Venezuela, l'essenza del Sudamerica - Parte II

Gran Sabana, Salto Angel e Canaima

Questo articolo è dedicato a:
- chi nella vita è pieno di sicurezze;
- chi è abituato a dare tutto per scontato;
- chi fa i programmi di viaggio convinto di rispettarli.

Il diario fa seguito alla prima parte del resoconto di viaggio già pubblicata sotto il medesimo titolo in questo stesso sito.Martedì 26 marzo 2002
Chi ha letto la prima parte del resoconto di questo viaggio in Venezuela si è già documentato riguardo alla progettazione degli itinerari, agli aspetti logistici e alle notizie generali sul Paese che stiamo visitando. Quindi non mi ripeterò e riprenderò il racconto dal punto esatto in cui l’avevo interrotto, cioè le 17 di martedì 26 marzo 2002.
Eccoci a Tucupita, sul marciapiede torrido antistante la Delta Surs, mentre carichiamo i bagagli sul taxi che Abelardo ci ha chiamato concordando il prezzo di 35.000 VEB per farci portare a San Felix. Si tratta, a ritroso, dello stesso tragitto coperto sabato 23, con la differenza che, anziché a Puerto Ordaz, siamo diretti all’altra metà di Ciudad Guayana, vale a dire San Felix, dove è ubicato il terminal delle autocorriere.
Sono ormai le 19,30 quando entriamo nell’autostazione, che, come tutte le altre che toccheremo, costituisce un piccolo mondo a sé: a quest’ora però c’è poco movimento, costituito solo dai viaggiatori in attesa di imbarcarsi sulle corse notturne. Ne consegue che buona parte delle biglietterie delle varie compagnie sono chiuse e non possiamo fare altro che individuare quelle che operano sul tragitto che ci interessa, vale a dire in direzione di Santa Elèna (accento sulla seconda “e”) de Uairèn. Rassicurati per avere constatato che nella mattinata ce ne sono almeno tre o quattro a brevi intervalli a partire dalle 7,30, ci facciamo portare dal tassista (che ci ha atteso e aiutato nella ricerca) all’Hotel Aguila, uno dei pochi decenti di questa brutta città: la camera a tre letti ci costa 21.000 VEB. Consumiamo una cena senza infamia e senza lode (nonostante la pretenziosità di una sala da pranzo grande quanto deserta) nel ristorante dell’albergo spendendo 39.000 VEB, che in questo contesto non sono certo pochi; ma almeno restiamo alla larga da un agglomerato urbano che sia Abelardo che l’autista ci hanno vivamente sconsigliato dopo il tramonto.
Ci ritiriamo quindi in camera di buon’ora, anche perché domattina dobbiamo essere mattinieri al terminal per capire come funziona qui il mondo dei trasporti pubblici e individuare una combinazione possibilmente veloce, conveniente e confortevole (non è che chiediamo troppo?) per raggiungere la nostra meta. Ne vedremo delle belle!

Mercoledì 27 marzo 2002
Non ho ancora spiegato la ragione per cui abbiamo scelto di andare a Santa Elèna de Uairèn, coprire cioè 629 chilometri in dieci ore per raggiungere l’ultimo centro abitato del sud-est venezuelano che si incontra prima di passare la frontiera con il Brasile.
Si tratta in effetti del punto di partenza più strategico per le escursioni nella Gran Sabana, una cittadina in cui sono presenti una decina di agenzie che, essendo sul luogo, possono offrire un servizio più specializzato rispetto agli operatori di Ciudad Bolìvar, Ciudad Guayana o addirittura Caracas; altro aspetto da non trascurare, anche i prezzi sono più contenuti.
Ma che cos’è, si saranno già chiesti in molti, questa Gran Sabana? Provo ad azzardare (ma credo di non sbagliare) che l’etimologia di sabana sia la stessa di “savana”, termine ben più noto per documentari e articoli di riviste sulle grandi pianure africane che ciascuno di noi ha visto decine di volte. Anche la Gran Sabana è un territorio ad andamento pianeggiante, o, più propriamente, strutturato come altopiano leggermente ondulato di un’altezza media poco inferiore ai mille metri che si estende per circa 35.000 kmq. e nel quale vivono circa 15.000 indios di etnia Pemòn frazionati in centinaia di piccoli insediamenti. Il Rio Caronì (ne ho già parlato nella prima parte, è quello che si getta nell’Orinoco a Ciudad Guayana dando luogo al fenomeno dei due flussi d’acqua di diverso colore nello stesso alveo) e i suoi affluenti formano lungo il loro corso rapide, gole, cascate e laghetti che rendono ancora più intensa la bellezza selvaggia di questa regione. Ma la caratteristica davvero unica della Gran Sabana è costituita dai cosiddetti tepuis (singolare tepui o tepuy): si tratta di montagne in arenaria dalle pareti verticali con la sommità piatta, risultato di un’erosione alla quale, nel corso delle ere geologiche, hanno resistito solo i blocchi di roccia più solida. Lo straordinario interesse scientifico dei tepuis risiede nel fatto che nell’arco di milioni di anni l’isolamento ha fatto sì che la flora e la fauna di ciascuno abbiano seguito una propria evoluzione fino all’affermarsi di un habitat irripetibile, differente da quello di tutti gli altri.
Sotto l’aspetto scenografico, lo stagliarsi all’orizzonte dei loro profili squadrati, magari con la colorazione azzurrina di certe ore del giorno o le nuvole alla base che li fanno sembrare sospesi nell’aria, dà la sensazione di un paesaggio magico.
Ma esco subito dal mondo delle favole per entrare in quello più terreno e convulso del terminal delle autocorriere di San Felix (che sarà un po’ il padre di tutti quelli, otto se ben ricordo, in cui faremo tappa). Scendere dal taxi che ci ha portato qui dall’albergo significa immergerci in un andirivieni di persone e automezzi che, nonostante siano appena le sette del mattino, è già frenetico. Ogni nuovo arrivato, specie se con valigie e l’etichetta “straniero” appiccicata sulla fronte, è subito fatto segno da un nugolo di procacciatori di servizi, ufficiali o abusivi, che non mollano la preda finché non conoscono la località a cui è diretto per proporre chi un autobus, chi un carrito, una buseta o un taxi, ovviamente magnificato come il migliore (se non l’unico) mezzo disponibile.
Cerchiamo di dribblare (i bagagli sempre ben stretti in mano) la loro marcatura puntando decisi alle biglietterie che abbiamo individuato ieri sera ma ne troviamo subito due chiuse, incamerando così un’altra delle “lezioni per l’uso del Venezuela”: se ho cominciato il racconto di questo viaggio consigliando di non dare nulla per scontato, avrò avuto le mie ragioni! In un terminal di autoservizi non si è mai sicuri che una corriera per una certa destinazione ci sia, se c’è non si è sicuri di quando parta (di solito ahorita, vedi ancora la prima parte per la filosofia di vita che si impernia su questo avverbio), una volta partita non si sa a che ora arriverà, quando arriverà non si sa quando ci sarà la coincidenza per un eventuale proseguimento; non solo, quel giorno la corsa che ci interessa potrebbe non essere effettuata e lo si apprende solo trovando chiusa la biglietteria della Compagnia.
E le partenze per Santa Elèna delle 7,30 e delle 8,00 lette ieri sul cartello? E chi ne sa qualcosa? Ma quello venezuelano è un popolo fervidamente credente e i terminal sono anche luoghi in cui possono accadere i miracoli: un vettore che ieri sera era sfuggito alle nostre indagini effettua il tragitto che ci interessa, è un servizio ejecutivo (cioè garantito e di qualità), il bus fa poche fermate, ha l’aria condizionata, l’ufficio è aperto e una Culona in fuseaux color salmone al di là del botteghino assicura che c’è posto per tre persone. Sborsiamo immediatamente 13.000 VEB a testa e ci teniamo ben stretti in pugno i biglietti e le nostre sicurezze: disponiamo di un’ora prima della partenza alle 9,30 e ci rilassiamo a un tavolino del bar per una buona colazione.
