Vanuatu, il Paese più felice del mondo

Andiamo nell’opposto emisfero per ammirare le meraviglie di un arcipelago (fortunatamente) ai margini del turismo di massa

Carneade, chi era costui? La maggior parte degli studenti che si è dovuta sorbire lo studio dei Promessi Sposi ricorda molto bene questa frase di Don Abbondio. Una frase così famosa che l’espressione Carneade è stata adottata dalla lingua italiana per definire una persona o cosa sconosciuta ai più.
Ebbene questa è la cronaca di un viaggio in una Carneade del turismo, un Paese che mi ha fatto divertire ancor prima di metterci piede, osservando le facce smarrite di chi mi chiedeva dove avevo in progetto di andare… Alcuni esempi di risposte più frequenti: 1) Vanu-che? 2) Eh??? 3) Che razza di posto è?
Eppure Vanuatu non merita certamente la situazione di oblìo turistico nella quale si trova, e spero che questo racconto riesca a farne capire le ragioni.
Tanto per cominciare, che cosa mi ha spinto a scegliere questa destinazione? Non ho puntato un dito a caso nel mappamondo, né sono andato a cercare un Paese sconosciuto per il gusto di sorprendere gli amici. Vanuatu (ex Nuove Ebridi, prima di assumere il nome attuale con l’Indipendenza) è venuto alla mia attenzione alcuni anni fa, quando, da appassionato di vulcani, ho stilato un elenco dei luoghi sulla terra dove è più facile ammirare questi spettacolari fenomeni della natura.
La lista dei paesi che davano questa possibilità era tuttavia lunga, ed ho dato la precedenza ad altre destinazioni più facilmente raggiungibili, come l’Islanda, le Hawaii, la Nuova Zelanda, l’Indonesia.
Ho comunque deciso di rompere gli indugi, nel sentire che il Paese è stato eletto nel 2006 dall’ Happy Planet Index, il “Paese più felice del mondo”… Non che volessi andare a condividerne la felicità, ma il tam tam mediatico che ne ha fatto seguito, temevo facesse lievitare l’interesse per Vanuatu con conseguenti incrementi di afflussi turistici che mal si sposavano con la mia voglia di godermi uno spettacolo della natura di vulcani in eruzione in santa pace. Fortunatamente vedremo che i timori di sovraffollamento turistico erano infondati, ma resta il fatto che, a maggior ragione, sono contento di avere fatto questa scelta in questo momento. In attesa di vedere cosa riserverà il futuro alla terra felice che risponde al nome di Vanuatu.15 - 16 - 17 settembre. Viaggio e arrivo all’isola di Efate
L’airbus 320 della Air Vanuatu atterra all’aeroporto di Port Vila alle 14:00 in punto del 17 settembre 2011, in perfetto orario. Sono passate 44 ore da quando abbiamo chiuso dietro di noi la porta di casa e non possiamo fare a meno di pensare che questo posto dovrà davvero dimostrarsi all’altezza della situazione per essersi meritato lo sforzo di un viaggio così lungo. Delle 44 ore di viaggio, ne abbiamo trascorso più di 30 in volo.
All’immigrazione veniamo indirizzati su due colonne, una riservata ai residenti e una ai visitatori. La distribuzione ci fa subito capire quale sia tuttora la vocazione turistica di Vanuatu: del centinaio di passeggeri a bordo, solo 23 entrano nel corridoio riservato ai “visitors”.
Scopriremo più tardi delle cifre più precise ed esemplificative dell’impatto del turismo su Vanuatu. Il Paese è collegato da 25 voli internazionali settimanali, provenienti da Australia e Nuova Zelanda (+ 2 dalla vicina Nuova caledonia). Nel primo semestre del 2011 sono stati 18.650 i visitatori stranieri (dati del ministero dell’interno), ovvero una media di 93 al giorno. Considerato che l’arcipelago è composto da 83 isole ( poco più di una cinquantina abitate) ed è spalmato lungo centinaia di chilometri tra equatore e tropici, credo che queste cifre diano una idea abbastanza chiara dell’ impatto turistico.
Immagino che la spiegazione più plausibile dello scarso interesse sia data dal fatto che il flusso dei visitatori sia intercettato dalle vicine Fiji e dalla Nuova Caledonia, molto più sviluppate dal punto di vista turistico.
Abbiamo infatti avuto anche una certa difficoltà a trovare un alloggio nelle varie isole, non perché fossero tutti prenotati, ma proprio perché la scelta non era tra le più vaste e gli alloggi a disposizione davvero pochi.
Ma torniamo alla nostra cronaca. All’uscita dell’aeroporto, una organizzazione locale segnalataci dal proprietario del lodge dove abbiamo prenotato ci porta a destinazione: il bel Fatumaru Lodge.
Il lodge si trova giusto di fronte ad un tratto di spiaggia che si affaccia sulla baia omonima. Ci viene data di fatto una delle due camere migliori, con una piccola veranda che si trova a 5 metri dal mare con l’alta marea, 6 con la bassa marea! Ovviamente la spiaggetta è privata, il che ci permette di tenere sempre la porta che da sulla veranda aperta, per godere della vista e dello sciabordìo del mare sempre, anche a letto! Siamo ancora intontiti dal viaggio e passiamo il nostro primo pomeriggio oziando in terrazza e assaggiando le placide acque della baia. Come in tutti i Paesi tropicali, la sera scende presto: sono da poco passate le 18.00 quando andiamo a cena in un vicino ristorante cinese, tanto per cercare di andare a letto presto e recuperare parzialmente il fuso orario. Il ristorante è di ottimo livello e la cena ci costa 3750 Vatu in due, circa 30 Euro.

18 settembre
Il mattino seguente cominciamo a darci da fare: siamo sull’isola di Efate, la più conosciuta e anche la più frequentata dai turisti, che sono per la maggior parte Australiani e Neozelandesi. Scopriremo durante il nostro soggiorno che sono per la maggior parte dei casi coppie appassionate di immersioni o snorkelling oppure famiglie che vengono a godersi una settimana di calma e relax.
La vita notturna è praticamente inesistente e tutti i giovani che incontreremo saranno interessati ad attività sportive o alla visita attiva delle isole.
Sono invece quasi totalmente assenti gli Europei: nei 15 giorni di permanenza non incontreremo nessun italiano e nessun tedesco, un avvenimento quasi da record. Troveremo invece una coppia di austriaci, una di Slovacchi, alcuni Inglesi e un certo numero di Francesi, quasi tutti arrivati a Vanuatu dopo aver saputo della sua esistenza a seguito di una vacanza nella vicina Nuova Caledonia, da sempre destinazione amata dai Francesi.
Il primo approccio è ovviamente con la capitale, la cittadina di Port Vila, che ha conosciuto il suo sviluppo a partire dalla seconda guerra mondiale, quando gli Statunitensi hanno occupato stabilmente tutte le Nuove Ebridi. Non si può certamente affermare che Port Vila sia una bella città, anzi, non si può neppure affermare che sia una città, con i suoi 30.000 abitanti!!
La baia riparata sulla quale sorge è certamente molto bella, ma a parte qualche spettacolare panorama del quale si gode salendo sulle colline alle sue spalle non c’è molto da raccomandare. La guida della Lonely Planet parla di qualche costruzione storica e di una bella cattedrale, ma per un Europeo, abituato a ben altri standard storico-artistici, ci vuole ben altro per suscitare un certo interesse. Le bellezze di Vanuatu non sono certamente qui.
Constatiamo ben presto che il nostro telefono cellulare non funziona: per poter telefonare è necessario comprare una scheda locale, cosa facilissima e rapida: entriamo nel negozio “Mobitel” e nel giro di pochi minuti abbiamo anche noi un numero locale, che ci permette di chiamare l’altro capo del mondo alla tariffa di circa 40 centesimi di Euro al minuto. Non male.
Siamo un po’ meno fortunati nell’ufficio dove decidiamo di affittare l’auto, nel senso che constatiamo ben presto che i ritmi di lavoro da queste parti sono decisamente blandi… che sia questo uno dei motivi per cui sono così felici´´ Così, dopo aver perso quasi un’ora per una semplice operazione come l’affitto dell’auto andiamo a pranzare in una birreria del centro chiamata “The port” che diventerà il nostro locale preferito. Gestito da una Inglese, propone ottimi piatti internazionali e locali, tra cui eccellenti piatti di pesce. Il conto sarà sempre intorno ai 4.000/5.000 Vatu per due, dai 30 ai 40 Euro.
Va ricordato a questo proposito che Vanuatu, pur non essendo cara come le isole del Pacifico più famose, non è comunque una destinazione a buon mercato. I prezzi di benzina, hotel, ristoranti, quelli che più interessano il visitatore, sono all’incirca pari a quelli Europei.
Nel pomeriggio ci spostiamo alla Iririki Island, un’isoletta a pochi minuti di barca dal centro, nel mezzo della baia. Sulla bella spiaggia ci sono dei bungalow costruiti direttamente sul mare: quando ho cercato su Internet un hotel sono stato quasi tentato di prenotare qui, ma ora che lo vedo sono contento di non averlo fatto: l’isola è molto bella, la spiaggia pure, ma i bungalow hanno vista sulla città! Non è davvero il massimo per un hotel in un’isola tropicale!
Torniamo indietro verso sera e proviamo un nuovo locale, un grill bar dotato di ampio schermo che trasmette i mondiali di rugby a beneficio dei numerosi tifosi Australiani e Neozelandesi: stasera c’è Francia- Canada. Insomma, non siamo ancora entrati nel clima selvaggio e naturale che Vanuatu offre!

19 settembre
Il tempo è piuttosto nuvoloso ma non ci facciamo comunque scoraggiare e con la piccola auto presa in affitto (300 euro per 5 giorni) partiamo per fare il giro dell’isola. C’è una sola strada, tutta asfaltata, che fa il giro dell’isola: sono circa 130 chilometri in totale e ci chiediamo quante volte può averlo fatto l’auto che ci hanno dato, con 85.000 chilometri percorsi!
Le attrazioni più interessanti sono solo a 10 chilometri dal centro di Port Vila: la prima che visitiamo è la Mele Waterfall, una cascata davvero pittoresca, che si raggiunge con una passeggiata di una quindicina di minuti attraverso una foresta lussureggiante. Nell’ultima parte, risaliamo il fiume che forma la cascata, camminando nell’acqua: la cosa rende la visita decisamente molto più avventurosa e divertente! L’ingresso costa 1500 Vatu, circa 13 Euro, ma l’agevole e spettacolare sentiero e la vista della cascata vale certamente la cifra. Molto più deludente si rivela essere invece il secret garden, una specie di museo all’aperto, che la guida cita entusiasticamente, definendola tra l’altro un giardino fiorito: indicazione sbagliatissima, non c’è quasi nulla. A questo proposito, devo dire che purtroppo abbiamo dovuto spesso navigare a vista durante la nostra visita. Prima di partire abbiamo cercato invano più di una guida sulle isole (la prima persona che mi ha detto “Vanu-che´” è stata l’impiegata della libreria dove ho cercato delle guide: da lì ho capito che non sarebbe stato facile raccogliere informazioni…), ma abbiamo trovato solo uno striminzito volume della Lonely Planet in inglese. una guida che si è rivelata pessima, molto approssimativa e ritengo scritta da qualcuno che non aveva neppure visitato alcune attrazioni. Molti dei luoghi più belli che abbiamo visto non sono neppure citati!
