli unici stranieri sono un gruppo di una quindicina di simpatici francesi nei quali ci imbatteremo ripetutamente anche nei prossimi giorni.
Al termine della cena, un gruppo di sei ballerine in costume intrattiene gli ospiti con uno spettacolo di canti e danze, coinvolgendo poi tutti in uno dei rituali del Capodanno cinese: un girotondo globale intorno a una grossa anfora di nep moi. A ogni passaggio è d'obbligo una sorsata attraverso alcune cannucce di bambù (sono una decina per una cinquantina di persone, quindi… a chi tocca tocca!) seguita da strette di mano in serie; è evidente che dopo due o tre giri, per salvarsi da ciucca sicura, l'unico rimedio è attaccarsi alla cannuccia ma fare solo finta di bere.

Giovedì 23 gennaio: ĐIÊN BIÊN PHU – SƠN LA (km. 133)
Il luogo in cui ci troviamo non può non suscitare ricordi in quelli delle nostre generazioni, per le vaghe notizie all'epoca sentite alla radio o lette sui giornali; inevitabilmente, da ragazzini quali eravamo, ne storpiavamo il nome in denbenfù, benbenfù o simili, nemmeno immaginando dove fosse quel posto dal nome che sembrava uno scioglilingua né tanto meno che ci avremmo trascorso un giorno della nostra vita. In realtà il 6 maggio 1954 qui passò la Storia, quando l'esercito del Viet Minh sconfisse definitivamente i francesi segnando in pratica l'inizio dell'indipendenza del Paese; la conduzione della battaglia tenuta in quell'occasione dal generale Vo Nguyen Giap è tuttora citata come uno degli esempi più significativi di strategia bellica (e dopo alcuni anni sarabbe toccato anche agli Americani fare le spese del suo acume tattico…).
È proprio al relativo museo che dedichiamo la prima parte della mattinata. Dopo una puntata al sito in cui è stato ricostruito fedelmente il quartier generale francese, con le trincee, vecchi carri armati e pezzi di artiglieria, visitiamo il museo vero e proprio, che espone una grande quantità di residuati, fotografie, documenti, ritagli di giornali e un grosso plastico del campo di battaglia.
Il tratto di 65 km. da Điên Biên Phu a Tuần Giáo ricalca esattamente quello percorso ieri, ma non ce ne dispiace, dato che, come abbiamo visto, è uno dei più apprezzabili sotto l'aspetto paesaggistico; anzi, possiamo fare sosta in alcuni punti memorizzati ieri per fotografare nelle migliori condizioni di luce.
Un gruppo di bambini che trascinano grossi rami di pesco ci incrociano salutandoci, ma basta rallentare, posteggiare e scendere dall'auto per provocare un fuggi-fuggi generale. Ci vuole un po' di pazienza, l'ho già detto, e di lì a pochi minuti eccoli sbucare da dietro l'angolo, spinti da una curiosità maggiore della nostra; prima con circospezione, poi sempre più arditi, ci avvicinano per i consueti gesti di guardarci, tirarci i peli delle braccia, girare attorno alla jeep, sbirciare al suo interno. Per ridurre ancora di più le distanze, mi è anche utile un pacco di cialde salate acquistate in un mercato qualche giorno fa; è sempre preferibile offrire prodotti locali anziché caramelle, che possono provocare carie, o chewing-gum, che spesso vengono ingoiati.
Ci troviamo in una regione abitata dai Thai Neri (da non confondere con i Tay), le cui donne (bambine comprese) abbinano alla lunga gonna nera camicette dai colori sgargianti, foulards altrettanto variopinti e larghi copricapi neri bordati spesso con lo stesso tessuto dei foulards. Ben presto alcune donne si aggiungono al capannello dei bambini e ha inizio il solito tentativo di dialogo con sorrisi, gesti e parole reciprocamente incomprensibili. Dopo alcune foto insieme, una di esse allontana tutti gli altri e, dopo un'aggiustatina agli abiti, si mette in posa con orgoglio pretendendo un primo piano: una scenetta veramente gustosa e una delle immagini più belle, con un sorriso nel quale spicca un luccicante dente d'oro. So che mi ripeto, ma la semplicità e la schiettezza di questa gente sono una lezioncina di umanità che costituisce il vero sale del viaggio.