Passa forse un quarto d’ora ed ecco comparire la Culona che ci sta cercando per tutto il terminal: è spiacente, l’autocorriera che doveva disimpegnare il servizio ha avuto un problema meccanico, è ferma da qualche parte a un paio d’ore di distanza e la corsa è annullata, con pronto rimborso del biglietto pagato. Ma c’è con lei uno dei tanti Angeli Custodi del Viaggiatore Bisognoso, nei panni di una sua amica impiegata di un’altra Compagnia: bisogna fare presto, lasciar perdere la colazione, alle nove parte un altro pullman, più piccolo, più scalcinato, più scomodo, non climatizzato ma più economico per Santa Elèna e vedrà di rimediarci un passaggio. Davanti all’automezzo c’è una folla di pretendenti; dopo un serrato conciliabolo tra la Culona salmonata, la sua collega, l’autista e il bigliettario, saltano fuori tre miracolosi posti. Molliamo 10.000 VEB a cranio e ci incastriamo in tre sedili sparsi dopo un percorso a ostacoli nell’abitacolo scavalcando borse, valigie e colli assortiti tra cui spiccano sacchetti della spesa, una confezione monumentale di pannolini per neonati, tre ventilatori, una tastiera elettronica d’epoca, due carrozzine, involti, pacchi e scatoloni di contenuto vario. Per quanto stracarica nel bagagliaio, nella cabina e sul tetto, la corriera riesce a partire (terzo miracolo) quasi in orario (quarto miracolo).
Tutto quadra: ascoltando esperienze fatte da amici in Sudamerica, situazioni intricate come questa sono la norma, ma quando si ha la sensazione di non trovare vie d’uscita, succede sempre qualcosa che risolve il problema. Stiamo cominciando a divertirci, anche se crediamo di intuire come ha funzionato la faccenda: compiendo noi il tragitto totale, mi sa tanto che siamo stati privilegiati, in quanto fonti di un incasso maggiore, a scapito di qualche viaggiatore diretto alle località più vicine.
Effettuare questo trasferimento, scartando l’alternativa di un volo interno, era una cosa alla quale tenevamo particolarmente già in fase di progettazione per avere un istruttivo quadro di quotidianità attraverso i finestrini di una corriera di linea lungo un itinerario lontano dalle grandi città. Si tratta, come ho accennato, della strada di 629 chilometri che porta verso sud fino a Santa Elèna de Uairèn, l’unico collegamento via terra per la Gran Sabana, ancora una trentina d’anni fa una pista problematica e finita di asfaltare nel 1990. La prima metà, vale a dire fino a El Dorado, fu teatro a partire dalla metà dell’Ottocento di una delle più febbrili corse all’oro della storia e in alcune località si respira ancora quell’atmosfera, con rivendite, laboratori e alcune miniere ancora attive.
Un centinaio di chilometri oltre El Dorado si entra nella Gran Sabana propriamente detta, già parte del vasto Parque Nacionàl Canaima; in questo tratto sono frequenti le deviazioni dalla strada principale, in prevalenza su sterrate, che portano ai numerosi siti di interesse del Parco, che sono poi la ragione primaria che ci ha spinto a trascorrere qualche giorno da queste parti.
Un album di centinaia di CD (ovviamente “taroccati”) posato vicino al cruscotto mi fa temere che anche questa volta la “Lonely Planet” abbia ragione: la musica è presente dovunque a tutte le ore, tant’è vero che parte a tutto volume (nel caso quelli delle ultime file non sentano bene…) non appena il mezzo si mette in moto. Personalmente amo ogni tipo di musica, ma vi assicuro che dieci ore filate di salsa, joropo e merengue diffuse a questi livelli sonori da un impianto di qualità infima possono causare un rigetto definitivo. E sarà una costante di tutto il nostro soggiorno in Venezuela.
Dopo una cinquantina di chilometri facciamo la prima sosta a La Encrucijada, uno slargo intorno a un cippo piramidale che sostiene la bandiera venezuelana e quelle di alcuni altri stati sudamericani; ci fermiamo una ventina di minuti per fare carburante e completare la colazione abortita a San Felix grazie a un chiosco (localmente kiosco) con annesso pergolato. Mentre i miei denti lottano con un pastelito duro come il legno, ho il tempo per osservare un po’ meglio il veicolo al quale abbiamo affidato i nostri destini, una corrierina da trenta posti bianca e rossa con il nome della compagnia “Turgar” che spicca variopinto sul vetro anteriore coprendolo per una buona metà, e per dare un’occhiata ai prezzi della benzina: il mercato offre la popular (89 ottani, € 0,06 al litro), la media (91 ottani, € 0,07) e la optima (95 ottani, € 0,08). E dire che negli ultimi due anni i prezzi sono più che raddoppiati!
Scavalcato il Caronì attraverso un ponte in ferro, all’altezza di Upata (km. 119 dalla partenza) ci è intimata una sosta imprevista. Una pattuglia della G.N. (Guardia Nacionàl) apre la portiera ordinando: “Todos los hermanos abajo!” (Tutti i fratelli giù!). Pensate un po’: avevo un sacco di fratelli e dovevo venire fino in Venezuela per scoprirlo!
In realtà, si tratta di un controllo del tutto normale in uno Stato a governo forte, anche se non mi spiego il fatto che sia limitato ai maschi, sempre che non cerchino qualcuno in particolare: scendiamo a terra e risaliamo uno a uno esibendo un documento, dopodiché si può ripartire. A un mio sguardo interrogativo, un compagno di viaggio con il quale avevo già scambiato qualche parola replica con due gesti eloquenti, ponendosi l’indice sulla bocca e incrociando i polsi sovrapposti; traduzione, stare zitti a scanso di rogne. Da qui a Santa Elèna avverranno altri tre controlli, anche se con modalità differenti (una volta ci faranno scendere tutti, un’altra saliranno a bordo gli agenti): prendere nota di un’altra lezioncina, cioè non fare un solo passo senza tenere il passaporto sempre a portata di mano. Ma bisogna anche dare atto ai gendarmi che con i documenti degli stranieri (in pratica solo noi tre) si limitano a uno sguardo del tutto superficiale restituendoli immediatamente.
A Guasipati, un gruppo di case allineate sui lati della strada all’altezza del km. 214, sostiamo giusto il tempo per far scendere alcuni viaggiatori. Altri 20 km. ed eccoci a El Callao, un centro di 12.000 abitanti di un certo rilievo in quanto nel suo comprensorio c’è tuttora una forte concentrazione di miniere d’oro: un po’ di benessere indotto dall’attività estrattiva fa sì che la cittadina, con i muri bianchi delle case bordati di colori vivaci, sia la più pulita e ordinata tra quelle che si incontrano lungo questa strada. Molto differente è El Dorado (km. 342), il cui aspetto odierno non fa onore al nome evocativo con il quale fu battezzato a metà dell’Ottocento uno dei più vasti bacini auriferi del Sudamerica: disordine, sporcizia e case malandate sono gli aspetti che subito saltano agli occhi durante i pochi minuti di fermata. La passata importanza di questa località è però comprovata dal fatto che convenzionalmente è fatta coincidere con il “Km. 0” della strada che porta a Santa Elèna de Uairèn e continua per altri mille chilometri, cambiando più volte numero, oltre il confine con il Brasile fino a Manaus, nel cuore dell’Amazzonia, e oltre. Nel tratto venezuelano inizia da Güiria, nella penisola di Paria a nord del Paese, ed è classificata con il numero 10.
A Las Claritas (km. 427 da San Felix), circa due terzi del viaggio) è in programma una fermata di mezz’ora: il piazzale sul quale ci sgranchiamo le gambe non è molto meno sgangherato di El Dorado, ma sembra essere uno dei luoghi di sosta preferiti dagli automobilisti che percorrono nei due sensi questa strada, anche perché alcuni chioschetti di ristoro e una sfilata di bancarelle di mercanzie varie danno vita a una simpatica animazione. Una delle ragioni di questo movimento sta nel fatto che siamo in piena Settimana Santa, una delle occasioni in cui i venezuelani si mettono in moto per andare in vacanza o a visitare parenti da una città all’altra; anche il vicino di posto di Walter si sta recando a Santa Elèna a trovare la sorella, anzi ci avverte che potremmo avere qualche difficoltà a trovare alloggio nella città per la forte presenza di gitanti diretti alla Gran Sabana, una delle mete di soggiorno più frequentate.