L’unica cosa interessante che troviamo al secret garden sono i cartelli esplicativi che parlano di storie e leggende del luogo: leggiamo i primi con entusiasmo, ma ne tralasciamo alcuni perché addirittura un po’ troppo prolissi.
Lasciamo la zona verso le 12.00 per proseguire il nostro giro dell’isola. La strada comincia a salire rapidamente fino al Klem Lookout da dove si gode di un ampio panorama sulla costa. Il cielo però ora si è chiuso del tutto ed è diventato quasi plumbeo, quindi tiriamo avanti. La strada è fiancheggiata da una rigogliosa foresta e punteggiata da piccoli villaggi, dove il clamore della piccola capitale che abbiamo appena lasciato sembra lontanissimo. E’ proprio in questi piccoli villaggi ai margini della strada che cominciamo ad apprezzare la genuinità della gente: ovunque ci vengono dispensati sorrisi e saluti. Scendiamo ogni tanto a fare qualche fotografia e sempre troviamo simpatia e disponibilità. Nel corso di tutto il viaggio non riceveremo mai né un rifiuto né un muso lungo, ma sempre apprezzamento e allegra partecipazione. A volte saranno addirittura loro che ci ringrazieranno per avere scattato una foto! Mai ci verrà chiesto qualcosa, né denaro né qualsiasi altra cosa.
Anche questo ci fa capire che quello che noi chiamiamo “turismo distruttivo” non è ancora arrivato da queste parti!
Ogni tanto incontriamo quello che viene chiamato “road market” ovvero delle piccole bancarelle di paglia improvvisate dove i locali espongono i prodotti del loro orto. I prezzi sono ridicolmente bassi (per esempio un caschetto di una decina di banane costano intorno agli 80 centesimi, la metà se molto mature) e alcuni non sono neppure presidiati. Il cliente può prendere i prodotti che gli interessano lasciando i soldi in un piccolo contenitore.
Individuiamo anche qualche bella spiaggia che ci riproponiamo di visitare nei giorni seguenti: una molto bella si trova esattamente a metà percorso, con piccolo ristorante annesso dove ci fermiamo a mangiare.
Chiudiamo il nostro cerchio poco dopo le 16.00 entrando a Port Vila dalla parte opposta da cui siamo usciti, con negli occhi e nella mente immagini bellissime di genti, spiagge, mare e colori.

Martedì 20 settembre
La nostra piccola spiaggetta privata ci invita ad oziare ed abbandonarci alla lettura e al dolce far niente. Il lodge ha anche una piccola piscina, ma il nostro lembo di spiaggia è decisamente più attraente. Così, ci lasciamo cullare dalla leggera brezza in terrazza, contemplando il mare e mangiando frutta fresca comprata il giorno precedente. Usciamo solo all’ora di pranzo, per andare a mangiare qualcosa alla birreria. Dopo pranzo ci addentriamo invece nel mercato fisso che si trova nel centro della cittadina. E’ un mercato che comincia il lunedì e finisce il sabato alle 13.00. Si vende principalmente frutta e verdura, ma anche legna da ardere (per cuocere, non certamente per riscaldarsi!!), cibo già pronto, fiori.
La visita si rivela interessante per molti aspetti: prima di tutto il mercato rispecchia la natura di quella terra rigogliosa. Il fertile terreno vulcanico è per i locali una vera benedizione, cresce di tutto. Restiamo comunque stupiti nel vedere verdure di tutte le stagioni, contemporaneamente: pomodori, carote, melanzane, verze, peperoni e peperoncini, patate, taro, cetrioli, zucchine, zucche. Siamo ancora più meravigliati nel vedere che, in un Paese dove molte cose ci ricordano l’Africa, le donne che maneggiano il cibo già cotto, pronto da consumarsi, sono tutte attrezzate con cuffietta e guanti di plastica. Le verdure sono tutte mondate e lavate e la lattuga si presenta forse ancora più pulita che da noi!
I banchi del cibo precotto sono i più frequentati. Parecchi locali, forse lavoratori in pausa pranzo, acquistano il cibo e lo consumano in alcuni tavoli vicini a disposizione. Le porzioni di cibo vengono abilmente avvolte in gigantesche foglie di Taro, accuratamente lavate. Le bancarelle espongono pesce fritto e alla griglia, pollo cucinato in salsa di cocco, bistecche con verdure. Quasi tutto è accompagnato da fette di taro che somiglia tanto alla nostra polenta alla griglia. Tra i locali, notiamo anche qualche turista seduto ai tavoli e dunque le nostre iniziali ritrosie ( con il timore di dissenteria a causa delle eventuali precarie condizioni igieniche) sono vinte: domani o dopodomani verremo a pranzo qui!
Cerchiamo infine di contattare la Sailaway, una organizzazione locale specializzata in escursioni in alto mare, per vedere anche le megattere che in questa stagione sono in transito: ci viene risposto che per uscire hanno bisogno di almeno 6 partecipanti e per il momento, oltre a noi due, c’è solo un’altra prenotazione: noi abbiamo tempo fino a venerdì e lasciamo il nostro numero di telefono, confidando che arrivino altre tre persone nei prossimi tre giorni. Sarà una vana speranza, non faremo mai questa uscita. Non sempre è un vantaggio essere in un luogo poco turistico!
Torniamo al nostro lodge dopo aver fatto la spesa di frutta: oggi abbiamo scoperto un nuovo frutto di cui non conoscevamo l’esistenza ( per meglio dire, l’abbiamo scoperto ieri a colazione, ma oggi siamo riusciti ad individuarne anche il nome): è la Graviola, un frutto grande circa il doppio di un mango, con la polpa bianca e semi neri non edibili. Si mangia con il coltello o il cucchiaino, tagliando la polpa bianca dalla scorza. E’ difficile descriverne il gusto, direi che si avvicina molto vagamente alla pera, anche se più acidulo. A noi piace molto. Una successiva ricerca su Internet ci farà scoprire che è molto studiato ed usato in erboristeria, perché sembra che sia un ottimo antistress e abbia anche qualità antitumorali.

Mercoledi 21 settembre
Nell’attesa (vana) di essere chiamati dalla Sailaway, non stiamo certamente con le mani in mano. Oggi dedichiamo la giornata alla visita della Hideaway Island: un nome, un programma! Arrivarci non è per nulla difficile. Con la nostra piccola auto andiamo alla spiaggia, vicina alle cascate visitate lunedì, dove parte una barchetta che fa la spola tra le isole. Si paga circa una decina di Euro per il passaggio e l’ingresso all’isola, dove c’è un solo resort, piuttosto vecchiotto, ma che perlomeno non ha la vista sulla città come quello di Iririki! Al resort si possono affittare per pochi Euro le pinne e la maschera per lo snorkelling e lo facciamo subito. Sono passate da poco le 10 quando arriviamo e non c’è molta gente in acqua, quindi ne approfittiamo per tuffarci nelle acque cristalline che racchiudono un vero tesoro di pesci e coralli. La spiaggia, bianchissima, non è sabbiosa ma corallina. Bisogna dunque camminare con i sandali perché i coralli morti, per quanto arrotondati dal vento e dall’acqua sono come dei sassolini! Passiamo una intera giornata nella piccola isola all’insegna dell’ozio e del nuoto: di solito noi amiamo le vacanze itineranti, ma visto che siamo in un paradisiaco arcipelago corallino, ci sembra giusto approfittarne, sappiamo già che le attività ci attenderanno nei prossimi giorni e nelle prossime isole. Hideway Island non è molto grande e, come la maggior parte delle isole coralline del pacifico, ha un interno lussureggiante ed è circondata da bassi fondali. Il resort mette a disposizione gratuitamente anche le sedie a sdraio per i visitatori e per cercare un po’ d’ombra non serve certamente l’ombrellone: la spiaggia, larga solo alcuni metri è contornata da frondosi alberi ad alto fusto, tra i quali si nascondono gli alloggi del lodge, rendendoli quasi invisibili. Insomma tutto contribuisce a rendere l’isola il classico posto da cartolina illustrata!
Rientriamo nel tardo pomeriggio per una visitina ad un altro mercatino, quello che vende piccoli oggetti di artigianato: i manufatti in legno sono molto interessanti ed ad un prezzo accessibile: compriamo per una ventina di Euro un portafrutta intagliato, dalla forma di pesce, con piccoli inserti di conchiglie colorate. Ci sono poi molte conchiglie bellissime, di varie dimensioni. Le più belle sono però piuttosto costose, arrivano a volte anche a 100 Euro! Rinviamo dunque l’eventuale acquisto ai giorni intorno alla partenza.
Il mercatino è disposto con bancarelle messe in cerchio ed in mezzo al cerchio ci sono i venditori, anzi, le venditrici, visto che sono tutte donne. Assistiamo ad una specie di riunione religiosa, con canti e preghiere, recitate lì, in mezzo al mercato. I ni-vanuatani (questo il nome degli abitanti) sono cristiani e la religione è molto sentita, soprattutto nelle cittadine (nei villaggi sperduti prevalgono i riti tribali).
La semplicità e la coralità del rito ci affascina e restiamo a lungo ad osservarle. Sembrano quasi non essere interessate a vendere e anche le poche donne che non partecipano al rito sono tutt’altro che aggressive. Riscontreremo purtroppo una certa aggressività commerciale sono nei negozi gestiti da cinesi (sì, sono arrivati anche lì!), negozi che eviteremo accuratamente.
Per cena decidiamo invece di andare in un ristorante francese, il rendez-vous, tanto per provare diversi locali: di francese ha poco o nulla, in compenso è posto alla fine della cittadina su posizione sopraelevata ed ha una stupenda vista sulla baia sottostante. Ordiniamo il coconut crab, il granchio del cocco, una delle specie di granchio più grandi al mondo. Cucinato con una salsa al cocco è semplicemente divino!
Costo della cena per due 8.500 vatu, circa 70 Euro, ma li meritava tutti!

Giovedi 22 settembre
Giornataccia davvero, oggi. Per la verità siamo un po’ sorpresi perché ci aspettavamo, forse ingenuamente, di trovare sempre giornate di bellissimo sole, visto che questa è ufficialmente la stagione secca. D’altra parte, vista la vegetazione lussureggiante, è difficile immaginare di avere settimane o mesi interi senza pioggia. Morale, ci svegliamo sotto una finissima pioggerellina e quindi ce la prendiamo comoda al mattino, facendo colazione tardi ed indugiando in camera. Nella tarda mattinata andiamo in città, per fare un giro di negozi. Ci imbattiamo nel piccolissimo ufficio del turismo, dove raccogliamo un po’ di scarso materiale informativo, ma soprattutto facciamo una lunga chiacchierata con l’impiegata dell’ufficio, che a quanto sembra è ben entusiasta di scambiare quattro chiacchiere con noi, visto che non c’è nessuno.