Arriviamo a Tuần Giáo giusto all'ora di pranzo e basta un gesto per far capire ai nostri accompagnatori che non intendiamo mangiare nello stesso ristorante di ieri. Ormai ci conoscono abbastanza e nemmeno "ci provano"; Liêm va a prendere contatti con il locale di fronte e il gestore, che evidentemente intravede la possibilità di "entrare nel giro", ci accoglie con tutti gli onori. Il menù è sostanzialmente simile a quello del dirimpettaio, ma per lo meno la qualità è decente.
Proseguiamo ora in direzione est lungo la statale 6 e notiamo che il fondo stradale va, anche se di poco, migliorando; d'altra parte, i paracarri ci informano che siamo ormai a "soli" 350 km. da Hà Nôi, vale a dire "solo" una quindicina di ore di guida…
Gli imprevisti sono comunque sempre dietro l'angolo: un bel tratto franato non ce lo toglie nessuno anche oggi, preannunciato in lontananza dal polverone di un cantiere e dalla silhouette del pullmino Hyundai rosso dei Francesi, che si è piantato in una cunetta e non riesce ad andare né avanti né indietro; sono necessari alcune zeppe sotto le ruote e l'intervento della squadra di operai per sospingerlo fuori, mentre Phong, con un energico lavoro di sterzo, riesce a superare l'ostacolo con disinvoltura. La nostra UAZ sarà meno comoda ma si conferma la vettura ideale per questo itinerario.
Durante una successiva sosta, siamo avvicinati da due bambini che ci chiedono, sempre a gesti, se abbiamo delle penne. Ho a portata di mano una pregevole Pilot nuova di zecca e istintivamente la porgo a uno, ma subito mi rendo conto di avere fatto torto all'altro e cerco di metterci una pezza con le solite cialde, anche se non è la stessa cosa; vuol dire che al primo mercato farò provvista di penne per le future occasioni.
Lo farò di lì a poco: a Sơn La, dove arriviamo a metà pomeriggio, una delle maggiori attrattive è proprio il grosso mercato. Ma la prima incombenza è quella della sistemazione in albergo; il Khach San Cong Doan è una struttura statale rivolta in prevalenza ai turisti e il primo impatto è favorevole, con tanto di tè offerto nell'ampia reception arredata con bei mobili massicci. La sorpresa è quindi molto più sgradita quando apriamo la porta della camera destinataci: nei nostri viaggi ci sono capitate sistemazioni talvolta spartane (Australia, Venezuela), ma erano casi in cui erano le uniche reperibili o comunque per nostra scelta. Questa è un vano squallido in una dipendenza poco utilizzata, con tre letti polverosi impregnati di umidità, che trasuda anche dai muri e dal basso soffitto ammuffito, non arieggiata da chissà quanto tempo. Al nostro rifiuto, ci viene prospettata l'alternativa di due doppie con supplemento di 5 $, che sono in fondo tremila lire a testa, ma non è una buona ragione per transigere e alla fine la spuntiamo. La cosa è ancora più fastidiosa nel riscontrare che le camere buone ci sono, tant'è vero che quella infine assegnataci è ampia e confortevole. Davvero, non bisogna mai abbassare la guardia!
Prima di cena, abbiamo il tempo per una passeggiata sulla via principale della città, brulicante di botteghe e negozietti, e soprattutto nel vicino mercato, per la solita divertente immersione nella quotidianità vietnamita. Anche qui è frequente, mescolata alla folla, la presenza di donne Thai, anche se i costumi mostrano differenze a seconda del luogo di provenienza: molto bello è ad esempio un copricapo conico nero sul quale sono applicati numerosi ponpon colorati; quelle di un altro gruppo, che ogni giorno percorrono una trentina di km. in bicicletta per venire a vendere fascine di legna da ardere, indossano giacche di panno a colori vivaci ma in tinta unita e in testa il cappello conico a coprire i capelli lunghi composti in un ordinato chignon.
Oltre ad acquistare per quattro soldi un mazzo di penne colorate, ci aggiriamo tra le consuete mercanzie, intrattenendoci piacevolmente davanti a una bancarella di ortaggi, dove possiamo assaggiare delle particolari canne da zucchero, che vengono tagliate a pezzi da tenere in bocca per succhiarne la linfa dolcissima.
Tornati in albergo, ci rechiamo alla sala ristorante, nella quale di lì a poco entrano anche, manco a dirlo, i Francesi, che percorrono evidentemente il nostro stesso itinerario. La cena, anche se non è tra le peggiori del viaggio, non è nemmeno della categoria di quelle da segnare sul calendario.