La strada prende ora a salire ad ampi tornanti. Al km. 441 (99 da El Dorado) un curvone su cui sono parcheggiati selvaggiamente una quantità di veicoli ci fa capire che siamo arrivati in uno dei siti più significativi: si tratta della Piedra de la Virgen, un masso in arenaria nerastra che emerge una ventina di metri al di sopra della vegetazione, sulla cui parete verticale chi è dotato di molta fantasia (la mia evidentemente non è sufficiente) individua un’immagine della Madonna. Non sarebbe luogo di fermata per le autocorriere, ma si fa comunque sosta per qualche minuto: c’è il tempo di bere il rituale sorso d’acqua a una affollatissima fonte (miracolosa?) e a scattare un paio di foto, più che altro per documentare il fenomeno mediatico nel suo insieme.
La località definisce convenzionalmente l’ingresso nel Parque Nacionàl Canaima. Si continua a procedere in salita per altri 35 chilometri attraverso la rigogliosa Serranìa de Lema finché, intorno a quota 1200, la foresta ha bruscamente termine. L’immensa prateria che si estende davanti a noi dopo avere scollinato è la Gran Sabana: peccato che una spessa nuvolaglia che va e viene ci consenta solo a sprazzi di intravedere in lontananza il profilo di qualche tepuy che fa da sfondo alle churuatas degli indios, costruite in fango essiccato nelle forme più diverse, coniche, circolari o rettangolari. Pazienza, ci consoliamo al pensiero che lungo i 180 chilometri che ancora ci dividono da Santa Elèna si diramano le deviazioni verso i luoghi salienti del Parco ai quali dedicheremo i prossimi tre o quattro giorni.
Nel frattempo parecchi passeggeri sono scesi alle varie fermate, tanto che ciascuno può ora disporre di un intero sedile doppio e l’autista, avendo in pugno un automezzo notevolmente alleggerito su un tratto ormai pianeggiante che non prevede più soste, può darci dentro con l’acceleratore sfogando velleità schumacheriane finora represse. Mancano pochi minuti alle 19 ed è ormai buio quando entriamo nel terminal di Santa Elèna de Uairèn: siamo a 5 gradi di latitudine nord e la vampata di calore che ci accoglie appena posiamo piede a terra ce lo conferma senza mezzi termini. Del resto siamo a meno di dieci chilometri da La Linea, frontiera con il Brasile.
Un compagno di viaggio ci indirizza all’adiacente Avenida Mariscal Sucre, assicurando che nei 500 metri che portano al centro ci sono parecchie possibilità di alloggio, così ci incamminiamo, zaino-valigia sulle spalle. Dopo poche decine di metri c’è una pensioncina che ha camere libere e la cosa non deve stupire: le stanze sono appena più grandi del letto, la copertura è una tettoia di lamiera ondulata rovente, non c’è aria condizionata o ventilatore e da qualche giorno per problemi di rifornimento idrico (in effetti sempre critico in questa regione) manca anche l’acqua. Beh, non siamo viaggiatori da Hilton, ma a tutto c’è un limite…
Fatto sta che i timori di affollamento a causa delle festività pasquali si rivelano fondati e anche questa volta la pagnotta non è tanto facile da conquistare. Dopo una decina di cartelli “completo” ecco però un altro intervento del C.A.C.V.B. (Consorzio Angeli Custodi del Viaggiatore Bisognoso): il piccolo Hotel Paratepuy di Calle Bolìvar (e quale altra via se no?) ci può fornire due camere, piccole ma con ventilatore e doccia, anche se l’acqua proviene da un tubo volante fissato al soffitto con il fil di ferro e ci viene raccomandato di recuperarne il più possibile in un bidone per riciclarla come scarico del WC. Ci sta benissimo, anche perché la spesa totale ammonta a 15.000 VEB (come dire 5 euro a testa).
Fra le dotazioni dell’Hotel ci sono anche due galli che nel retrostante cortile regnano su un harem di pollastre ma Maria, la simpatica brasiliana madre di cinque figli che ci ospita, non ce lo dice: lo scopriremo da soli domattina alle quattro in punto (neanche un Rolex…).
Dopo esserci rinfrescati, concludiamo la serata in una delle tante parrillas della città, che già dal primo impatto denota un’atmosfera vivace dovuta probabilmente alla vicinanza con il Brasile: tre grigliate di carne con contorno e due birre a testa alleggeriscono la nostra cassa comune di 7.800 VEB. Stavolta il conto fatevelo da soli.

Giovedì 28 marzo 2002
La giornata ha inizio indesiderato alle quattro con il canto dei due galli di Maria e la conseguente sequela di imprecazioni al loro indirizzo. Così non sono ancora le sette quando ci riuniamo per fare il punto della situazione, rendendoci conto che dobbiamo dedicarci alla soluzione di quattro problemi: i primi due sono lievi, ma il terzo e il quarto ci porteranno via parecchio tempo, per cui decidiamo di fissare senz’altro un secondo pernottamento qui.
Pochi metri più in là dell’Hotel Paratepuy c’è una pasteleria, cosicché l’incombenza della colazione è risolta immediatamente. L’assortimento di dolci è vasto, ma anche qui c’è la solita caratteristica che li accomuna: sono pesanti e poco cotti, ma ormai l’abbiamo capito e ci rassegniamo. Vorrà dire che al ritorno a Genova ci rifaremo di tutta la focaccia perduta… Ma bisogna essere obiettivi e dare atto che il caffè lo fanno come si deve.
Il secondo problema è quello della valuta, visto che né i negozi né gli hotel accettano dollari; ci pensa Maria, che esce di casa e di lì a poco torna con la soluzione a domicilio, nei panni di Alberto Garcia, baffuto e corpulento gestore della vicina Casa de Cambio. El Condor, come finiremo per soprannominarlo scherzosamente vedendolo tutto il giorno appollaiato su uno sgabello davanti al suo minuscolo ufficio, è abituato a commutare in prevalenza bolìvares in Reis brasiliani o viceversa, due valute una più derelitta dell’altra: cambiare in un solo colpo trecento dollari alle nove del mattino è quindi per lui il modo migliore di cominciare la giornata.
Il terzo problema è ben più importante: l’organizzazione delle escursioni nella Gran Sabana. Tutte le informazioni assunte da varie fonti sono concordi nell’indirizzare i viaggiatori ai vari operatori presenti in città escludendo la possibilità di affittare in autonomia un veicolo a trazione integrale; visto che siamo tre testoni, vogliamo però accertarci che sia proprio vero e cominciamo a chiedere in giro se esistano organizzazioni (o anche privati) che mettano a disposizione quel tipo di automezzo.
Finiamo però per arrenderci all’evidenza e non possiamo fare altro che incamminarci verso il terminal, nei pressi del quale risulta siano concentrate le agenzie di viaggio.
Un rumore di passi alle nostre spalle e una voce “Caballeros!” ci fa girare poco prima di raggiungere l’autostazione. Ci troviamo di fronte a un sorridente emulo di Rambo in tenuta paramilitare che ci porge un biglietto da visita: ha saputo da un tale… che un suo amico gli ha detto… che ha sentito dire… che in città ci sono tre italiani alla ricerca di un fuoristrada e se vogliamo lui può fare proprio al caso nostro perché si occupa di organizzare e guidare escursioni in Toyota nella Gran Sabana.
Esattamente come a Tucupita, ti trovano loro prima ancora che ti metti a cercarli; l’ho già detto, è bassa stagione, anche qui siamo tra i pochissimi (se non i soli) stranieri in città e quindi preda ambita. Evidentemente parlare con Maria e El Condor deve essere l’equivalente di mettere un annuncio sulla prima pagina del Gazzettino di Santa Elèna; si è messo in moto il tam-tam di una cittadina dove tutti conoscono tutti e in pochi minuti la soluzione del terzo problema si è messa addirittura a correrci dietro!
L’uomo che abbiamo davanti, Arnaldo Guedes, è un dinamico quarantenne che gestisce, in società con il cognato Josè Francisco Pinto Aurelio e il figlio di questi Marco Aurelio (famiglie portoghesi trapiantate qui da diversi anni), un’agenzia che ha iniziato l’attività da poche settimane, la Radical Tours (radicaltours@cantv.net), tant’è vero che nell’ufficio, situato a breve distanza, ci sono ancora lavori in corso.
Il servizio che ci è offerto consiste in un tour di tre giorni comprendente la visita dei luoghi più rilevanti della Gran Sabana su un fuoristrada Toyota con l’assistenza di Arnaldo in veste di autista e guida più i tre pasti di mezzogiorno e bevande a volontà, il tutto per ottanta dollari a testa. Non ci sembra il caso di continuare a girare per la città (fa anche un caldo non indifferente) per interpellare altri operatori: sappiamo che propongono pacchetti analoghi più o meno allo stesso prezzo e confidiamo che un’impresa appena entrata nel mercato ci tenga a soddisfare i clienti. E facciamo bene, perché la disponibilità dei nuovi amici sarà decisiva per risolvere anche il quarto problema.