Ne approfittiamo per chiedere qualche notizia interessante, cominciando dalla loro lingua che suona davvero divertente alle nostre orecchie! Accanto ad Inglese e Francese, entrambe lingue ufficiali, anche se l’Inglese è più conosciuto, esiste il Bislam, una lingua locale che prende spesso spunto da parole di altre lingue, quasi sempre l’inglese “storpiandole”. In bislam per esempio “mi scusi” si dice “skiusmi”
Domani “tumorro”, rallentare “slo daon” magnifico, eccezionale, è “namberuan” e cosi via.
Ovviamente namberuan vuol dire anche numero uno e i numeri successivi suonano proprio come state immaginando: nambertu, nambertri, namberfor, namberfaiv….. un Italiano non sarebbe riuscito a fare di meglio!!
Forse anche per questo l’inglese è più parlato del francese, perché il bislam assomiglia di più alla prima lingua. Il motivo per il quale sono due le lingue ufficiali nel Paese, è dovuto alla strana storia di Vanuatu. Fino al secondo dopoguerra le Nuove Ebridi erano amministrate in condominio dalle autorità francesi e inglesi insieme, cosa più unica che rara nel panorama del colonialismo internazionale.
Le Nuove Ebridi furono dapprima colonizzate dagli Inglesi, ma la vicinanza con la Nuova Caledonia, appartenente ai Francesi, portò ad una sempre maggiore presenza di coloni francesi nel territorio.
Alla fine dell’800, dato che entrambe le Nazioni accampavano diritti sulle isole, per evitare contrasti, si decise di dichiarare il territorio delle Nuove Ebridi Neutrale. La cosa non funzionò, perché mancava una vera e propria amministrazione del territorio, quindi si giunse nel 1906 ad una forma di amministrazione in condominio tra Inglesi e Francesi. Il “condominium” fu chiamato da molti ironicamente “pandemonium” perché comportò una doppia divulgazione di leggi e regole, con un unico tribunale. Gli europei che vi si stabilivano potevano scegliere se assoggettarsi alle regole francesi o britanniche, mentre i poveri cittadini locali non avevano alcun diritto di diventare cittadini dell’una o dell’altra nazione. Per poter espatriare, per esempio, avevano bisogno delle autorizzazioni di entrambe le amministrazioni! Tuttavia, non tutto il male viene per nuocere. Nel corso della seconda guerra mondiale le Nuove Ebridi furono letteralmente invase dall’esercito Americano che portarono nelle isole ben 500.000 militari. L’esito della battaglia di Guadalcanal, favorevole agli Statunitensi, fece sì che i giapponesi non arrivassero mai a Vanuatu, ma gli americani scelsero di eleggere comunque le isole a base strategica e di rifornimento per le truppe impegnate nel Pacifico. Questo portò ad un certo sviluppo e ricchezza del Paese, assieme alla presa di coscienza nazionalistica da parte della popolazione locale. Quando dunque nel secondo dopoguerra i locali cominciarono a premere per l’indipendenza, trovarono un substrato ideale nella precarietà di una forma di governo tanto bizzarra quanto improponibile del condominio anglo/francese. Essendo entrambe le potenze impegnate a mantenere spesso con la forza il governo coloniale di altre terre, negli anni 60 cominciarono a fare le prime concessioni, fino ad arrivare in modo tutto sommato incruento, alla concessione della totale indipendenza nel 1980.
Il nome di Nuove Ebridi fu cambiato allora cambiato in Vanuatu.
Usciti dall’ufficio del turismo, ci tuffiamo nuovamente nel mercato stabile per andare a pranzare in una delle bancarelle che cuociono semplici prodotti locali. Mangiamo un piatto di riso e carne e uno di pesce e verdure per 900 Vatu, ovvero 7-8 Euro: prezzo bassissimo ma d’altra parte siamo al mercato, in una bancarella dove la maggior parte degli avventori sono lavoratori locali. In questa occasione conosciamo anche una coppia di Francesi, con i quali scambiamo qualche parola: scopriamo che son dei gran viaggiatori, e che hanno già visitato anche le vicine Fiji e Nuova caledonia, più volte. Ci dicono che Vanuatu è però la loro preferita e la cosa ci incoraggia molto!
Nel pomeriggio il sole comincia a fare capolino dalle nuvole e decidiamo di passarlo godendoci la nostra piccola spiaggia privata al lodge.
La sera proviamo invece un ristorante italiano, più per curiosità che per reale voglia di mangiare nostrano. Proviamo la pizza e un piatto di tagliolini ai gamberetti, entrambi a dir poco osceni (soprattutto la pizza!). Pazienza, siamo abituati a mangiare di tutto in giro per il mondo, e la cosa non ci turba più di tanto.

Venerdi 23 settembre
Giornata dedicata interamente all’escursione a Lelepa Island, che si trova a nord rispetto a Port Vila: abbiamo prenotato l’escursione telefonando la sera prima ad una agenzia locale, dopo aver visto che sull’isola di trova l’unico luogo di Vanuatu che è entrato tra i siti protetti dell’Unesco: la grotta di Roi Mata
Dunque, dovendo scegliere tra le tante belle isole in cui trascorrere una giornata, questa ci sembra essere quella che offre di più.
La partenza è prevista per le 8.45 e noi siamo già pronti fuori dal lodge qualche minuto prima. Il tempo passa e non si vede nessuno. Alle 9.00 telefono di nuovo all’agenzia e mi rispondono che hanno avuto un contrattempo, ma è forte la sensazione in me che si siano dimenticati di noi. Dopo quasi mezz’ora si presenta il proprietario dell’agenzia in taxi, che ci cede il taxi e da istruzioni al taxista su dove portarci:… la sensazione che si fossero dimenticati di noi si rafforza! Dopo circa 20 minuti di viaggio, abbandoniamo la strada principale e ci addentriamo in una pista nella foresta: qualche centinaio di metri e ci ritroviamo in una spiaggia dove troviamo una barca e un gruppetto di 8 persone che si sta preparando ad imbarcarsi. Ci uniamo al gruppo e partiamo rapidamente.
La traversata è piuttosto breve, l’isola è vicina, e la barca scarica noi 10, una ragazza che ci fa da guida e un anziano che scopriremo poi essere il nostro cuoco, in una spettacolare spiaggia di sabbia bianchissima, ovviamente completamente deserta.
Lelepa Island ha una forma vagamente triangolare, e noi siamo proprio nel vertice più stretto del triangolo, nella parte a nord-est. Questa costa guarda verso l’isola di Efate e la ragazza ci spiega che proprio di fronte a questa spiaggia fino agli anni 40 si trovava l’unico villaggio dell’isola. Era costruito proprio in quella zona, perché il luogo era logisticamente il più adatto, visto che si trovava in una zona riparata, e allo stesso tempo si era proprio a ridosso dello stretto che separava Lelepa alla vicina isola di Moso. Insieme, le due isole rendevano il tratto di mare che le separava da Efate estremamente sicuro e riparato. Ma, come spesso accade, una posizione logisticamente favorevole coincide con una posizione strategicamente favorevole, e con lo scoppio della seconda guerra mondiale, gli americani che arrivarono in gran numero a Vanuatu pensarono di installare proprio lì delle posizioni difensive: così, il villaggio è stato spostato per ragioni di sicurezza nella costa sud dell’isola e si trova tuttora lì.
Dunque in questa parte regna la pace e il silenzio, rotto solo dall’ infrangersi delle onde sulla costa.
Ci inoltriamo nella foresta che copre l’interno della piccola isola, attraverso un sentiero piuttosto agevole, tracciato proprio dagli americani per poter passare facilmente dalla spiaggia nord est alla spiaggia nord-ovest dell’isola. Il tragitto è piuttosto breve, visto che siamo come detto in punta al triangolo, circa mezzo chilometro. La biodiversità è notevole e nel corso della breve passeggiata la nostra giovane guida ci mostra parecchie piante utilizzate dai locali come fonte di medicina. Così, impariamo che il decotto delle foglie di “Namir” , arbusto piuttosto comune, è usato contro nevralgie e mal di denti, la linfa di un altro cespuglio si usa come cura per il mal di stomaco, e così via. Interessante sentire come la posizione del favo di una specie locale di calabrone, venga interpretata dai locali per riuscire a capire se c’è un uragano in avvicinamento. Lo spostamento del favo dai rami più alti al terreno, costituisce un sicuro ed inequivocabile avvertimento. Ancora, ci viene mostrato un albero, chiamato “Nata”, che quando fiorisce, costituisce un avvertimento di non nutrirsi di alcuni pesci che vivono sulla barriera corallina perché tossici in quel periodo: la fioritura dell’albero coincide infatti con la “fioritura” della barriera corallina (probabilmente l’emissione di alcune sostanze tossiche delle quali saltuariamente alcuni pesci si nutrono). Un’ulteriore dimostrazione della varietà della natura e dell’ingegno degli uomini semplici abituati a convivere in simbiosi con il mondo che li circonda, traendone il massimo beneficio.
Pochi minuti di cammino e ci ritroviamo sull’altro lato dell’isola, una spiaggia altrettanto meravigliosa, dove siamo liberi di fare un po’ di snorkelling nelle acqua cristalline della baia, mentre la nostra guida aiuta il cuoco a cucinare della carne e della verdura alla griglia per il nostro pranzo.
Una volta pronta, la carne e il resto del cibo vengono disposte in un tavolo di paglia all’interno di una piccola veranda col tetto di paglia, posizionata ai margini della spiaggia probabilmente parecchi anni prima. Ci disperdiamo per il pranzo appoggiandoci a qualche altro tavolo con rudimentali panchine in legno distribuiti qua è là nella spiaggia: a tutti è offerta così la possibilità di mangiare quando vuole, dove vuole e soprattutto in tranquillità. Nessuno del piccolo gruppo è chiassoso ed il silenzio ci da modo di godere ancora di più dell’ atmosfera da spiaggia deserta del luogo.
Prima di ripartire, alcuni di noi provano, assieme al conducente della barca, ad andare a trovare un relitto di aereo abbattuto nel 1944: girovaghiamo un po’ per la foresta, ma troviamo solo un pezzo d’ala, mentre il resto della carcassa resta purtroppo nascosto ai nostri occhi. Il conducente della barca ci spiega che è un aereo americano abbattuto da fuoco amico, perché i veivoli giapponesi non sono mai arrivati sui cieli di queste isole.