Venerdì 24 gennaio: SƠN LA – MAI CHÂU (km. 158)
Un altro spunto di interesse a Sơn La è l'area della vecchia prigione francese, teatro della repressione contro gli anticolonialisti ma poi, dopo la raggiunta indipendenza, contro i "Montagnards" (cioè i vari popoli di montagna) che erano stati reclutati tra le file francesi e per questo perseguitati. La Storia non ha mai finito di insegnarcelo: a seconda di chi vince o perde le guerre, è sempre veloce il passaggio dalla definizione di patriota a quella di traditore o viceversa…
Il sito fu in seguito quasi del tutto distrutto in quanto prescelto come riprovevole "discarica" di una grande quantità di munizioni non utilizzate dagli aerei americani.
Oggi vi è stato allestito un museo, piccolo ma istruttivo, delle minoranze etniche; dalle finestre del piano superiore si ha una veduta esauriente del sottostante penitenziario, che si passa quindi a visitare. Quale luogo di interesse storico, il complesso è stato in parte restaurato e le torri di guardia ai quattro angoli ricostruite; all'interno del perimetro prevalgono muri diroccati, ma il poco che è rimasto in piedi, cioè le celle comuni e quelle minuscole di isolamento, è sufficiente per dare un'idea della durezza della condizione dei detenuti.
Lasciamo con un certo sollievo questa testimonianza di un momento storico che è al tempo stesso da dimenticare e da tenere vivo nella memoria, per riprendere il nostro itinerario lungo la statale 6. Lo scenario naturale non cambia di molto rispetto ai giorni precedenti, ma sul piano umano anche oggi non mancheranno esperienze piacevoli.
Nella tarda mattinata facciamo una tappa davvero memorabile. Posteggiata l'auto su un lato della strada, attraversiamo un fiume tramite un ponte sospeso in bambù, oscillante ma solido, che fa tanto Indiana Jones, per recarci a un villaggio Muong immerso in alberi di alto fusto e palme da banana. In mezzo alle capanne rialzate su travi, come al solito in legno ma qui più grandi e massicce, c'è l'animazione delle occasioni importanti, dovuta all'imminente celebrazione di un matrimonio; quando siamo all'estero non ce ne perdiamo uno, figuriamoci qui! Con la consueta discrezione e sempre "introdotti" dai nostri accompagnatori, possiamo assistere ai preparativi, anche se degli sposi non vedremo traccia. Intorno a un gigantesco pentolone sul fuoco si danno il cambio alcune donne che rigirano con una stanga in legno il "piatto forte" (o unico?), consistente in riso mescolato alla grossolana farina di kashava.
L'abbigliamento delle donne è più variato del solito e probabilmente ciascuna indossa oggi il meglio che possiede: così, alle gonne nere se ne alternano di colorate, mentre le camicette sono in tinta unita, per lo più bianche, azzurre o rosa, con l'abbottonatura in merletto variopinto. La parte più vistosa è il copricapo, un ampio foulard a motivi geometrici coloratissimi sistemato a turbante, che lascia però visibile buona parte della lunga capigliatura nera acconciata con cura.
Essendo quella Muong una società maschilista, tutti gli uomini, alcuni dei quali con abiti paramilitari, sono radunati attorno a bassi tavoli, chiacchierando, giocando a carte, fumando, bevendo tè, birra e nep moi.
Intanto il contenuto del pentolone è stato versato e disteso su grosse tavole e anche questa volta, com'era facile immaginare… ci tocca! La "specialità della casa", anche se un po' dolciastra, è tutto sommato gradevole, anche se, per servirci, non possiamo che usare lo strumento che usano tutti, le mani!
Lasciamo infine la simpatica riunione, ritorniamo sui nostri passi e raggiungiamo l'auto proprio mentre arriva il minibus dei Francesi. Di lì a poco facciamo sosta in uno dei soliti ristorantini, che non ci riserva sorprese né nel bene né nel male e riprendiamo il nostro itinerario in direzione est.
Tentiamo un contatto con alcune donne e bambini davanti a una capanna, ma appena scendiamo dall'auto si rintanano, pur sorridendo, in casa chiudendo la porta. Abbiamo già notato che, quanto più le abitazioni sono isolate, tanto maggiore è la riservatezza, così preferiamo non insistere e allontanarci educatamente; abbiamo comunque il tempo di scorgere sotto una tettoia una bambina al lavoro con una macchina per cucire. Queste piccole concessioni alla modernità, magari antiquate ma funzionanti, sono abbastanza diffuse, visto che quasi tutti confezionano i propri abiti utilizzando tessuti provenienti a prezzi bassi dalla vicina Cina.