Infatti Arnaldo si offre immediatamente di condurci all’aeroporto, distante sette chilometri dalla città, dove bisogna tassativamente fissare il volo che, al ritorno dal tour, dovrà portarci a Canaima. La piccola aerostazione, che è anche sede della compagnia locale Rutaca, è, un po’ come i terminal delle autocorriere, un microcosmo di personaggi più o meno professionali, una specie di “Bar Sport” dove piloti, meccanici, esperti di volo o sedicenti tali cercano di sbarcare il lunario offrendo brevi servizi di collegamento o voli panoramici. La Rutaca gestisce voli di linea giornalieri per Canaima in partenza alle undici del mattino, che poi tanto giornalieri non sono perché gli aerei, dei monomotori Cessna da cinque posti, partono solo quando c’è clientela; a noi interessa partire lunedì 1° aprile, ma il responsabile della Compagnia non ci può garantire l’effettuazione del servizio con quattro giorni di anticipo in mancanza di altri passeggeri che consentano di riempire l’aereo.
Cerchiamo di riordinare le idee facendo uno spuntino nel vicino bar. Visto il movimento di varia umanità che si aggira all’intorno, cerchiamo di capire se esistano eventuali soluzioni alternative e attacchiamo discorso con un individuo che chiamano El Capitan offrendogli anche da bere: costui afferma di possedere un aereo con il quale può portarci a Canaima a un prezzo contenuto e ci lascia un recapito telefonico, ma, visto che il suo alito e i suoi occhietti lucidi fanno supporre un solido rapporto con la birra o con il rum, non ci sembra il caso di mettere nelle sue mani il buon proseguimento della nostra vacanza. Qui non si è nemmeno sicuri che partano i voli “ufficiali”, figuriamoci se possiamo affidarci a uno che non sappiamo quanto sarà ciucco quando si metterà ai comandi di chissà quale velivolo!
Una cosa che però ci attrae e possiamo fare subito è un volo panoramico sui tepuis: non è precisamente a buon mercato (200.000 VEB totali, vale a dire circa € 70 a testa) ma si vive una volta sola e ci consoliamo facendo la media con le cifre irrisorie che spendiamo per mangiare e dormire. Visto che a bordo avanza un posto, ci sembra giusto offrire un passaggio ad Arnaldo, che come noi vedrà questi posti dall’alto per la prima volta.
La meta del volo, della durata complessiva di un’ora, dista da Santa Elèna circa 120 km. in direzione nord-est ed è il Roraima, che con i suoi 2810 metri è il tepuy più alto nonché convenzionale confine tra Venezuela, Brasile e Guyana Britannica: sulla cima un cippo individua infatti il cosiddetto Punto Triple. Dopo un’area pianeggiante attraversata dai meandri del Rio Caronì, sorvoliamo un tratto di fitta foresta che fa un po’ da piedistallo ai massicci del Roraima, del Kukenàn, dello Yuruanì e dell’inconfondibile Wadaka Piapo Tepuy, l’unico di forma conica, allineati da destra a sinistra della nostra visuale. Volando a vista su una quota di diecimila piedi, quindi non più di duecento metri al di sopra della vetta, ci rendiamo conto che l’ambiente è ben diverso dalla piattezza che si presume dal fondo valle: i fianchi sono caratterizzati da torrioni strapiombanti e profonde spaccature verticali a diedro alte centinaia di metri, mentre l’altopiano sommitale, esteso su una superficie di 73 kmq., è una tormentata alternanza di roccioni frantumati, canyons, tortuosi corsi d’acqua incassati, laghetti, burroni e rade chiazze di vegetazione. Lo scenario è di una affascinante desolazione, alla quale contribuisce la nuvolaglia in continuo movimento che raramente abbandona la zona. Sotto di noi c’è quello che Arthur Conan Doyle (sì, proprio quello di Sherlock Holmes) chiamò, pur avendone solo ascoltato le descrizioni del botanico Everard Im Thurn che per primo aveva esplorato quel territorio, “The lost world”: se avesse potuto vederlo da questo punto privilegiato d’osservazione, si sarebbe compiaciuto di avere centrato una definizione adatta come “Il mondo perduto”! In tempi più recenti la stessa definizione avrebbe fatto da sottotitolo al film “Jurassic Park”, girato proprio da queste parti.
Sono circa le tre del pomeriggio quando atterriamo all’aeroporto di Santa Elèna, che nel frattempo si è del tutto spopolato. Arnaldo ci riconduce in agenzia promettendo di riportarci qui più tardi sperando che al banco della Rutaca ci sia qualcuno.
Nell’ufficio della Radical Tour facciamo conoscenza con José Aurelio, il socio-cognato di Arnaldo, un uomo sulla cinquantina che parla un curioso miscuglio di spagnolo e portoghese. Quanto sia legato alla sua terra di origine lo si vede dalla saudade che prova allorché gli chiedo di collegarsi a Ci sono stato e gli mostro il resoconto con relative foto del mio viaggio in Portogallo nel quale manifestai il mio entusiasmo per quel Paese. Evidentemente ci prende in simpatia e ce la mette tutta per darci il suo appoggio nella soluzione del nostro problema: prima ci riconduce in aeroporto e, non essendo presente il responsabile della compagnia aerea, ci scarrozza per la città tentando di rintracciarlo finché, rientrati nuovamente in agenzia, riesce a trovarlo dopo una serie di telefonate e sbloccare infine la situazione. Domani, mentre noi saremo in giro per la prima giornata del tour, assicura di mantenere personalmente i contatti con la Rutaca per fissarci il passaggio sul volo per Canaima di lunedì prossimo.
In pratica Aurelio e Arnaldo, pur non essendo affatto tenuti a farlo, ci hanno messo a disposizione l’auto e dedicato buona parte del pomeriggio: vogliamo in qualche modo sdebitarci e li invitiamo a cenare con noi questa sera.
Dopo una buona doccia (l’acqua calda non c’è ma vi assicuro che non se ne sente la mancanza), facciamo un giro nei due negozi di souvenirs del paese, dove acquistiamo un po’ di cartoline da mandare agli amici. Già siamo stati avvertiti che non arriveranno a destino prima di un mese: come se ciò non bastasse, ci imbattiamo nella difficoltà di entrare in possesso dei francobolli, per i quali siamo indirizzati (sempre che – ci dicono – non li abbiano finiti) all’ufficio postale (oficina de correo). Sembrerebbe semplice, ma ben due indicazioni sulla sua ubicazione si rivelano errate (nemmeno fossimo in una metropoli!) e rimandiamo la spedizione al nostro ritorno dalla Gran Sabana.
Puntuale, la Toyota della Radical Tours ci preleva alle 20,30 davanti al nostro albergo. Come ci teniamo noi a fare bella figura con questo invito, altrettanto ci tengono loro consigliando uno dei più bei locali della città: si tratta della Posada Villa Fairmont, alla periferia nord di Santa Elèna. L’ambientazione è molto confortevole, grazie a una raffinata struttura completamente in legno, così come gli arredi, l’enorme bancone del bar e l’ampia veranda coperta nella quale veniamo sistemati. Nonostante il tono tendente all’elegante, la cena, che accompagniamo con un piacevole vino bianco cileno, non va oltre un ambito di normalità: però è anche vero che il conto totale per cinque persone non supera i 48.000 VEB, vale a dire una decina di euro a testa.

Venerdì 29 marzo 2002
Come già ieri sera, anche questa mattina Arnaldo è puntualissimo alle otto davanti all’Hotel Paratepuy. Raccomandiamo a Maria di riservarci di nuovo le due camere per domani notte e per la successiva, visto che il pernottamento di stasera avverrà in qualche punto non ancora definito della Gran Sabana; nelle dotazioni della Toyota c’è infatti una carpa (tenda) a quattro posti, che monteremo verso il tramonto dopo avere completato le escursioni della giornata. Sarà infatti assai improbabile trovare libera una cabaña in qualcuno dei campamentos situati lungo il percorso, dato il forte flusso di turismo interno di queste festività pasquali.