Proprio sulla spiaggia dove abbiamo appena pranzato sono evidenti le piattaforme di cinque batterie di contraerea: i cannoncini venivano posizionati quasi sempre sulle spiagge, grazie al fatto che questi litoranei sono sempre contornati da alberi ad alto fusto e dalla folta chioma, che non lasciavano le postazioni scoperte e visibili. Anche qui, come da altre parti, vediamo le piattaforme proprio in corrispondenza degli alberi più forti e rigogliosi. Certamente queste cicatrici costituiscono una sorta di violenza alla natura, ma anche queste brutture in cemento armato con i bulloni in acciaio inox che spuntano minacciosi dal cemento (non possiamo fare a meno di notare come, dopo oltre 60 anni, l’acciaio non sia minimamente attaccato, segno che sono stati usati materiali di eccezionale qualità!) non riescono comunque a rovinare del tutto la bellezza del luogo.
Ripartiamo con la barca per scendere lungo la costa occidentale dell’isola, quella esterna: doppiamo la punta sud occidentale di Lelepa, costeggiando spiagge bianchissime e completamente deserte: ci fermiamo vicino ad un faraglione per fare ancora snorkeling, questa volta non su bassi fondali, ma in una zona ben più profonda, dove il blu intenso dell’oceano si fonde e si confonde con i coralli e i pesci multicolori: una vera delizia per gli occhi! Dopo oltre un’ ora di nuoto tra i fondali, proseguiamo la circumnavigazione dell’isola, approdando all’unico villaggio di Lelepa, quel villaggio che fino a 60 anni prima si trovava all’estremo nord dell’isola anziché all’estremo sud.
E’ un insediamento decisamente modesto, con capanne di fango e mattoni sparse in mezzo alla vegetazione. In compenso la gente del villaggio ci accoglie con curiosità e allegria. Dopo una giornata intera trascorsa in solitudine il contatto con le poche decine di abitanti del villaggio ci sembra un vero bagno di folla! Alcuni di essi vendono piccolissime cose, come conchiglie, sassi colorati e, cosa curiosa, bottigliette di coca cola risalenti alla seconda guerra mondiale, riconoscibili per il fatto che nel fondo riportano il nome dello stabilimento dove è stata imbottigliata. La nostra guida ci dice che ce ne sono a milioni a Vanuatu e non è difficile crederle, vista la quantità di militari stanziati qui durante la guerra!
La giornata volge quasi al termine, e dobbiamo ancora visitare la grotta di Roi Mata, patrimonio dell’Unesco: la guida inizialmente prova a dirci che non c’è più tempo ma tanto io che un’altra coppia di australiani che fortunatamente mi appoggia,ci ribelliamo sostenendo che non possiamo saltare l’appuntamento più importante della giornata. Così, il programma viene rivisto e torniamo indietro di qualche centinaio di metri via mare per approdare ad una piccola spiaggia dominata da un massiccio calcareo di colore bianco. Scendiamo dalla barca e cominciamo subito ad arrampicarci lungo una salita piuttosto dura per arrivare, dopo 10 minuti, ad un piccolo spiazzo dominato proprio dalla roccia bianchissima, la cui parete modellata dal vento presenta dei meravigliosi disegni naturali. Alla base della parete verticale, una apertura ci conduce all’interno di una grotta enorme anche se scarsamente illuminata. Siamo in quella che è stata la residenza per molti anni di Roi Mata, un capo locale del XVII secolo che, per primo, ha riunito diverse tribù delle isole vicine, sotto un unico regno, segnando un lungo e prospero periodo di pace. La grotta è uno dei tre siti che fanno parte dei luoghi sotto la protezione dell’ Unesco: gli altri due sono un’altra grotta, più piccola, nell’isola di Efate, dove il re si riuniva con altri capo tribù, e il suo luogo di sepoltura in una piccola isola poco distante. L’interno della cavità naturale è decorato da disegni e incisioni che risalgono anche a tempi ben precedenti a quello del re, cosa che ne aumenta l’importanza storica, visto che molte incisioni sembrano risalire almeno al 1400. Purtroppo non sono facili da scorgere e anche la mia piccola pila non riesce ad inquadrarli tutti. Scorgiamo invece chiaramente una data riportata da quello che fu un navigatore inglese, 1804. La cosa che comunque ci colpisce di più è proprio l’esterno, con la parete bianchissima levigata dal vento che la rende simile alla facciata di una reggia naturale, decisamente degna di un re! Un capolavoro di storia e natura intrecciate.
Ora possiamo davvero tornare! All’approdo di Efate troviamo ad aspettarci il proprietario dell’agenzia e scopriamo così che abita proprio nel villaggio che abbiamo visitato e la barca fa servizio di comunicazione tra Efate e Lelepa. La guida che ci accompagnto è sua cugina e torna anche lei nell’isola. Decisamente è vero che l’agenzia è 100% locally owned come recita il piccolo pieghevole che la pubblicizza, e il proprietario fa la spola tra il villaggio e il suo piccolo ufficio della Capitale!
Rientrati a Port Vila, trascorriamo la serata al nostro ristorante preferito, “The Port” dove ci godiamo assieme ai numerosi e folcloristici tifosi Australiani la partita di rugby Australia-Usa dei mondiali. Senza storia, l’Australia travolge gli Statunitensi!
Rientriamo un po’ più presto del solito, domani ci aspetta una levataccia per prendere il primo aereo per l’isola di Tanna.

Sabato 24 settembre
Arriviamo a Tanna alle 8.10 del mattino e ci rendiamo subito conto che avere scelto il primo volo della giornata ci tornerà sicuramente utile, visto che passeremo su questa isola sicuramente le due giornate più intense della nostra vacanza. Dopo avere recuperato i nostri bagagli, ci ritroviamo subito nella Land Rover del lodge molto modesto dove abbiamo prenotato. A Tanna ci sono solo fuoristrada, perché le poche strade esistenti sono in condizioni pessime: non esiste la possibilità di affittare auto e ci si deve per forza affidare ai pochi mezzi posseduti dai locali. Il breve tragitto che ci separa dal lodge ci è più che sufficiente per organizzare una escursione per la mattinata. Il motivo principale per il quale siamo qui è infatti la visita al vulcano Yasur, in perenne attività, ma per poter godere al meglio dello spettacolo del vulcano sappiamo che dobbiamo andarci nel tardo pomeriggio, in modo da poter essere lì anche quando calano le tenebre.
Dunque dobbiamo fare qualcosa nell’attesa, e la cosa più interessante da fare è, dal nostro punto di vista, andare a visitare uno dei villaggi dell’interno, dove gli abitanti vivono ancora secondo le ancestrali tradizioni. Il tempo di lasciare il bagaglio e di cambiare la scassata Land Rover rossa risalente al Giurassico con una scassatissima Land Rover risalente al Triassico, e siamo di nuovo in movimento, nel vero senso della parola. Il viaggio è un vero e proprio percorso a ritroso nel tempo: lasciamo il villaggio di povere casupole in muratura con il tetto in lamiera - per inciso: la capitale di Tanna! - per cominciare a trovare villaggi ancora più minuscoli con le case di fango e i tetti in paglia. Incontriamo sempre meno gente per la strada man mano che avanziamo, e sempre meno vestita. La strada, in condizione precarie fin dall’inizio, diventa sempre più stretta, sempre più accidentata, sempre più invisibile, sempre più… meno strada!
Finalmente, dopo quasi un’ora di sballottamenti che mettono a dura prova la colonna vertebrale, arriviamo in uno stupendo spiazzo circondato da tre splendidi baniani, alti perlomeno come case a tre piani. Intorno a noi solo foresta, davanti a noi 3 statue tradizionali ricavate da un tronco di palma nera che segnano l’ingresso ad un villaggio. La jeep si ferma e quasi subito spunta dal bosco un uomo vestito di solo astuccio penico e due penne sul capo. Tiene in braccio una neonata di pochi mesi e comincia a parlare con il nostro autista. Ci dicono che lui è il capo del villaggio ed è a lui che dobbiamo chiedere il permesso di entrare nel villaggio. A Tanna, come in tutte le altre isole di Vanuatu l’organizzazione tribale è ancora molto forte. Il capo o il gruppo dei capi esercita il potere assoluto sul villaggio. Ci hanno raccontato che persino i politici ad altissimo livello, quando ritornano al proprio villaggio, non hanno nessun potere e devono sottostare alla volontà del loro capo villaggio. Un pò come se il nostro Presidente del Consiglio o il nostro Presidente della Repubblica dovessero obbedire senza discutere al sindaco del loro Paese: impensabile, ma quanto bene farebbe una cura di umiltà di questo genere!
Ma torniamo nella nostra foresta: il capo ci accorda il permesso di girare liberamente il villaggio (in cambio di una somma pattuita che si aggira sui 10 Euro): da questo momento siamo liberi di andare dove vogliamo all’interno del villaggio e di entrare in contatto con tutti, senza limitazioni alcuna se non ovviamente quella della discrezione e della buona educazione. Chiediamo timidamente ai primi anziani che incontriamo se li possiamo fotografare, ci rispondono semplicemente con un sorriso, alcuni si fermano e si mettono in posa. Insomma, nessuna differenza rispetto alle popolazioni più “civili” (brutto aggettivo ma serve a rendere l’idea) di Vanuatu.
Il villaggio è minuscolo, anche se disposto in una vasta area della foresta. E’ costituito praticamente da diversi gruppi di casupole disposte in spiazzi nella foresta, a volte distanti decine di metri tra loro. Ci chiediamo se la divisione è di tipo parentale o casuale. Le capanne sono povere, essenziali, e fortunatamente qui la odiosa lamiera non è ancora arrivata, le coperture sono tutte in paglia. Negli spiazzi tra una capanna e l’altra girano liberamente maiali e polli, eppure ci meravigliamo nel non sentire nessun odore di escrementi o stallatico, evidentemente vengono rimossi immediatamente. Tutti i bambini piccoli sono nudi, la maggior parte degli anziani sono vestiti di solo astuccio penico nel cso degli uomini, di un gonnellino in paglia di foggia hawaiana per le donne, a seno scoperto. Molti giovani invece hanno ceduto alle lusinghe degli abiti occidentali e indossano logore magliette e pantaloncini corti. Notiamo più donne vestite all’occidentale che uomini, perché anche molti ragazzi vestono l’astuccio penico.
Attorno al nucleo più grande del villaggio, vediamo però uno strano affaccendamento di un folto gruppo di donne e bambini. Ci avviciniamo, e notiamo che stanno preparando da mangiare, in enorme quantità. Sparsi attorno a loro, ci sono i pezzi di almeno due o tre maiali e diversi polli. I bimbi stanno grattugiando il Taro e la Manioca con rudimentali bastoni, mentre le giovani ragazze raccolgono la polvere grattugiata e la impastano con acqua fino ad ottenerne una sfoglia che stendono a mò di pizza. Una volta steso l’impasto, vengono deposti pezzetti di carne, quindi il tutto viene ripiegato, avvolto da foglie di taro e richiuso in una specie di cesto che verrà posto tra le pietre roventi. Poco più in là, infatti, alcuni uomini stanno ricoprendo di pietre le braci incandescenti di un grande falò. Tra poco, i “cesti” di carne verranno cotti al calore delle pietre.
