Il popolo sorridente

Una breve fotografia di un luogo che ci appare dolce e sereno, come cerca di essere la sua gente

Ci aggiriamo un po' spaesati per l'aeroporto di Yangon quando una piccola ma graziosa fanciulla ci avvicina e si impadronisce dei nostri documenti di viaggio, dandoci in pegno un ombrellino di carta.
Siamo in quattro, Sergio e Maria, una coppia svizzera, Franco, l'amico che mi ha trascinato in questo viaggio ed io. Ci guardiamo perplessi, siamo in un paese straniero del quale non conosciamo ne la lingua ne lo strano alfabeto e non abbiamo più i biglietti per il ritorno.
Con sollievo, vediamo tornare la ragazza, che restituisce tutto il malloppo aggiornato e si presenta. Si chiama Mya-Mya, un nome doppio di moda negli anni 60, è una guida ufficiale dello stato ed è incaricata di accompagnarci durante la nostra permanenza in Birmania.
Andiamo in albergo con una macchina pubblica che ci carica, con tutti i bagagli, sul cassone posteriore scoperto. Durante il tragitto Mya-Mya spiega che il cambio ufficiale di 5 kiat per un dollaro si può facilmente eludere e che chiunque è ben contento di darci da 90 a 130 kiat per un dollaro.
Grati per l'interessante notizia, le affidiamo una discreta somma e Lei ci riempie di banconote Birmane da 90 e 45 kiat, importi che rendono i conti complicatissimi.
L'alloggio è molto modesto pur essendo in uno dei migliori hotel della città ma vado subito a riposare senza lamentarmi perché alle 4 del giorno dopo dobbiamo prendere l'aereo che ci porterà a Pagan.
Purtroppo Franco, appena visitata la camera, comincia a dare segni di squilibrio mentale. Dice che porterà avanti la gravidanza per tutto il tempo necessario perché si rifiuta di lasciare parte di se negli orribili cessi birmani.
Dell'antica capitale Pagan rimane solo una vallata cosparsa di un'infinità di antichi templi.
A causa delle piogge che hanno fatto straripare l'Iravadi non possiamo proseguire il viaggio e siamo costretti a prolungare il soggiorno a Pagan. Una sera mentre prendiamo una bibita in riva al fiume alcuni bambini si avvicinano. Non appena offriamo loro da bere compaiono i genitori preoccupati. Sono dipendenti dell'albergo che constatata la nostra buona fede, ci invitano nella loro casa e ci offrono delle caramelle di zucchero di canna e quanto altro prevede l'ospitalità birmana. Noi contraccambiamo con alcuni pacchetti di biscotti e di sigarette.
L'abitazione è costruita in legno e sollevata da terra tipo palafitta, le pareti interne mobili permettono di cambiare a piacere la suddivisione degli ambienti. Qui viene custodita anche la bicicletta di famiglia poiché si tratta di un bene prezioso infatti, ci spiegano, li non sono ricchi come nella capitale dove alcune famiglie possono permettersi persino due o tre biciclette.
Il giorno seguente in una pausa durante le visite dei templi, nei quali, per la gioia dei nostri morbidi piedini, si accede solo senza calzature, entriamo in un villaggio dove, in un mulino al quale è aggiogato un bue, si macinano semi di ricino per ricavarne olio.
Mentre filmiamo il mulino si avvicina un maestro che ha i denti rossi di chi è abituato a masticare la foglia di betel, saluta cordialmente poi ci presenta la sua scolaresca.
Sergio che regala dei dolci ai bambini, pur essendo un omone, viene quasi travolto. La sorpresa e la gioia dei piccoli supera ogni nostra aspettativa. Pensate, dice il maestro, che si sono avvicinati solo perché la curiosità è stata più forte della paura.
Scopriamo presto che i Birmani considerano la nostra presenza una forma di spettacolo, tutti ci salutano e sorridono.
Sono felici? Oppure la nostra valutazione è deformata perché ridono solo vedendoci, come spesso capita con gli attori comici?
Non so rispondere, ma certamente questi sorrisi sono il mio più bel ricordo della Birmania.
Visitiamo un mercato, quasi tutte le merci esposte non si riesce a capire cosa siano. Tra i banchi individuiamo una farmacia dove le medicine sono ancora tutte preparate a mano. Un suonatore di cimbali ci saluta, all'uscita, con suoni assai diversi da quelli ai quali siamo abituati. Tuttavia lo ascoltiamo affascinanti.
Un Tupolev malconcio della Birman Airlines ci porta a Mandalai dove per la strada, in un caos tremendo, vediamo estrarre dal fiume, con l'aiuto di bufali, enormi tronchi che vengono poi trasportati, sulla terra, da un elefante meccanico, una sorta di strano trattore con le zanne.
Decidiamo di adeguarci all'abbigliamento birmano costituito da una maglietta ed un sarong, un pezzo di stoffa annodato in vita sotto il quale non si porta niente. Così vestiti ci sentiamo a nostro agio ma la nostra scarsa preparazione ci fa commettere un errore. Franco che ha scelto una stoffa chiara, scopre che si tratta di un abito da matrimonio perché tutti quelli che incontriamo esigono che venga loro mostrata la sposa.
Spesso vediamo dei grandi cartelli bianchi con scritte rosse. La nostra guida ne traduce uno: "Il popolo e l'esercito insieme vinceranno". Anche in Italia, su qualche vecchio edificio, si leggono frasi simili.
A Yangon chiediamo di vedere la casa di Aung Saan Suu Kyi (premio Nobel per la pace) questa donna, nel 1990, dopo aver vinto le elezioni, è stata imprigionata dai militari per evitare di cambiare il governo. Mya Mya ci spiega che non può mostrarcela direttamente, ma che passando davanti dirà una frase prestabilita indicando dalla parte opposta, così noi potremo vedere e l'autista non potrà riferire niente di compromettente per lei. Ora ricordo che anche mio padre raccontava cose simili.
Nella grande pagoda dal tetto d'oro scopro, con grande rammarico, che secondo la tradizione birmana appartengo al segno zodiacale del topo, Mya Mya mi consola spiegando che il topo è saggio e risparmiatore. Sarà.... ma io avrei decisamente preferito il mitico uccello Garuda.
Tornati a Bangkok i nostri sarong birmani sono segno dei lazzi dei Tailandesi, così dobbiamo affrettarci a chiudere in valigia anche l'ultimo ricordo di questo breve ma indimenticabile viaggio.

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