Ma solo dopo avere lasciato Santa Elèna e imboccato la già nota strada n. 10 in direzione nord ci rendiamo conto di quale marea umana sia in movimento in questa Settimana Santa. Di certo la Gran Sabana deve esercitare anche nei Venezuelani un fascino che ne fa una delle destinazioni preferite: gli slarghi ai lati della strada, i campeggi, i terreni adiacenti ai campamentos, gli spazi in prossimità di corsi d’acqua, cascate o macchie di vegetazione, sono letteralmente stipati di tende e di automobili, in prevalenza a trazione integrale. Arnaldo ci spiega che uno degli obiettivi primari delle famiglie è di riuscire ad acquistare, anche a costo di debiti e sacrifici, uno di questi veicoli che, a fronte di un investimento esorbitante rispetto al tenore di vita, garantisce però di concedersi per anni vacanze a buon mercato, evidentemente l’unico modo accessibile alla maggioranza della popolazione. Così, in occasione delle ferie estive, natalizie o pasquali, le strade del Venezuela diventano teatro di una specie di grande happening, con carovane di fuoristrada carichi fino all’inverosimile che portano dipinte a caratteri cubitali sul cofano o sui vetri diciture del tipo “De Caracas (o de Maracaibo, Valencia, Barquisimeto, Puerto Ordaz, ecc.) para la Gran Sabana!”.
Cartina alla mano (si tratta della dettagliata e raccomandabile “Mapa vial” in scala 1:600.000 di Roberto Marrero, che abbiamo acquistato ieri nel negozio di souvenirs), concordiamo con Arnaldo di puntare direttamente al più lontano dei luoghi di visita, per poi dirigere nuovamente verso Santa Elèna effettuando le soste e le deviazioni verso i vari siti di interesse. Percorriamo così un tratto di 168 chilometri lungo la n. 10, fermandoci solo per un rifornimento di carburante, fino a raggiungere un bivio sulla sinistra. Si tratta di un’escursione al Salto Chinak Merù o Aponwao, la cascata più alta della Gran Sabana con i suoi 108 metri, che occuperà buona parte della giornata: la strada che imbocchiamo è infatti una pista in terra battuta, in certi punti polverosa e dissestata, che porta in 70 km. alla comunità pemòn di Kavanayèn. Senza arrivare laggiù, noi dobbiamo percorrerne solo i primi 32, fino al bivio che in altri 10 conduce al villaggio indio di Liworibò, situato sulle rive del Rio Aponwao (o Aponguao). È necessaria un’ora e un quarto per giungere qui dalla strada principale.
Da un piccolo imbarcadero partono delle curiaras, simili a quella del Delta dell’Orinoco ma motorizzate, più larghe e più lunghe, tanto da poter trasportare ciascuna una ventina di persone. La navigazione segue all’andata il corso del Rio per sbarcare dopo circa mezz’ora; proseguire oltre per via d’acqua sarebbe pericoloso, tant’è vero che qualche anno fa una piena improvvisa trascinò un’imbarcazione fino a precipitare dalla cascata causando parecchi morti in una scolaresca. Si segue quindi per una decina di minuti un sentiero che costeggia il fiume fino a raggiungere il mirador (belvedere) superiore sulla cascata: anche se in questa stagione il fronte delle acque non occupa l’intera larghezza della scarpata, lo spettacolo è comunque magnifico. Vale anche la pena scendere alla base del Salto lungo un sentierino un po’ ripido che serpeggia tra una fitta macchia di alberi: la piccola fatica della mezz’ora tra andata e ritorno per ammirare il paesaggio dal basso è decisamente ben ripagata.
A conti fatti l’escursione al Salto Chinak Merù finisce per occupare, tra jeep, barca e tratto a piedi, non meno di quattro ore e mezzo, sicché sono ormai le tre del pomeriggio quando siamo di ritorno al parcheggio per mettere mano ai contenitori termici in dotazione all’auto e consumare il pranzo al sacco. Riprendiamo poi l’itinerario in direzione sud per fare sosta dopo 24 km.: una breve passeggiata dalla strada ci porta alle rapide di Kamoiràn, una serie di piccoli salti tra lastronate rossicce lungo il corso dell’omonimo fiume, uno scenario purtroppo penalizzato dalla ridotta portata delle acque.
Proseguiamo lungo un tratto di bellezza selvaggia che ci regala suggestive vedute in lontananza su alcuni tepuis che sembrano sospesi sopra le nuvole, finché individuiamo, dopo una trentina di chilometri, uno slargo tra gli alberi in prossimità di un piccolo corso d’acqua che ci sembra adatto per piantare la “carpa” accanto ad alcune già presenti. Il luogo ha anche il vantaggio di essere a non più di cinque minuti di auto dal Campamento Kuranao, che offre anche possibilità di ristorazione alla buona ed è ubicato nei pressi del Salto Kamà Merù, che visiteremo domani. Finiamo il montaggio sotto una fastidiosa pioggerellina giusto al tramonto, vale a dire il momento del cambio della guardia tra i puri-puri, che si ritirano dopo avere pasteggiato con la nostra pelle (creme protettive comprese) e le zanzare, già con l’acquolina in bocca. Ma vanno incontro a una delusione: è ormai l’ora in cui pasteggiano anche gli esseri umani, così diamo una manciata di monetine a due ragazzini indios che si guadagnano la giornata facendo la guardia alle tende e ci affrettiamo a salire sulla jeep per raggiungere il campamento.
Mentre consumiamo una cena semplice e gustosa a base di pollo alla brace e contorni assortiti che ci costa non più di 4.500 VEB a testa, si scatena un temporale: il vento e le scariche d’acqua che si sentono all’esterno ci prospettano un pernottamento nella carpa tutt’altro che rilassante. Ma il C.A.C.V.B. è evidentemente attivo di giorno e di notte, nelle città e nelle campagne, con il sole e con la pioggia: questa sera il suo agente in terra è Arnaldo, che, dopo avere confabulato con l’india addetta alla reception del campamento, ci porta la notizia che c’è una cabaña a tre letti libera, evidentemente disdetta. Ce la accaparriamo immediatamente al prezzo di 15.000 VEB, mentre Arnaldo preferisce tornare a controllare la sorte della tenda: del resto aveva già in programma di dormire nell’auto, che ha abbondante spazio per contenere il materassino e il sacco a pelo.
Il locale che ci ospita è strutturato nella stessa forma circolare con tetto di paglia delle capanne dei pemòn, con la sola differenza dei muri in pietra anziché in graticcio di rami ricoperto di fango essiccato. All’interno sono presenti tre letti dotati di zanzariera, che però questa notte non servirà, mentre l’illuminazione è fornita da candele, visto che verso le dieci il gruppo elettrogeno del campamento viene disattivato.
Ma evidentemente le radio dell’esercito di vacanzieri accampati all’esterno in ogni spazio disponibile hanno una riserva di pile inesauribile: tra l’altro ha anche smesso di piovere, così una dose massiccia di musiche a tutto volume e danze fino ben oltre la mezzanotte non ce la toglie nessuno. Cominciava a mancarci, o forse l’autoradio di Arnaldo (Pink Floyd, Queen, Dire Straits) ci ha abituato troppo bene.

Sabato 30 marzo 2002
Il sabato della Semana Santa è considerato il primo giorno dell’esodo di rientro, dato che è consuetudine passare la Pasqua in famiglia. Al Campamento Kuranao c’è quindi aria di smobilitazione fin dal primo mattino (ma quando dormono questi?): chi smonta tende, chi riempie bagagli, chi ammassa materiale dentro, fuori e sopra le auto.
Sta di fatto che quando, intorno alle 8,30, sopraggiunge la Toyota di Arnaldo, il grosso dei vacanzieri se n’è già andato.
Trovandoci in tutta prossimità, la prima visita della giornata è dedicata al Salto Kamà Merù (ormai avrete capito che in dialetto pemòn Merù significa cascata). Scendiamo dapprima alla sua base, dopo avere versato un contributo volontario a un indio all’imbocco del sentiero (500 o 1000 VEB sono una cifra adeguata): in pochi minuti si raggiunge il laghetto circolare nel quale precipitano le acque da un’altezza di una cinquantina di metri, in un gradevole contesto di alberi che mitigano la calura, già notevole nonostante l’ora mattutina. Risaliti al campamento, ci portiamo al mirador superiore; il muretto che delimita la breve salita è tutto un susseguirsi di indios che vendono semplici ma piacevoli oggetti di artigianato, in particolare piccoli monili ricavati lavorando la tipica pietra rossa che caratterizza la zona, venduti a prezzi convenienti.