La quantità di cibo preparato ci fa capire che si sta preparando qualcosa e con l’aiuto del nostro autista cerchiamo di raccogliere informazioni…fortunatamente il nostro autista sa già di cosa si tratta: il giorno successivo ci sarà l’annuale festa della circoncisione e per noi si prospetta una ghiotta occasione di vedere qualcosa di diverso ed inaspettato. Chiediamo subito al capo villaggio il permesso di assistere alla festa del giorno successivo, subito accordato, e lasciamo il villaggio ben lieti di poter tornare il giorno seguente.
Abbiamo il tempo per un’ ultimo giretto di esplorazione del villaggio, prima di tornare verso il nostro albergo: nel pomeriggio ci aspetta l’ appuntamento più importante, il vulcano Yasur, ovvero il motivo principale per il quale abbiamo affrontato questo lunghissimo viaggio dall’altra parte del mondo!
Lo Yasur è considerato il vulcano attivo più accessibile del mondo, visto che una pista per fuoristrada, pur in condizioni precarie, arriva fino a 150 metri dal bordo della caldera. Nonostante ciò, a causa del relativo isolamento di Tanna dal resto del mondo, il vulcano resta uno dei meno visitati al mondo.
Il nostro programma prevede la partenza alle 15.00, in modo tale da arrivare alla sommità del monte verso le 17.30, un’ora prima del buio. In realtà, la definizione di montagna è decisamente un po’ generosa nei confronti di questo vulcano. La vetta è a 361 metri sul livello del mare, tuttavia la salita parte quasi da quota zero, visto che la costa è a pochissimi chilometri. Per arrivarci, occorre attraversare l’isola da ovest ad est. La distanza in termini chilometrici non è molta, circa una quarantina di chilometri, ma il fatto che occorrano due ore e mezza per arrivarci, la dice lunga sulle condizioni della pista.
Partiamo dunque alle 15.00, con il Land Rover un po’ meno vetusto. Sulla parte scoperta prendono posto due locali, mentre noi ci sediamo nei sedili posteriori. La strada per arrivare è sconnessa, polverosa, e per alcuni tratti addirittura invisibile. Dopo oltre un’ora e mezza di sballottamenti il paesaggio cambia radicalmente, la foresta lascia improvvisamente il posto ad una distesa di roccia rossastra ricoperta di cenere grigia. Siamo arrivati ai piedi del Yasur e ne vediamo l’imponente e sinistra sagoma allo sbocco di una curva quasi cieca: il fuoristrada irrompe nella distesa quasi senza che ce ne rendiamo conto. D’improvviso la strada scompare, e l’auto sembra procedere a casaccio nelle distesa grigia. Ci avviciniamo al vulcano e a ridosso di una piccola montagna di materiale lavico rossastro ci fermiamo per scattare alcune foto e sgranchirci le gambe. Il paesaggio lunare è in fortissimo contrasto con quello che abbiamo goduto fino ad ora. Siamo però nel versante opposto a quello di risalita e ben presto ripartiamo per aggirare il cono. Ancora mezz’ora ed arriviamo alla capanna che segna l’ingresso del parco nazionale e della salita. Due guardie svogliate ci consegnano i permessi (costo d’ingresso quasi 30 Euro): scopriamo che solo noi paghiamo l’ingresso, mentre per i locali il transito è gratuito. Dunque i due ragazzi che sono nel cassone sono venuti semplicemente a godersi lo spettacolo, tanto è gratis! Ancora mezz’ora di risalita a passo d’uomo e arriviamo in uno spiazzo con due minuscole capanne che scopriamo essere le toilettes!
Sono le 17.30 passate da poco, tra mezz’ora sarà buio e noi ci accingiamo a percorrere gli ultimi 150 metri che ci separano dalla bocca infuocata dello Yasur. Risaliamo un sentierino segnato da paletti di legno (scopriremo domani cosa significano quei paletti) e arriviamo impazienti e con il fiatone alla bocca della caldera…. Che spettacolo! Neppure il tempo di piazzare il cavalletto fotografico che il vulcano ci accoglie con una fontana di lava alta almeno un centinaio di metri.
Istintivamente facciamo un passo indietro, un po’ spaventati: la lava ricade a non più di 150metri di distanza ma capiamo subito che non c’è un grandissimo pericolo perché la bocca è fortunatamente rivolta dalla parte opposta rispetto a dove ci troviamo… Per ora!
Credo di non riuscire a descrivere cosa ho pensato e come ho trascorso le due ore successive: ero talmente rapito dallo spettacolo che ho pensato solo a fotografare e a godermi lo spettacolo, tralasciando a tratti anche la fotografia pur di gustarmi quel pentolone ribollente di lava.
Ad un certo punto alla nostra destra notiamo che è attiva una seconda bocca, che però non è visibile dal punto in cui ci trovavamo. Così mia moglie segue un paio di persone che hanno cominciato ad incamminarsi lungo la cresta per andarla a vedere. Proprio mentre sto per raccogliere tutta l’attrezzatura per incamminarmi in quella direzione, arriva uno degli autisti di un altro gruppetto (siamo circa una quindicina di persone sulla sommità) che li richiama indietro a gran voce, sostenendo che è molto pericoloso andare in quella direzione. Rinuncio così al trasferimento, ma mia moglie, al ritorno, mi dice che da quel lato la vista è stupenda perché la seconda bocca si vede molto bene. Da dove ci troviamo, invece, vediamo solo il bordo della prima, e qualche lapillo di lava della seconda quando si verificano le esplosioni. A quanto sembra però l’autista sembra irremovibile e non ci lascia allontanare. Pazienza, lo spettacolo è bellissimo lo stesso! Man mano che si fa notte, le eruzioni diventano ancora più suggestive perché risalta la luce infuocata della lava. Restiamo rapiti dallo spettacolo fino alle 19.30, che arrivano in un lampo, e a malincuore torniamo verso la jeep. Abbiamo già deciso che torneremo anche domani.
Arriviamo in albergo dopo le 22.30: ci hanno aspettato per la cena, siamo da soli in albergo. Rimandiamo dunque la doccia a dopo cena, anche se siamo letteralmente ricoperti di polvere, oltre che stanchissimi.

Domenica 25 settembre
Anche oggi si prospetta una giornata piena e faticosa. Per fortuna non c’è fretta al mattino, siamo d’accordo di partire per le 9.00. In realtà noi alle 9.00 siamo già pronti, ma dobbiamo fare i conti con la scarsissima organizzazione dei locali. Prima non c’è l’auto, poi non c’è l’autista, poi manca il pane per prepararci i sandwich che ci porteremo dietro, poi non sanno decidersi: alla fine si parte alle 10 con l’auto che era già lì alle 9, l’autista che era già lì alle 9, i panini che erano già pronti da un pezzo e con la certezza di aver perso un’ora solo per l’inconcludenza del nostro accompagnatore. Ma lui non si agita troppo e cerchiamo di farlo anche noi, non siamo forse nel Paese più felice del mondo´
Il ritardo non ci comporta comunque gravi disagi, perché quando arriviamo al villaggio del mattino precedente, scopriamo che c’è ancora molta gente che sta preparandosi per andare alla festa.
Scopriamo così che la festa non è al villaggio visitato ieri, ma in un altro che si raggiunge con 45 minuti di cammino. Lasciamo dunque l’auto e ci incamminiamo dietro ai locali, seguendo un sentiero che prima scende verso il fiume, lo attraversa e poi risale un’altra collina. L’umidità è opprimente e la camminata ci costa una bella sudata! In compenso la foresta che percorriamo è lussureggiante e quando sbuchiamo su una ampia piana che precede il villaggio, siamo consci del fatto che questo luogo è raggiungibile solo in questo modo! Non esistono neppure muli, quindi ogni cosa viene portata a spalla fino a qui.
Attraversando il prato erboso, ci imbattiamo già nelle prime donne che vestono costumi colorati e hanno la faccia dipinta di colori naturali. Ci guardano con curiosità, dispensando sorrisi e risolini neppure tanto trattenuti quando notano il nostro interesse nei loro confronti.
I bambini sono numerosissimi, ma, contrariamente a quanto ci aspettavamo, non ci vengono intorno: se ne stanno buoni vicino alle loro mamme e ai loro parenti limitandosi ad osservarci. Si vede che non sono abituati a turisti dispensatori di denaro e caramelle, dunque non c’è neppure una parvenza di “caccia al ricco bianco”. Inutile dire che la cosa ci fa molto piacere, e stiamo ben attenti a ripagare i sorrisi e ringraziamenti quando li fotografiamo (loro che ringraziano noi!) con altrettanti gesti di ringraziamento e cortesia. I preparativi per la festa proseguono lentamente: per ogni ragazzino circonciso si prepara un cumulo dove vengono disposte cibarie, frasche, legna, stoffe. Nel frattempo si sentono provenire dalla foresta dietro al villaggio suoni di conchiglie: I ragazzi ci soffiano dentro, per avvisare le giovani del villaggio che anche loro stanno entrando nel mondo degli adulti. Tuttavia, secondo le loro tradizioni, i ragazzi non potranno ancora prendere una sposa fino a quando non saranno in grado di mantenerla, assicurandole un tetto sulla testa (e fin qui ci vuol poco, vista la consistenza delle loro capanne) ma soprattutto una adeguata fonte di sostentamento, costituita da un certo numero di animali, soprattutto maiali. Il maiale è il metro di misura della ricchezza di un uomo, l’equivalente del nostro denaro. Ecco perché nelle feste come queste se ne uccidono molti, la carne di maiale viene mangiata nelle ricorrenze più importanti, mentre è la carne di pollo ad essere consumata tutti i giorni.
Un uomo ricco è un uomo che possiede molti maiali e dunque solo un certo numero di maiali costituisce la garanzia di poter metter su famiglia!
Nell’attesa mia moglie si fa dipingere la faccia da alcune donne che si divertono a vederla diventare parte della loro festa. Io invece mi avventuro verso la zona proibita a tutte le donne, dove ci sono i ragazzi che suonano le conchiglie. Lì trovo l’unico bianco presente oltre a noi, che mi dice essere un fotografo residente a Port Vila. Sta preparando un servizio sulla festa, non capisco bene per quale rivista. Chissà, forse un giorno vedrò le sue foto in qualche rivista che parla di Vanuatu…
Passiamo alcune ore tra la gente indaffarata, assistendo anche purtroppo al violento spettacolo dell’uccisione di alcuni maiali, ma anche ad alcune cerimonie tradizionali come il ringraziamento delle coppie che hanno cresciuto i bambini. Ci spiegano infatti che i bambini vengono di solito affidati dai genitori ad una coppia di persone più anziane che ne curano l’educazione fino al raggiungimento dell’età della circoncisione ( o del matrimonio nel caso delle femmine): una sorta di insegnanti che accompagnano i ragazzi nell’ apprendimento delle tradizioni e del sapere della tribù.
Lasciamo il villaggio poco dopo l’introduzione nello spiazzo principale dei ragazzi che subiranno la circoncisione, operazione che verrà fatta da lì a poco “privatamente”. A quel punto i ragazzi spariranno dalla festa che continuerà per tutti gli altri fino al mattino seguente con balli e canti.