Abbiamo più fortuna poco oltre Mộc Châu, quando incrociamo due donne, ciascuna con una cesta e un bambino sulle spalle. Siamo nella regione dei Thai Bianchi, che però di bianco hanno poco o nulla; vestiti all'occidentale gli uomini, mentre le donne portano i capelli arrotolati in lunghe trecce concentriche, camicie scure, gonne colorate a motivi patchwork piuttosto elaborati appena sotto il ginocchio, spessi calzettoni scuri.
Con la solita mediazione di Liêm, Mario manifesta l'intenzione di acquistare una delle gonne, come souvenir un po' più "vissuto" di quelli soliti. Appena una delle due donne capisce il senso della richiesta, manda a casa un ragazzotto in moto che di lì a pochi minuti torna con un sacco pieno di abiti, evidentemente dopo avere svuotato l'armadio. La trattativa è lunga e laboriosa, cosicchè io e Walter abbiamo il tempo di fare due passi fino a una vicina cava, dove sta lavorando una giovane coppia; stanno spaccando pietre a colpi di mazza senza risparmiarsi, e non ci risparmiano neanche un largo sorriso, tanto più che lei ha lineamenti e una silhouette che non la farebbero sfigurare vicino a una delle veline nostrane! La comunicazione non va molto al di là di uno schizzo sul terreno con un bastoncino, un grossolano planisfero su cui indichiamo il Việt Nam e l'Italia, ma sono certo che il breve incontro rimarrà un ricordo piacevole per tutti e quattro.
Poco più in là si è anche radunato il consueto capannello di bambini e questa volta non ho motivi di rimorso, visto che ce n'è per tutti: sei bambini, sei penne.
Mario ha frattanto concluso la trattativa e, messo in macchina l'ambito souvenir, possiamo ora dirigere verso la nostra meta serale, dalla quale ci dividono ormai solo una cinquantina di chilometri. All'altezza di Tong Dau, dalla statale 6 si dirama sulla destra un bivio per una strada secondaria che in 6 km. porta a Mai Châu; da qui un ultimo tratto di altri 5 km., in pratica una pista della larghezza di un'automezzo in mezzo alle risaie, ha termine al villaggio Thai di Lac, un luogo davvero inconsueto e probabilmente la sosta più gradevole di tutto l'itinerario.
Si tratta di un gruppo di una ventina di palafitte in legno con il tetto in paglia, delle quali gli abitanti affittano il piano superiore, collegato da una scala esterna, preparando anche piatti di una cucina semplice ma accurata e gustosa. Ci sono le comodità di base, quali le toilettes e la doccia (esterne) e l'elettricità, ma ci si rilassa passeggiando tra le case, compenetrandosi nei ritmi della vita contadina, gustando il panorama dalla finestra e si dorme su materassini stesi sul pavimento di bambù; il tutto in una dimensione quasi fuori dal tempo.
Per Mai Châu vale quanto già detto a proposito di Sa Pa: essendo la sola località dell’area delle minoranze nord-occidentali che consenta una gita di andata e ritorno da Hà Nôi in un paio di giorni, è meta di un certo flusso turistico, peraltro di impatto molto limitato. Molto meno sono quelli che giungono qui provenendo da ovest, stasera giusto noi e, indovinate, i Francesi, che arrivano a breve distanza e con i quali stiamo ormai diventando amici.
Quando le strade di queste province, l'ho già detto, saranno state allargate fino a consentire il passaggio dei pullman dei grandi Tour Operators, tutto questo assumerà un tono di "pittoresco finto" che ne sminuirà parecchio il fascino. Forse abbiamo fatto appena in tempo, anzi qualcuno ha già pensato a piazzarsi la bancarella dei souvenirs davanti a casa.

Sabato 25 gennaio: MAI CHÂU – HÀ NÔI (km. 131)
Siamo arrivati all'ultimo giorno dell'itinerario al quale maggiormente tenevamo in fase di progettazione e già dobbiamo proiettarci verso il proseguimento del viaggio. Ieri sera Liêm, con un giro di telefonate tramite un operatore turistico di Hà Nôi consociato con l'Auberge Hotel di Sa Pa, ci ha già sistemato buona parte degli aspetti logistici più immediati: il pernottamento di stasera nella capitale, il biglietto aereo per Hué e il taxi di domattina per l'aeroporto. Ci costerà qualche dollaro di commissione ma ci consentirà di passare una serata in relax anziché in pellegrinaggio tra un'agenzia e l'altra.