Tornati all’auto, riprendiamo l’ormai nota strada n. 10 in direzione sud. Coperti una ventina di chilometri, imbocchiamo sulla sinistra, all’altezza della località El Oso, una deviazione di altri cinque lungo una sterrata piuttosto dissestata che ha termine al Mirador Nak-Piapo. Da uno slargo di rocce nerastre frantumate mischiate a rada vegetazione, indugiamo nell’ammirare uno dei più significativi “manifesti” della Gran Sabana: davanti a noi si estende una sterminata pianura all’orizzonte della quale si allineano i tavolati dello Yuruanì, del Kukenàn e del Roraima, davvero un paesaggio incantato.
La sosta seguente, una quindicina di chilometri più avanti, prevede una camminata di non più di cento metri fino alla Quebrada Pacheco (o Arapàn Merù), una serie di limpide cascatelle, meta tra le più gradite per bagni e picnic.
Ancora pochi minuti ed eccoci a una diramazione sulla nostra sinistra, un paio di chilometri di sterrata che mettono alla prova le sospensioni della Toyota e portano a uno dei luoghi più suggestivi della Gran Sabana: è il Salto Yuruanì o Arapena Merù, una cascata a ferro di cavallo, larga una sessantina di metri e alta non più di sei, ma veramente singolare per la colorazione dorata delle sue acque. Discesi con cautela tra alcuni massi di frana che delimitano il corso del fiume, ci rilassiamo accovacciandoci in una rientranza ai piedi della cortina d’acqua, trovando un delizioso refrigerio contro il sole di mezzogiorno che anche oggi non ne vuole sapere di fare sconti.
Verso le 13,30 raggiungiamo San Francisco de Yuruanì. Siamo a 103 km. a sud del bivio per Chinak Merù (250 da El Dorado) e 65 a nord di Santa Elèna de Uairèn. Lungo i 230 tra Las Claritas e Santa Elèna, San Francisco è l’unico insediamento che possa essere definito villaggio: si sviluppa lungo i lati della strada e su alcune brevi trasversali con due sfilate di case, per lo più in legno dipinto, molto ordinate e attorniate da giardini fioriti, qualche bancarella di artigianato pemòn nonché tre o quattro ristorantini, presso uno dei quali pranziamo più che dignitosamente. La località è anche il punto strategico per l’ascensione al Roraima; qui ci si può accordare con i portatori e le guide (obbligatorie) per un’escursione di cinque-sei giorni che, a fronte di fatica, disagi e condizioni ambientali spesso pesanti, è descritta come memorabile: un’idea per un successivo viaggio in Venezuela.
Arnaldo ci accompagna poi a un chioschetto che vende prodotti tipici. Nei miei viaggi all’estero sono di solito curioso di assaggiare le specialità locali: così fu in Norvegia con la balena, l’alce, la renna e in Australia con il canguro, l’emù e il coccodrillo. Ma questa volta proprio non riesco a imitare Walter e Mario che acquistano un vasetto ciascuno di un curioso condimento piccante: francamente una salsa a base di termiti preferisco lasciarla agli amici!
Sulla strada verso Santa Elèna ci aspettano ancora alcune attrazioni. La più significativa, circa 25 km. oltre San Francisco de Yuruanì, è situata a pochi minuti di cammino dalla statale e si rivela all’improvviso al termine di un viottolo che si sviluppa nel folto della vegetazione: si tratta della Quebrada de Jaspe (Kako-parù), una cascata poco rilevante quanto a portata d’acqua, larghezza e altezza (non più di trenta metri per quattro) ma veramente unica per il rosso intenso della levigatissima roccia di diaspro sulla quale l’acqua scorre dopo la caduta (jaspe in spagnolo significa appunto diaspro). Anche osservandola da vicino e toccandola, si stenta davvero a credere che la lastra sulla quale ci troviamo sia una superficie naturale e non una pavimentazione costruita dall’uomo. È uno dei classici esempi in cui nessuna fotografia riuscirà mai a rendere giustizia alla realtà.
Poco più avanti una pista sconnessa che si stacca dalla carrozzabile porta in tre chilometri ad Agua Fria e a Puerta del Cielo, due suggestive cascatelle simili immerse nella foresta tropicale. I due sentierini che portano ai laghetti alla loro base sono brevi, ma la scarsità d’acqua di questa stagione, l’elevato tasso di umidità e il caldo soffocante non ci fanno godere al meglio la passeggiata, anzi affrettiamo il ritorno verso il conforto dell’abitacolo climatizzato della Toyota.
Frattanto il cielo si è andato rannuvolando e, poco dopo avere ripreso la via di Santa Elèna, comincia a cadere una fitta pioggerella accompagnata dalla nebbia. Ci sarebbero ancora in programma un paio di visite, ma Arnaldo assicura che c’è tutto il tempo di tornare qui domattina, per cui concordiamo di rinviare e rientrare in città.
Una ventina di minuti ed eccoci al familiare Hotel Paratepuy e ai volti conosciuti di Maria, dei suoi cinque figli e di El Condor. Questa località ai limiti del mondo della quale fino a un mese fa ignoravamo l’esistenza ci è ormai nota in ogni suo angolo: doveva essere un posto nel quale fermarsi lo stretto necessario per organizzare un’escursione e invece finiamo per passarci quattro notti della nostra vita!

Domenica 31 marzo 2002
La sfuriata meteorologica di ieri ha avuto un effetto benefico: la giornata si presenta infatti limpidissima, ottimo auspicio per la conclusione del nostro tour.
Ci spingiamo per l’ultima volta verso nord lungo la statale n. 10 per godere dello scenario che ieri ci era stato negato dal maltempo. Dopo una quindicina di chilometri, da un’altura che sembra elevata appositamente si può godere di una veduta spettacolare: sotto di noi si stende a perdita d’occhio una delle più classiche “cartoline” della Gran Sabana, un misto di radure e fitta boscaglia sullo sfondo dei tepuis. Non a caso, quello che vediamo è lo scenario che Steven Spielberg scelse come ambientazione di “Jurassic Park”.
Prima di rientrare a Santa Elèna, facciamo sosta al Rancho Tukummuruko, una bella costruzione in pietra che ospita un’esposizione di oggetti di artigianato: si tratta di manufatti un po’ differenti da quelli che stiamo vedendo in giro per il Venezuela da una settimana. L’originalità degli articoli e i prezzi contenuti fanno di questo posto un riferimento da raccomandare.
La parte saliente del programma di oggi è però la regione a sud-ovest di Santa Elèna, vale a dire una parte di Gran Sabana poco toccata dai flussi turistici perché meno facilmente accessibile riguardo alle vie di comunicazione.
Nell’immediata periferia della città, poco prima del bivio per l’aeroporto, su un pendio che fiancheggia la strada fa spicco un ammasso caotico di baracche messe insieme con materiali raccogliticci. Arnaldo ci spiega che si tratta di terreno statale su cui però il Governo, vista l’irrimediabile crisi degli alloggi, consente tacitamente a chiunque di edificare senza formalità: queste concessioni hanno evidentemente lo scopo di tenere tranquilla la popolazione in un Paese a perenne rischio di colpi di stato.
Una piccola oasi di tranquillità è Maurak, un nucleo di abitazioni allineate lungo ordinati vialetti situato a sei chilometri da Santa Elèna: si tratta di una comunità di indios di culto avventista installatasi qui qualche decennio fa. Un personaggio veramente originale che Arnaldo ci tiene a farci conoscere è il señor Fernandez, che ci riserva un’accoglienza semplice ma cordiale nella sua casa e nel suo laboratorio: si diletta infatti nella costruzione di modellini in balsa molto realistici di aerei ed elicotteri, che ci mostra con orgoglio. Il suo grande sogno è di conseguire un giorno il brevetto e pilotare piccoli velivoli. Un’altra realizzazione alla quale sta lavorando è un plastico in rilievo della Gran Sabana destinato ad occupare una parete dell’ufficio della Radicali Tours. La propensione artistica deve essere un talento di famiglia, visto che i piacevoli paesaggi naif dipinti su alcune facciate sono opera del fratello.