Noi invece dobbiamo accomiatarci da loro perché ci aspetta un’altra puntata del vulcano. Ce ne andiamo poco dopo le 14.00, affrettandoci verso il sentiero che ci porta all’auto. Si torna rapidamente indietro e, dopo aver cambiato l’auto (non sappiamo bene il perché) ripartiamo verso il vulcano.
Stavolta abbiamo ripreso la jeep risalente al triassico, la più vecchia, la più scalcagnata e la più polverosa che io abbia mai visto. C’è solo un posto in fianco all’autista e lo lascio a mia moglie accomodandomi nel cassone insieme alla nostra guida. Dopo pochi chilometri incrociamo tre ragazze per la strada (a dire il vero incrociamo in continuazione gente, ma appare chiaro che la guida conosce bene le tre ragazzine, di circa 14-15 anni): una rapida conversazione e le ragazzine salgono sul cassone con noi: la guida mi informa che vengono al vulcano con noi.
A me e mia moglie viene un po’ da sorridere davanti a questa disarmante decisione: come il giorno precedente, noi paghiamo tutto e lui decide chi portare con sé senza chiederci nessun parere. E’ ovvio che lo fa in buona fede, dato che i mezzi di trasporto lì sono talmente rari e preziosi che secondo la loro mentalità è uno spreco che viaggino semivuoti… D’altra parte è palese che lui non ci guadagna nulla, ma sta dando uno strappo alle ragazzine semplicemente per portarle a vedere il vulcano. Dunque non vogliamo certo rompere le uova nel paniere e ci stringiamo per far posto all’ entusiasta terzetto che ci dice che per loro è la prima volta al vulcano. Comunicare con i locali che vivono lungo la costa non è un grosso problema, perché tutti vanno a scuola ed imparano l’inglese: sono solo coloro che vivono secondo le ancestrali tradizioni, soprattutto nelle zone interne, come il villaggio visitato oggi, che non hanno accesso all’istruzione e dunque, nella maggior parte dei casi, non parlano bene l’inglese.
Certamente non possiamo far a meno di pensare ancora una volta quanto sia sorprendente questo mondo, così lontano da noi: tre ragazzine che stavano tornando a casa, vengono caricate su un furgone e spariscono senza dire niente a nessuno. Rientreranno al loro villaggio in piena notte, eppure non si preoccupano: immaginiamo che le loro famiglie possano pensare che prima o poi rientreranno, senza chiedersi il perché di questo ritardo! Proprio come da noi…
Dunque procediamo il nostro viaggio e mi accorgo ben presto che il cassone della jeep è avvolta in una nuvola di polvere perenne, come la nuvoletta che segue imperterrita il ragionier Fantozzi. Fortunatamente l’apparecchiatura fotografica è ben protetta, ma noi ci facciamo una doccia di polvere lunga due ore. Ma ne vale la pena, eccome. Stavolta siamo partiti un’ora più tardi ed arriviamo al vulcano che è già quasi buio. Risalendo dal parcheggio capiamo cosa ci facevano i paletti di legno che abbiamo visto ieri: oggi hanno costruito dei rudimentali gradini di cemento per superare i primi 50 metri di salita più ripida: sull’ultimo gradino ci hanno pure scritto la data di oggi, dunque siamo i primi visitatori a percorrerli! Prestiamo comunque poca attenzione alla cosa e ci fiondiamo verso la bocca del cratere. Dietro di noi arrivano subito un gruppo di francesi e alcun statunitensi. I francesi si allontanano subito verso la zona dove è andata anche mia moglie il giorno prima: il nostro accompagnatore non dice nulla e chiediamo se possiamo andare anche noi. Lui ci risponde che lo facciamo a nostro rischio e pericolo, ma fondamentalmente non ce lo proibisce. Dunque ci incamminiamo anche noi, fino a raggiungere il posto da dove effettivamente lo spettacolo è davvero stupefacente. Da lì dominiamo entrambe le bocche, e nella seconda, più piccola, vediamo addirittura la lava ribollire anche nei momenti di relativa calma. Le esplosioni con fontane di lava sono questa sera più frequenti (circa ogni minuti alternativamente dalle due bocche), il vulcano è molto più nervoso. Un paio di esplosioni ci mettono addosso un po’ di irrequietezza, la lava ricade sempre ad un centinaio di metri, dunque a distanza di sicurezza, ma siamo consci del fatto che anche una sola pietruzza incandescente potrebbe essere fatale.
Anche questo, come tutti i vulcani di Vanuatu, fanno parte della famigerata cintura di fuoco del Pacifico, la zona più irrequieta della Terra: è una frattura che si estende per oltre 40.000 chilometri (l’equivalente dell’intera circonferenza della terra misurata sul suo punto più largo, l’equatore) che parte dalle coste del Cile, risale tutto il continente americano a ridosso della costa ovest (la famosa faglia di Sant’Andrea Californiana ne fa parte), “gira” verso l’Asia e la ridiscende lungo la costa est, toccando, tra gli altri, il Giappone, l’Indonesia, appunto Vanuatu, per terminare in Nuova Zelanda. E’ dunque una specie di cerchio aperto da un lato e corre lungo la zona dove la faglia continentale si scontra e si sovrappone a quella oceanica. Queste spaventose pressioni generano quasi il 90% di tutti i terremoti che si registrano sulla terra e spesso le faglie si “aprono” per lasciar spazio al magma bollente che risale dalle viscere della terra. L’attività di questi vulcani è quasi sempre esplosiva, dunque estremamente pericolosa, anche se non mancano eccezioni come per esempio alle Hawaii (anche lì si riesce ad avvicinarsi quasi sempre alla lava) e qui allo Yasur. Probabilmente ciò è dato dal fatto che l’attività continua del cratere, sfoga in maniera continua la “rabbia” delle viscere della terra. Tuttavia anche questi vulcani vengono continuamente monitorati, perché i geologi sanno che potrebbero cambiare tipo di attività da un momento all’altro: se succede è meglio scappare a gambe levate!
Oltre allo Yasur ci sono altri 8 vulcani attivi a Vanuatu, di cui due sottomarini: dunque l’attività da queste parti è intensa e molto frequenti sono i terremoti, che provocano raramente vittime solo perché la maggior parte della popolazione vive in capanne di paglia.
Ci allontaniamo da quello che è senza dubbio il più spettacolare vulcano di Vanuatu (e uno dei più spettacolari al mondo) poco prima delle 8.00 di sera: se fosse per noi staremmo qui tutta la notte, rapiti da questo spettacolo primordiale che non ci stancherebbe mai, ma l’autista ci dice che dobbiamo andare, anche perché tra l’altro non è consentito passare la notte qui. Questa seconda serata è stata molto più soddisfacente della prima perché ci siamo allontanati dalla zona dove si soffermano quasi tutti i visitatori e siamo rimasti in santa pace. In realtà i visitatori erano pochi sia ieri che stasera (circa una ventina entrambe le sere), ma ci sono sempre nel mezzo persone che, anziché godersi in silenzio lo spettacolo della natura, dopo i primi 5 minuti, cominciano tranquillamente a chiacchierare, spesso ad alta voce, e per un appassionato di natura non è davvero il massimo ascoltare il rumore del vento, della lava ribollente, coperto dai racconti di chi parla della vacanza precedente, del giorno precedente, del lavoro che ha lasciato a casa…. La prima sera avevamo addirittura a fianco una americana che ogni volta che il vulcano si esibiva in una esplosione un po’ più forte, cominciava ad urlare e a dimenare le braccia come fosse allo stadio. Una scena a dire il vero penosa. Dopo due minuti ci siamo spostati ma purtroppo le sue urla ci raggiungevano ovunque!
Dunque felici per questa seconda serata molto più tranquilla affrontiamo il ritorno nel buio della notte e tra una nuvola di polvere. L’autista ha avuto la brillante idea di sollevare il telo del cassone per ripararci dall’aria pungente della sera, ma questo ha contribuito a formare una cortina fumogena all’interno: arriviamo due ore dopo al villaggio delle tre ragazze letteralmente imbiancati di polvere: su mio consiglio, rimettiamo il telone a posto e facciamo la nostra ultima mezz’ora di viaggio almeno respirando un po’ di aria più fresca.
Arriviamo quasi alle 23.00 ceniamo rapidamente (per inciso il cibo in questo lodge non è il massimo) e ci precipitiamo a farci una doccia. E’ stata forse la nostra giornata più intensa a Vanuatu, siamo stanchissimi.

Lunedì 26 settembre
La giornata di oggi è una giornata di trasferimento. Ci alziamo e facciamo colazione con calma perché abbiamo l’aereo che ci riporterà a Port Vila alle 11.00. Il volo dura circa un’ora e arriviamo in perfetto orario all’isola di Efate. Da qui, abbiamo un altro volo alle 16.30 che ci porterà all’isola di Espiritu Santo. Abbiamo dunque oltre tre ore a disposizione e, visto che l’aeroporto è a non più di 15 minuti di taxi collettivo dalla cittadina, ne approfittiamo per andare a pranzo nel nostro ristorante preferito, lasciando la valigia al deposito bagagli.
A Port Vila trovare un taxi collettivo è molto semplice, anche perché il 90% del traffico è proprio costituito da questi pulmini privati a 6/8 posti. Passano in continuazione, basta far loro un cenno e si fermano: si dice dove si intende andare e si viene portati lì indipendentemente dall’ordine in cui si è saliti: se la destinazione è sulla strada decisa dal conducente si può salire per ultimi e scender per primi. Per la verità Port Vila ha uno sviluppo rettilineo per cui il trasporto è sempre semplice e lineare. In questi taxi si paga una tariffa fissa di 150 Vatu (poco più di un euro) per tutta l’area urbana, aeroporto compreso.
Al “the Port” ci riconciliamo con il cibo locale concedendoci due belle insalate di pesce e quindi torniamo all’aerostazione. Il nostro volo verso nord, l’isola di Espiritu santo, parte puntuale alle 16.30 e arriva altrettanto puntuale alle 17.30. Anche da qui prendiamo un taxi e ci facciamo portare in città (la principale città si chiama Louganville) presso l’hotel dove abbiamo affittato un’auto. Tutto fila liscio e verso le 18 .30 siamo sulla strada che ci porta verso nord. E’ già buio, sbagliamo un incrocio e ci ritroviamo su di una strada sterrata che, stando alla cartina, ci porterà lo stesso verso nord, ma ci fa allungare la strada di almeno 5-6 chilometri. Facciamo buon viso a cattiva sorte e proseguiamo su quella strada. Il fondo è molto sconnesso, ma dopo una decina di chilometri incrociamo la strada che avremmo dovuto prendere da Louganville e ci accorgiamo con grande sorpresa che è perfettamente asfaltata. La guida lonely planet, vecchia di alcuni anni, diceva che era sterrata. Meglio così. In un’ora circa arriviamo finalmente in una località chiamata Turtle bay, a circa 30 chilometri da Louganville, e circa un terzo della costa est di Espiritu Santo.