Lasciato il villaggio alle 8,30 e tornati al bivio, abbiamo il tempo per un giro nel mercato di Mai Châu, simile a tutti gli altri già visti e che vedremo, ma fonte di scoperte e scenette sempre nuove; oggi la nota curiosa è l'acquisto di un calendario cinese, un investimento irrisorio per un souvenir davvero originale. La cosa non è peraltro così scontata, visto che il blocchetto e il cartone decorato di sfondo sono venduti da due bancarelle differenti alle opposte estremità del mercato.
L'intero tragitto odierno si svolge lungo la statale 6 tra i consueti scenari di quotidianità contadina, di tanto in tanto intervallati da piccoli centri abitati, ma sbaglierebbe chi, leggendo, lo reputasse una banale tappa di trasferimento: ripetitività non equivale a noia, anzi sentiamo di esserci ormai compenetrati nei ritmi pacati di questa vita estranea all'orologio e già ne proviamo nostalgia sentendo ormai vicina la grande città.
Suôi Rút, una decina di km. più avanti, ci riserva l'ultimo mercato di questa parte del viaggio: essendo sabato, è uno dei più importanti e frequentati, nel solito colorito andirivieni di venditori e acquirenti, affluiti qui a piedi, su carretti, in bicicletta o moto da piccoli insediamenti distanti anche trenta o quaranta chilometri. La densità umana tra le bancarelle è difficilmente immaginabile ma, come già in analoghi contesti, non abbiamo sensazioni di possibili rischi; prendiamo le solite precauzioni elementari, valide in ogni luogo del mondo, come mettere i soldi in tasche interne, non esibire rotoli di dollari e non tenere il portafogli nella tasca posteriore dei jeans, ma niente di più. Abbiamo anche un'altra conferma del grado di igiene personale dei vietnamiti, essendo del tutto assenti odori corporali, nonostante un agglomerato così fitto e la giornata calda.
Siamo ormai in vista del bacino artificiale di Sông Đà, creato dallo sbarramento dell'omonimo fiume al fine di approvvigionamento idrico ed elettrico di buona parte delle province settentrionali. Al di là dell'indiscutibile utilità della colossale opera, la sosta in vista della diga è di quelle "giusto perché passavamo di qui": una muraglia di calcestruzzo non può trasmettere alcuna emozione nell'ambito di un'itinerario di alto valore ambientale e soprattutto umano, quindi pochi minuti bastano e avanzano.
Ci troviamo ormai all'ingresso dell'abitato di Hòa Bình, cittadina un po' più grande e moderna di altre attraversate e piuttosto anonima, ma ideale luogo di fermata, essendo ormai l'ora di pranzo. Il ristorante è affollatissimo e ben pochi turisti devono frequentarlo, a giudicare gli sguardi di curiosità a cui siamo fatti segno. Davvero spassoso questo breve dialogo con un giovane vicino di tavolo. Ragazzo vietnamita: "Mà Rà Dò Nà?"; io: "No Maradona… Italy, Vieri, Del Piero, Inzaghi…"; ragazzo vietnamita: "Oh, Fiè Rì, In Sà Chì, Dè Piè Rò…". Devo averlo fatto felice, visto che tira di tasca un fotocamera di plasticaccia per fare una foto tutti insieme e poi una a me, Mario e Walter da soli: ora siamo diventati noi le "minoranze etniche"… Il calcio, eccolo il vero linguaggio universale!
Nel tratto di 72 km. che ci divide da Hà Nôi cambia poco a poco il paesaggio e aumenta gradualmente tutto: la scorrevolezza del fondo stradale, la velocità della UAZ, il traffico, il frastuono dei clacson, la concentrazione di case e gente. Mentre Phong si districa con la consueta abilità tra le vie del Quartiere Vecchio, Liêm tiene i contatti via cellulare e di lì a poco avviene il rendez-vous volante con la motoretta dell'impiegata dell'agenzia, che ci fa da staffetta fino al nostro hotel. Ci vengono consegnati i biglietti del volo Hà Nôi – Hué di domattina, saldiamo tutti i conti e alle 17,30 ci congediamo dai nostri assistenti: anche se ogni tanto abbiamo dovuto tenerli un po' sotto pressione, ci hanno fornito un servizio conforme agli accordi e sono stati una compagnia tutto sommato piacevole e affidabile. Liêm sarà per qualche giorno ospite presso parenti in città, mentre Phong, dopo avere dormito in un hotel in periferia, partirà domattina di buon'ora con l'obiettivo di raggiungere Sa Pa nella tarda serata; non sappiamo se ce l'avrà fatta, ma i complimenti sono d'obbligo anche alla semplice intenzione!