La strada che percorreremo oggi ha come mèta El Paujì, strana località (dirò poi il perché) ubicata a 75 chilometri da Santa Elèna; soltanto i primi venti sono asfaltati, cosicché l’escursione ha il carattere di una piccola avventura, visto il dissesto della pista e la presenza qui e là di pozzanghere dovute alla pioggia di ieri.
La regione ha la sua caratteristica più rilevante nella vocazione mineraria, che però si è negli ultimi anni concentrata intorno a Ikabarù, una sessantina di chilometri più a ovest; qui i giacimenti sono quasi esauriti e a testimonianza sono rimasti gli sventramenti del suolo. Si trattava infatti non di miniere in galleria ma di scavi fino alla profondità di due o tre metri che portavano alla luce filoni d’oro e di diamanti. Oggi nella zona sono sparse qui e là baracche di cercatori isolati che continuano a scavare nei terreni abbandonati dalle imprese perché non più redditizi a livello industriale, nei quali trovano però di che vivere. Uno di essi ci mostra in un piccolo astuccio il ricavato degli ultimi giorni: tre piccoli diamanti grezzi e una manciata di minuscole pepite d’oro. Ne acquistiamo alcuni per poche decine di migliaia di bolìvares, non certo con velleità di investimento ma giusto per portare a casa un souvenir un po’ particolare.
Giungiamo a El Paujì intorno alle tredici. La località, nel cuore di un paesaggio dominato dal colore rossiccio della terra e delle rocce, denota un ordine quasi irreale nelle stradine e nelle case ed è a quest’ora praticamente deserta. Arnaldo ci riferisce che El Paujì nacque alla fine degli anni Sessanta come eterogenea aggregazione di gente, vale a dire hippies, sbandati, “figli dei fiori”, globetrotters provenienti da varie parti del mondo che costituirono la comunità dalla quale discendono gli attuali residenti. Il luogo è legato a misteriosi episodi sui quali non sono riuscito a sapere di più nemmeno con ricerche su Internet dopo il nostro ritorno dal Venezuela; posso solo dire di voci sulla scomparsa inspiegabile di un gruppo di abitanti, ricomparsi altrettanto improvvisamente dopo alcuni mesi profondamente cambiati, rivelando tra l’altro un quoziente d’intelligenza di gran lunga superiore alla media. C’è chi spiega la cosa individuando questa regione come base di atterraggi di extraterrestri; del resto in paese sono presenti alcune bizzarrie, tra i quali spicca una specie di altare in pietra sormontato da una raffigurazione antropomorfa stilizzata contornata da strani simboli.
Lasciamo El Paujì senza avere soddisfatto le nostre curiosità (tra coloro che leggono questo resoconto, ci sarà qualcuno che ne sappia qualcosa di più?) e riprendiamo la strada verso Santa Elèna che prevede ancora alcuni spunti interessanti.
Dopo una breve escursione che porta a un laghetto in mezzo alla foresta alla base del Salto Catedral (anch’esso povero di acque e meno spettacolare di quanto appaia nell’album fotografico della Radical Tours) facciamo sosta per uno spuntino in una caratteristica posada in legno a breve distanza dalla cascata; è un luogo quasi fuori dal tempo, un misto di ristorantino, esposizione di artigianato e minerali, rivendita di curiosi prodotti locali quali diverse varietà di miele, incensi e preparazioni erboristiche, piccolo museo di attrezzi contadini.
Una deviazione dalla strada principale poco oltre la posada porta a uno slargo dove si lasciano gli automezzi, punto di partenza per l’ultima passeggiata in programma. La meta è l’Abismo (cioè l’abisso), un punto panoramico al quale conduce in una quarantina di minuti un ripido sentiero in salita. Alcuni avvisi lungo il tracciato raccomandano prudenza: in effetti il belvedere finale, al quale arriviamo piuttosto provati per la calura, è situato sull’orlo di uno strapiombo di alcune centinaia di metri.
La fatica è peraltro ben ripagata: sotto di noi si stende a perdita d’occhio in direzione sud su un arco di 180° una vera e propria muraglia di verde, quella che è convenzionalmente considerata l’estremità settentrionale della foresta amazzonica. È impossibile a parole dare l’idea di quanto sia fitta e compatta la vegetazione; in pochi altri luoghi ho provato in misura così netta la sensazione di essere “in capo al mondo” e prolunghiamo con piacere la sosta su questo crinale, benedetti da una piacevolissima brezza.
Non rimane che riprendere la via del ritorno percorrendo ovviamente la stessa sterrata che porta a Santa Elèna, con brevi soste su un paio di elevazioni che offrono begli scorci panoramici sul Waiparù-Tepuy e sul Chiricayèn-Tepuy, più modesti di quelli della catena principale ma pur sempre suggestivi.
Intorno alle 17,30 eccoci entrare nell’ufficio della Radical Tours, dove ci attende José Aurelio con la buona notizia che aspettavamo: il volo per Canaima di domani è confermato, dato che si sono aggiunti due passeggeri e il Cessna della Rutaca potrà partire completo. Ci congediamo dagli amici portoghesi, dei quali conserveremo un ottimo ricordo, e, dopo una meritata doccia, concludiamo la serata con una pizza sorprendentemente buona in un locale nei pressi del terminal delle autocorriere.

Lunedì 1 aprile 2002
La giornata ha inizio con una gradita sorpresa, per la serie “tutte le cose prima o poi finiscono per aggiustarsi”: mentre gironzoliamo per Santa Elèna in attesa del volo per Canaima, ci imbattiamo nell’ufficio postale. Si tratta di un bugigattolo, proprio dietro l’angolo del nostro albergo, che può giusto contenere due persone, due minuscoli tavolini e un casellario; l’impiegata va in crisi nel sentire la mia richiesta di sellos (francobolli in spagnolo) e capisce solo quando passo al linguaggio dei gesti (per la cronaca, in Sudamerica bisogna chiedere estampillas). La bella notizia è che ne hanno qualche decina, però per acquistarli bisogna prima mostrare le cartoline, che andiamo prontamente a prelevare in albergo: evidentemente si tratta di un bene prezioso quanto l’oro e i diamanti di El Paujì!
Lasciamo, questa volta definitivamente, l’Hotel Paratepuy e ci facciamo portare in taxi all’aeroporto, dove ci imbattiamo in facce che ci sono ormai familiari quanto quelle di Arnaldo, di Maria e di El Condor. I nostri compagni di viaggio sono una coppia di francesi, con i quali ci troviamo d’accordo nel fare una proposta al gestore della Rutaca: effettuare cioè, prima di arrivare a Canaima, una deviazione verso il Salto Angel. Concordiamo un supplemento di 20.000 VEB a testa in aggiunta ai 50.000 del trasferimento; ciò ci consentirà un risparmio di oltre 30.000 VEB ciascuno, visto che i voli panoramici sulla cascata con partenza e ritorno a Canaima hanno un costo di circa 50 dollari.
Il Cessna, guidato dallo stesso pilota che ci fece fare il giro sul Roraima, lascia la pista alle 11 e, dopo avere tenuto per la parte iniziale la stessa rotta, devia verso nord-ovest penetrando via via nel cuore della zona dei tepuis più spettacolari che si elevano dalla fitta foresta nelle forme più svariate: arrotondati o squadrati, del tutto spogli o coperti di vegetazione lussureggiante, possiamo apprezzarli al meglio, visto che voliamo a poche centinaia di metri sopra la loro sommità. Cominciamo poi a distinguere la sagoma dell’Auyantepuy (Montagna del dio del male), dalla cui sommità (estesa per circa 700 kmq e incisa da profonde spaccature) scendono numerose cascate, tra cui la più nota è il Salto Angel, che è come si sa la più alta del mondo con i suoi 979 metri. La storia della sua scoperta nel 1937 da parte del pilota americano Jimmie Angel, della rottura del suo aereo tra le rocce della cima e dell’avventurosa discesa a valle durata 11 giorni con la moglie e i due compagni è ben nota: ma basta digitare su un motore di ricerca “Salto Angel”, “Auyantepuy” o “Jimmie Angel” per approfondire l’argomento. (vedi nei links)
Il pilota dimostra di conoscere il suo mestiere con una serie di virate, picchiate e impennate che ci fanno godere la cascata da tutte le angolazioni. In questo periodo dell’anno la portata dell’acqua è, come sapevamo, piuttosto scarsa, tant’è vero che verso il termine della caduta sembra dissolversi in una fitta pioggerellina: l’effetto è però quello di un doppio arcobaleno che aggiunge suggestione a uno scenario che è, nonostante le condizioni non ideali, irrinunciabile.