Il Turtle Bay Lodge, scelto e prenotato via Internet, è costruito a pochi metri dalla spiaggia. Ci accoglie il proprietario, di origine Inglese, e apprendiamo con piacere che il ristorante è aperto e la nostra camera si trova in una costruzione isolata (dove ci sono 4 camere) a non più di 20 metri dal mare.
Ceniamo all’aperto, nella semplice terrazza del ristorante, con il rumore del mare che ci fa compagnia.
Cibo ottimo, posto delizioso.

Martedì 27 settembre
La luce del sole ci da modo di apprezzare ancora di più il luogo. Il mare davanti a noi è parzialmente coperto da una riga di alberi ad alto fusto: di fatto non c’è spiaggia, perché gli alberi sono praticamente sulla battigia e sono separati dall’acqua da un piccolo gradino di roccia corallina. Tutt’intorno un giardino ben tenuto e una piccola piscina ci separano dal corpo principale del lodge che ospita il ristorante. Notiamo che su una piccola sporgenza rocciosa che da direttamente sul mare è ricavata un’altra terrazzina con alcuni tavoli, un posto assolutamente invitante per fare colazione. Così, questa mattina, come quelle a venire, faremo colazione con il mare sotto di noi e l’ampia vista sull’isolotto di fronte, con una bella spiaggia e densissima vegetazione (privato, raggiungibile in canoa con l’alta marea, a piedi con la bassa marea).
Lasciamo il lodge verso le 9.30, con l’auto presa a noleggio, verso nord: oggi vogliamo esplorare tutta la costa ovest dell’isola. L’automobile che ci hanno dato è un vero catorcio: ha soli 35.000 chilometri, ma ne dimostra 200.000 in più! Non ci meravigliamo, perché scopriamo subito che è cinese, una Xiali Hatchback. Metà delle plastiche interne sono rotte o traballanti, ma fortunatamente non dobbiamo poi fare molta strada, dunque visto che il motore sembra andare bene ci accontentiamo anche di questo macinino.
La strada che continua verso nord è tutta asfaltata: un vero sollievo, vista tutta la polvere che abbiamo mangiato a Tanna! A differenza delle altre due isole, qui notiamo subito che è molto più sviluppato l’allevamento. I meravigliosi campi di palma da cocco che fiancheggiano quasi sempre la strada sono punteggiati di bovini al pascolo. Il contrasto è davvero insolito per noi: siamo abituati a vedere associati i bovini ai prati, ai pascoli alpini, non certo alle palme da cocco! Benché le palme siano abbastanza comuni anche nelle altre isole, qui abbiamo la forte impressione che sia una vera e propria coltura intensiva: la foresta si alterna infatti molto spesso a varie aree ripulite dal sottobosco dove svettano altissime le palme. Sotto, quasi sempre, bovini al pascolo tengono l’erba rasata!
La nostra prima meta è una spiaggia con un nome che è tutto un programma: Champagne beach! La spiaggia ha la fama di essere tra le più belle di Vanuatu e, quando sbuchiamo dalla strada che passa sotto l’ennesimo “coccheto” capiamo il perché. Disposta a mezzaluna come le spiagge da cartolina, la striscia di sabbia finissima e bianca si getta tra le braccia di una lussureggiante foresta dalla parte opposta a quella da cui siamo arrivati noi, e le palme da cocco dalla nostra parte. Un vero paradiso! Il panorama è solo deturpato da una brutta struttura in cemento da un lato: sembra una specie di passerella, peraltro molto corta, non più di 10 metri: probabilmente una costruzione che risale alla seconda guerra mondiale. Appena arriviamo in spiaggia si avvicina il solito locale a riscuotere la tariffa di ingresso: tutti i terreni di Vanuatu sono di proprietà privata (anche se esistono delle regole un po’ bizzarre che ne regolano la proprietà, ne parlerò più avanti), dunque spesso in luoghi come questi si deve pagare una tariffa di ingresso. Non esiste nessuna struttura recettiva, dunque decidiamo di stendere i nostri teli spiaggia sul prato, a pochi metri dalla spiaggia e ci godiamo per tutta la mattinata il sole, il mare, il luogo ameno. Assieme a noi, un gruppo di 7 giovani australiani dall’altro lato della spiaggia (lunga circa 3-400 metri) e una famigliola di cinesi/americani.
Verso le 14.00 la fame comincia a farsi sentire. Visto che qui non c’è assolutamente nulla, decidiamo di tornare indietro di un paio di chilometri: percorrendo la corta deviazione dalla strada principale per arrivare qui, abbiamo notato che in corrispondenza di un’altra spiaggia famosa quanto questa c’è un piccolo lodge con ristorante. Dunque prendiamo il nostro bolide cinese e torniamo indietro.
Il lodge è alla Lonnoc beach, una spiaggia che si rivela essere la fotocopia della champagne beach, con la sola apparente differenza di avere un piccolo lodge e ristorante più o meno al centro. Il ristorante è all’aperto, con vista sul mare e non potremo chiedere di meglio. Sensazione confermata quando scopriamo che nello scarno menu c’è anche il favoloso coconut crab che già abbiamo avuto modo di assaggiare a Port Vila. Ne ordiniamo subito uno per due (prezzo 40 Euro per due): ci viene servito con la salsa al cocco e anche questo si rivela una vera delizia per il palato. Con la “panza” piena da far paura, non ci resta altro da fare che raggiungere con somma fatica la spiaggia distante ben 10 metri e distenderci per affrontare tutto il pomeriggio annegando nell’ozio assoluto. Una vita da cani.
Così in un attimo arrivano le 17.00 e, considerando che alle 18.00 da queste parti cala l’oscurità, riprendiamo a malincuore la nostra piccola scatola di sardine a quattroruote e torniamo al lodge, distante circa 45 minuti di strada.
La serata prevede un simpatico diversivo: Matt, il proprietario del lodge, si esibisce ogni mercoledì in uno spettacolo circense: scopriremo infatti che per 20 anni ha lavorato al Cirque de Soleil, il più grande circo del mondo e ora si tiene in allenamento non solo esibendosi per i suoi ospiti ogni mercoledì, ma anche impartendo lezioni di circo a chi lo volesse, nel piccolo tendone che ha allestito ai margini del lodge. Un posto davvero insolito per vedere un tendone da circo. Lo spettacolo è comunque divertente e il folto pubblico (siamo 17 ospiti nel lodge) sembra apprezzarlo! Non capita spesso di avere un proprietario che si esibisce personalmente per divertire gli ospiti.

Giovedì 28 settembre
Dopo la nostra solita colazione in riva al mare, approfittiamo della bassa marea per andare a cercare tra i coralli granchi e altre forme di vita: troveremo una bellissima stella marina di colore blu, ma non sarà questa la cosa più interessante della nostra passeggiata: vedendoci passeggiare tra i coralli e le pozze d’acqua create dalla bassa marea, Nuka e sua figlia Lola si materializzano improvvisamente dietro di noi. Apparentemente ci ignorano, ma in realtà sappiamo benissimo che sono venute proprio perché hanno visto noi girare per le pozze. Matt ci ha detto che Nuka è un formidabile cane pescatore, nel senso che riesce a volte a catturare dei pesci correndo per le pozze. Infatti, dopo pochi secondi la vediamo sfrecciare tra le pozze d’acqua, seguita dalla figlia Lola che però si rivela essere solo un inutile intralcio alla madre. Sapendo cosa sta tentando di fare, la seguiamo interessati: vederla seguire i pesci ha dell’incredibile perché è davvero difficile immaginare che possa afferrare con la bocca uno dei pesci che sembrano delle saette mentre cercano di sfuggirle… eppure, dopo 10 minuti di tentativi andati a vuoto ce la fa! Cattura proprio un pesce irto di spine e si ferisce pure la zampa nel tentativo di tenerlo fermo a terra. Mentre si lecca la zampa ferita, Lola si impossessa della preda e se ne va. Le ritroveremo poco dopo a riva, intente a spartirsi il pesce, adottando una tattica tutta particolare per riuscire a mangiare la carne, tralasciando le spine.
Dopo questo divertente diversivo (non so se riusciremo mai più a vedere un cane “pescatore”), partiamo di nuovo verso nord, questa volta decisi ad arrivare fino alla fine della strada, almeno nel pomeriggio. Abbiamo eletto infatti la spiaggia di Lonnoc come nostra spiaggia preferita (la preferiamo alla Champagne beach) e decidiamo di passare lì la mattinata, prenotando al piccolo ristorante di nuovo il coconut crab per pranzo. Essendo di fatto anche ospiti al ristorante non ci fanno neppure pagare la tariffa di ingresso, il che non guasta! Mentre mia moglie si da alla lettura, io ne approfitto per esplorare tutta la spiaggia, lunga circa 300 metri e scopro che anche qui ci sono gli immancabili segni della seconda guerra mondiale: al riparo di un paio di alberi alla estrema destra della spiaggia, ci sono le basi di cemento di quelli che dovevano essere due cannoncini contraerei, semisepolti dalla sabbia. Proprio mentre osservo i residuati bellici si avvicina una giovane ragazza neozelandese che mi chiede da dove provengo: dopo i soliti convenevoli sulla bellezza dell’Italia e sul fatto che visitarla è uno dei suoi sogni, scopro che la ragazza è una laureanda in economia che sta facendo uno stage a Vanuatu per insegnare agli imprenditori locali come gestire al meglio le loro risorse. Lei è stata assegnata proprio al ristorante che si trova qui sulla spiaggia (con annessi alcuni bungalow per gli ospiti). Le chiedo come sono i bungalow e lei mi risponde con un sorriso e un’alzata di spalle. C’è ancora molto da lavorare, mi dice!
Anche oggi, come ieri, non c’è nessun altro in spiaggia e a quanto pare alcuni ospiti arrivano solo per pranzare, per poi andarsene a terminare le loro visite. Forti del fatto che ci siamo fatti vedere per la seconda volta consecutiva e che abbiamo conosciuto la giovane neozelandese che li aiuta, i gestori della spiaggia sembrano prenderci in simpatia e ci offrono di farci vedere dove tengono i granchi del cocco. Non ce lo facciamo ripetere due volte e li seguiamo in una capanna dove ci sono due lunghe casse di legno. Sollevato il coperchio, ci fanno vedere dei piccoli scomparti dove ci sono almeno una decina di grossi granchi, tutti con le chele anteriori libere. Sappiamo che le chele sono un’arma pericolosissima (potrebbero tranciare il dito ad un uomo) e chiediamo perché non le legano. Ci rispondono con naturalezza che non ce n’è bisogno, perché loro sanno come prenderli per evitare il pericolo (ecco perché nella cassa ci sono scomparti singoli, per evitare che quando si affonda la mano per prenderne uno l’altro non possa fare danni alle mani). Il marito della cuoca ne estrae uno e ce lo fa vedere. E’ enorme. Stiamo bene alla larga ed evitiamo di avvicinarci alle poderose chele. Ci racconta come fanno a catturarli: vanno di notte all’isola di fronte, dove ce ne sono a centinaia e mettono un cocco spezzato per terra, per attirarli. In una sola notte ne possono catturare a decine. Ci conferma che il coconut crab è specie protetta in alcune zone, ma ci dice anche che in quella zona ce ne sono talmente tanti che la loro cattura è consentita. Assistiamo alla distribuzione del cibo: polvere di cocco in quantità che viene gettata da una fessura superiore della cassa. Non possiamo certamente fare a meno di pensare che i poveri granchi non si stanno certamente divertendo all’interno della cassa, anche se fortunatamente il ristorante lavora sufficientemente per limitare la loro permanenza a non più di un paio di giorni. La loro sorte è segnata, dunque una breve permanenza in quella cassa angusta è perlomeno certamente auspicabile!