Ci troviamo all'Hotel Ngoc Minh, al 47 di Pho Luong Ngoc Quyen, in pratica lo stesso isolato del Prince 1 che ci ospitò le prime due notti, ma questo è migliore, sia come struttura che per l'efficienza del personale; inoltre, spendiamo meno ($ 20 totali per due buone camere contro i 30 per una tripla al Prince), il che mi ha indotto a suggerirlo alla EDT in vista di future edizioni della Lonely Planet.
Fatta una buona doccia, è comunque gradito il ritorno per qualche ora ad Hà Nôi, città di contrasti ma di indubbio fascino che certamente mi resterà nel cuore. La serata scorre piacevole, prima con una passeggiata fino al lago di Hoan Kiem, poi una visita a una piccola galleria d'arte in cui acquisto per poche migliaia di dong alcuni acquarelli di gusto naif, per finire nel collaudato ristorante "Little Hanoi", per una cena gustosa quanto quella di nove giorni fa.
Per la conclusione della giornata, decidiamo per una delle vere e proprie istituzioni della città e dell'intero Việt Nam, il teatro delle marionette sull'acqua. Il biglietto in prima fila costa 40.000 dong + 10.000 per il permesso di fotografare (poco più di tre dollari totali), prezzo per noi irrisorio ma elevato per lo standard locale, tant'è vero che gli spettatori sono per la quasi totalità turisti. Lo spettacolo, nato oltre mille anni fa dall'idea dei contadini delle risaie di trasformare in palcoscenico il loro ambiente di lavoro, consiste in una serie di scene di vita quotidiana o riferite a leggende popolari che hanno luogo in una vasca quadrata riempita con circa un metro d'acqua; sullo sfondo di un accompagnamento musicale a cura di sei musicisti con strumenti tradizionali e di tanto in tanto effetti pirotecnici, le marionette in legno dipinto, alte circa mezzo metro, sono mosse tramite meccanismi, cavi, carrucole, tiranti, slitte, ingranaggi (non visibili sotto l'acqua smossa) manovrati da una decina di burattinai nascosti sul retro da un fitto tendaggio e che si palesano a fine spettacolo per raccogliere meritati applausi. Si tratta di una rappresentazione piuttosto lontana dal gusto occidentale ma merita di essere vista, anche perché dura un'ora e non risulta stancante.
Siamo al termine anche di questa seconda fase del viaggio. Entrambe le volte siamo partiti da Hà Nôi per poi ritornarvi, ma queste sono davvero le nostre ultime ore nella capitale, della quale sono certo che serberò ottimi ricordi.
Domattina alle 11 un volo interno ci porterà a Hué e dedicheremo dieci giorni alla conoscenza del centro-sud del Paese: l'antica capitale indocinese, le tombe imperiali lungo il Fiume dei Profumi, i siti archeologici della misteriosa civiltà Cham, il Delta del Mekong e quella miscela di tradizione e spinta verso la modernità che è Saigon.
Vi descriverò tutto questo nella terza e quarta parte del resoconto del nostro viaggio in Việt Nam, naturalmente su Ci Sono Stato!

2 commenti in “Viet Nam 2: mille colori, mille sorrisi!
  1. Avatar commento
    maria teresa
    25/10/2004 22:53

    Non so se me la sentirei di affrontare un viaggio impegnativo come questo..... anche perché il mio lavoro è stressante e in vacanza sento l'esigenza del relax. Però prima o poi mi devo decidere.. forse conta anche avere qualcuno che ci spinga.... X adesso, viaggi così mi accontento di leggerli, scritti così bene è un grandissimo piacere!!!

  2. Avatar commento
    Valeria
    12/03/2004 10:31

    Che mondo straordinario! E' proprio vero che si possono fare ancora delle scoperte.... Basta allargare un po' i propri interessi e non fermarsi alla "solita" settimana "all-inclusive" in un villaggio... Sono d'accordo con l'autore, sarà un viaggio un po' impegnativo ma.... che belle emozioni! Ciao da Valeria.

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