Sembra proprio che la nostra visita del Salto Angel (noto prima del 1937 come Churùn-merù) rimarrà limitata alla veduta dall’alto: il pilota ci conferma infatti che per il basso livello dei fiumi le escursioni in canoa alla base della cascata non saranno possibili fino alla fine di aprile, quando cioè avrà inizio la stagione delle piogge.
Ciò significa anche che la nostra permanenza a Canaima potrà essere limitata a un solo pernottamento: la gita ai piedi del Salto Angel prevede infatti la navigazione sul Rio Carrao, la sosta alla Isla Orquìdea, la risalita del Rio Churùn lungo lo stretto Cañon del Diablo, lo sbarco all’Isla Ratòn, un tratto a piedi di un’ora fino al belvedere sulla cascata e ritorno, il tutto con un pernottamento intermedio. Due giornate che purtroppo non potremo vivere.
La vista dall’alto della Laguna di Canaima in fase d’atterraggio, una cinquantina di chilometri a nord-ovest del Salto Angel, ci dà un’anticipazione di quanto questo luogo, collegato al resto del mondo solo per via d’aria e d’acqua, sia meraviglioso. È solo da una ventina d’anni che Canaima, fino ad allora una comunità di indios pemòn che vivevano in splendido isolamento, è entrata nei circuiti del turismo internazionale: tutto cominciò quando l’Avensa vi fece costruire un proprio Campamento, gestito in esclusiva nell’ambito dei pacchetti turistici forniti dalla compagnia aerea stessa. Negli ultimi anni sono sorte altre strutture ricettive, per fortuna ben inserite nell’ambiente naturale: la concorrenza, un tempo assente, fa sì che si possa alloggiare spendendo molto meno dei 120 dollari richiesti per una camera del Campamento.
Atterrati e pagati i 6.000 VEB a testa quale tassa d’ingresso al Parque Nacionàl Canaima, ci rivolgiamo all’ufficio turistico dell’aeroporto, rendendoci subito conto che ci troviamo in una località di grande turismo, anche se in questa stagione semideserta. In meno di un’ora sistemiamo infatti tutte le nostre esigenze: con $ 17 a testa fissiamo il pernottamento in due confortevolissimi bungalows immersi in un palmeto a breve distanza dal terminal, con 40 un’escursione in canoa di quattro ore nel pomeriggio e con altri 50 il volo di domani per Ciudad Bolìvar (spiegherò più avanti la ragione per cui siamo diretti in quella città che non ho ancora nominato). Qui i dollari vengono accettati senza problemi e la cosa ci fa comodo, visto che il biglietto verde è equiparato a 800 VEB: una bella mazzata rispetto ai 1000 di Puerto Ordaz (vedi prima parte)! Ma le leggi del turismo di massa funzionano così.
Posati i bagagli in camera, ci rechiamo subito alla “Fuente de soda”, lo snack bar del Campamento Canaima prospiciente la spiaggia, per uno spuntino. Siamo gli unici avventori, così possiamo assaporare in una irreale tranquillità lo stupendo scenario: siamo nel punto in cui il Rio Carrao precipita con una serie di cascate nel tranquillo specchio d’acqua che costituisce la Laguna. Il colore rosato della sabbia, le sfumature dorate delle cascate, la limpidezza delle acque, il profilo verde-azzurrino dei tepuis sullo sfondo, il tutto sotto il cielo di una giornata straordinariamente serena, formano un paesaggio che sembra uscito dal mondo delle favole. Notiamo con piacere che anche le strutture del Campamento, comprendenti una trentina di cabañas, un ristorante a forma di grossa churuata e il pergolato che ospita la “Fuente de soda” sono ben integrate nell’ambiente, grazie all’utilizzo del legno e di materiali locali.
Veniamo quindi prelevati da un variopinto furgoncino scoperto che ci porta lungo due chilometri di sterrata a un’ansa del Rio Carrao, punto di partenza dell’escursione che abbiamo prenotato. Una curiara motorizzata guidata da un giovane indio pemòn risale il corso del fiume, in un paesaggio che si fa via via sempre più aperto, fino a raggiungere un’isolotto di sabbia finissima sul quale facciamo sosta. Dopo un magnifico bagno nell’acqua cristallina, possiamo ammirare le moli allineate del Guariche Tepuy, del Kurun Tepuy e, più distante e isolato sulla loro destra, lo slanciato Wei Tepuy o Cerro del Sol (Montagna del sole); sull’altro lato del fiume, si distingue in lontananza la muraglia del già noto Auyantepuy.
Tornati alla curiara, ci immettiamo in un ramo laterale, in certi punti talmente stretto e tortuoso da ricordare il Delta dell’Orinoco, fino a sbarcare definitivamente per imboccare un sentiero di circa un’ora in un’alternanza di prateria e folta foresta pluviale. Arriviamo sulla sommità del Salto Sapo (Cascata del Rospo), anch’esso in questa stagione assai povero di acque: fa una certa impressione percorrere a piedi i lastroni del tutto asciutti dell’orlo superiore percorsi da qualche esile rigagnolo, anche se la vista della Laguna al tramonto da questo punto elevato è davvero da brividi. Il sentiero svolta con alcune serpentine in discesa fino a passare lungo una stretta cengia protetta da corrimano che corre sotto la cascata parallelamente ad essa; mentre nelle stagioni di piena l’impeto stesso del fiume che precipita fa sì che si possa percorrere questo tratto senza bagnarsi, attualmente l’acqua si limita a cadere sulla verticale, con l’effetto di inzupparsi completamente. Vista la calura, non ci dispiace affatto: la sola precauzione che prendiamo è usare una sacca di plastica per custodire l’attrezzatura fotografica, ma la cosa più consigliabile è mettersi in costume da bagno.
La passeggiata ha termine sulla spiaggia a livello della Laguna. Per ritornare al Campamento non rimane che imbarcarsi su un’altra curiara per una traversata di una ventina di minuti che offre magnifiche vedute dal basso sul Salto Hacha e sul Salto Golondrina (= rondine), che, a differenza del Salto Sapo, hanno una portata costante nel corso dell’anno.
Sono ormai le 18,30 quando torniamo ai nostri bungalows, dove ci concediamo una buona doccia e una mezzora di relax sulle amache. Siamo gli unici ospiti del complesso, così come siamo i soli clienti dell’unico ristorante aperto di Canaima: si tratta del Restaurant Imawary (più noto come Simòn), dove consumiamo tre discrete bistecche con abbondante contorno per un totale di $ 37.

Martedì 2 aprile 2002
Abbiamo ancora alcune ore a disposizione prima della partenza del nostro aereo, che impegniamo facendo colazione alla Tienda Quicallerìa Canaima, facendo piccoli acquisti in un negozietto di souvenirs intorno al quale scorrazza un branco di curiosissime scimmie e rilassandoci un paio d’ore sulla spiaggia godendo ancora una volta lo scenario della Laguna e il refrigerio dell’acqua limpidissima.
A mezzogiorno in punto decolla il piccolo aereo che in un’ora e un quarto ci porterà verso nord a Ciudad Bolìvar. Là dedicheremo un po’ di tempo alla visita della città, che annovera uno dei più bei centri storici del Venezuela, e vedremo di organizzare il trasferimento a Mèrida, 1250 chilometri a ovest, dove abbiamo intenzione di trascorrere qualche giorno nella Sierra Nevada, vale a dire l’estremità settentrionale della Cordillera delle Ande.
Facendo un po’ di statistiche, abbiamo finora toccato tre dei 23 stati in cui la confederazione venezuelana è suddivisa: Bolìvar, Monagas e Delta Amacuro. Da un’occhiata alla carta geografica, dovremmo attraversarne ancora, visto che continueremo a spostarci con le autocorriere, circa una decina.
Come si può riscontrare da altri resoconti pubblicati su Ci sono stato non sono molti ad approfondire la visita del Venezuela al di là del Salto Angel, di Canaima, del Delta dell’Orinoco, dell’Isla Margarita e delle spiagge caraibiche. Ed è un vero peccato: già ho decantato le meraviglie della Gran Sabana, tenterò di fare altrettanto con la regione occidentale delle montagne per invogliare a colmare la lacuna. Tutto questo, nella terza e ultima parte della relazione.

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