Dopo pranzo riprendiamo la nostra strada verso nord, vogliamo arrivare fino alla fine della strada e alla cittadina di Port Orly, all’estremo nord dell’isola. Lì finisce la strada. Port Orly non è niente di speciale, è poco più di un villaggio con una scuola e una piccola banca, sono invece molto belle le spiagge che la circondano.
Continuano invece i nostri incontri con i locali, ci fermiamo spesso lungo la strada per fotografare e chiacchierare e così il viaggio di ritorno diventa più lungo e interessante!.

Venerdì 29 settembre
Una delle attrazioni di Espiritu Santo sono sembra dubbio le Blue Holes. Queste pozze altro non sono che delle profondissime risorgive di acqua dolce, profonde fino a 18/20 metri, che, a causa della loro profondità e della limpidezza dell’acqua, nelle giornate di sole assumono una colorazione blu intensa. Ad Espiritu Santo ce ne sono molte e noi ne visitiamo un paio a caso: vederle è bellissimo, ma fotografarle è molto difficile perché sono sempre circondate da una folta vegetazione che si riflette sull’acqua. Anche aiutandosi con appositi filtri antiriflesso, il riflesso è così forte e marcato che la lente finisce sempre per attenuare il meraviglioso colore blu delle pozze e ritrarre in parte la vegetazione che si specchia nell’acqua.
Si può tranquillamente nuotare all’interno delle blue holes, ma va anche detto che molto spesso sono la dimora di milioni di agguerritissime zanzare per cui, dopo la seconda visita, snche se ci siamo letteralmente cosparsi di Autan, decidiamo che può bastare! Spettacolo straordinario, ma inquiline decisamente troppo ben disposte a farci pagare il pedaggio per dividerlo con noi umani!
Dopo la visita ai blue holes decidiamo oggi di guidare verso sud, passando per la capitale e oltrepassandola: la strada costeggia molto spesso delle piantagioni di cocco, quasi sempre popolate da mandrie di bovini. La sera precedente abbiamo avuto modo di parlare con il gestore del lodge il quale ci ha spiegato perché il simbolo della ricchezza tra i locali sono i maiali e non i bovini: in realtà i bovini sono tutti di proprietà di stranieri, per la maggior parte coreani e cinesi.
A Vanuatu ufficialmente gli stranieri non possono avere proprietà, anche se la maggior parte dei terreni coltivati sono nelle loro mani. Ciò è possibile perché è consentito stipulare una forma di leasing per un periodo di 85 anni (equivalente alla vita di un palma da cocco) al termine del quale il terreno torna nelle mani del legittimo proprietario. Singolare però che la più grande difficoltà da parte dell’investitore straniero sia individuare il proprietario del terreno. A Vanuatu, infatti, benchè tutte le terre abbiano un legittimo proprietario (lo dimostra il fatto che bisogna spesso pagare per avere accesso alle spiagge) non è consentita la compravendita dei terreni. Ogni terreno viene acquisito per eredità o per matrimonio, ragione per cui molto spesso bisogna scavare a fondo e interpellare i capi tribù per capire a chi appartenga un dato terreno, dato che non esiste un catasto come lo intendiamo noi. I capi tribù, aiutati dagli anziani del villaggio, sono una vera e propria mappa vivente della suddivisione degli appezzamenti e solo loro spesso sanno risalire al proprietario (che spesso e volentieri della terra non se ne fa nulla!). Quando un investitore riesce a risalire al proprietario, può stipulare questa forma di leasing, regolata ovviamente dalle autorità governative. Dunque praticamente quasi tutte le piantagioni di cocco e le mandrie che vediamo sono gestite da stranieri che però non ne sono i proprietari.
Lungo la strada, ci fermiamo anche a vedere delle singolari costruzioni dalle quali vediamo uscire del fumo: non siamo riusciti a capire nei giorni precedenti a cosa servissero, dunque ricorriamo al sistema migliore per capirlo, ovvero fermarsi quando ne vediamo una presidiata dai locali. Per l’ennesima volta veniamo accolti con il sorriso e la piena disponibilità a svelarci l’arcano: alla base della costruzione ci fanno vedere dei bidoni privati di entrambi i fondi e disposti orizzontalmente. I bidoni sono riempiti di legna che sta bruciando lentamente e il calore e i fumi caldi vengono convogliati al piano superiore dove ci viene mostrato una sorta di graticcio riempito di cocco fresco: nel giro di uno o due giorni quintali di cocco vengono essiccati per poi essere venduti per farne olio di cocco o polvere di cocco (tipo quella che compriamo nei nostri supermercati). Assaggiamo il cocco che, devo dire, non è gustoso come quello fresco e ancora pregno d’acqua. Neanche a farlo apposta, alla costruzione successiva, vediamo arrivare un pick-up pieno di sacchi: la curiosità ha il sopravvento e ci fermiamo di nuovo ad osservare e chiacchierare con gli operai. Mentre svuotano i sacchi sul graticcio ci spiegano che ogni sacco pesa circa 80 kili (sono in due a scaricarli!) e in un graticcio medio ci stanno 5-7 quintali di cocco. Il prezzo del cocco fresco è di 34.000 vatu alla tonnellata, ovvero 25/30 centesimi di euro al chilogrammo!
Dopo diverse soste arriviamo alla capitale Louganville, che non ha davvero niente di attraente. Una piccola deviazione ci porta al million dollar point, un punto molto amato dagli appassionati di immersioni, perché proprio in quel punto i militari americani, alla fine della guerra, gettarono attrezzatura per milioni di dollari a mare: jeep, bulldozer, armi inutilizzabili, addirittura casse di coca cola intere! Ora il luogo è diventato un paradiso per le immersioni. Noi passiamo la mano, preferiamo di gran lunga i coralli! Oltrepassiamo la capitale e guidiamo per alcuni chilometri verso la costa opposta a dove siamo alloggiati noi: dopo una prima parte piuttosto brutta, con la zona industriale di Louganville, la natura si impossessa nuovamente dell’isola e si susseguono piccole spiagge molto belle, anche se quelle sul versante opposto continuano a restare le nostre preferite!
Visto che è il nostro ultimo giorno a Espiritu santo, la sera decidiamo di partecipare ad uno dei riti tradizionali dei locali, ovvero la degustazione del Kava. La bevanda tipica di Vanuatu, a dispetto del nome vagamente somigliante e del fatto che si coltivi nelle isole anche il caffè (per esportazione) non ha niente a che vedere con il nostro caffè. E’ una bevanda ottenuta dalla radice di una pianta con effetti lievemente simili a quelli di altre radici allucinogene. Se consumato in grandi quantità da una sensazione di stordimento ed euforia. Affrontare il Kava per noi occidentali non è cosa semplice. Le capanne definite Kava-bar, solitamente lungo le strade, sono contrassegnate da una lampada ad olio che ne illumina l’ingresso. Accompagnati da Matt, che si dimostra davvero una persona disponibilissima e una fonte di informazioni inesauribile, ne raggiungiamo uno a caso ed entriamo nella piccola e semplice capanna che è il bar.
La bevanda viene di solito preparata in un secchio e servita su un guscio di noce di cocco. A parte l’aspetto igienico, che certamente non è confortante, sappiamo che tradizionalmente le radici venivano ammorbidite per poterne estrarre il succo dai bambini, i quali le masticavano e le sputavano sul secchio dove veniva aggiunta l’acqua. Ora, ci dicono, vengono usati i frullatori, ma ci riesce difficile immaginare che in villaggi dove non vediamo nessuna lampada ad elettricità ci sia la corrente per i frullatori. Rinunciamo comunque ad indagare più a fondo, anche perché non vediamo in giro nulla che funzioni ad elettricità, tanto meno un frullatore. Matt ci dice che la tradizione vuole che venga trangugiato in un sol sorso. Non è difficile perché il sapore è talmente disgustoso al nostro palato che berlo in un sol colpo è la cosa migliore da farsi! Un australiano che è con noi la definisce sciacquatura dei piatti, a me sembra inchiostro allungato. Fatto sta che se ne percepisce immediatamente l’azione vagamente anestetica, perché appena bevuto si sentono le gengive come se fosse appena stata praticata una anestesia dal dentista. La sensazione dura solo pochi secondi eppure è decisamente curiosa. Rifiuto comunque il secondo giro, immaginando catastrofiche conseguenze di stomaco per il giorno dopo (già mi vedo assiso nel bianco trono del bagno), ma per l’ennesima volta i fatti mi dimostreranno che bere liquidi a Vanuatu non è assolutamente un problema… o forse il Kava ha stordito tutta la carica batterica del nostro stomaco, buoni o cattivi che fossero!
Il Kava bar è comunque una istituzione per i locali e funziona proprio come un qualsiasi bar da noi: è il punto di ritrovo, soprattutto alla sera, dei locali che indugiano per fare due chiacchiere e bere in compagnia prima di andare a dormire. Va però detto che in questi bar, non c’è assolutamente niente altro da consumare a parte il Kava. La serata comunque si rivela interessante non solo per l’atmosfera rilassante, ma anche per le informazioni spicciole che ci fornisce Matt: ci racconta per esempio che la sua più grossa difficoltà è nel reperire la manodopera per il lodge. Vanuatu ha picchi di disoccupazione che toccano il 70% in alcune isole, non perché non ci sia il lavoro, ma semplicemente perché la gente non vuole lavorare! Le isole sono fertilissime, e i locali si accontentano fondamentalmente dei prodotti della terra, del poco allevamento che praticano e della pesca. Non hanno grandi pretese e a questa affermazione abbiamo già avuto modo di trovare conferma nei giorni passati: a parte il telefonino, che sembra essere l’unica vera concessione alla modernità, quasi nessuno sfoggia begli abiti o automobili o altro. La loro mentalità, ci conferma Matt, non è legata né al consumismo, né al risparmio o all’accumulo di denaro. Ci dice che è molto comune che qualcuno gli chieda lavoro solo per soddisfare dei bisogni immediati: se per esempio qualcuno desidera acquistarsi il telefono cellulare, lavora fino a quando racimola i soldi di cui ha bisogno, dopodiché se ne va!
Non stentiamo a credere che per lui sia difficile gestire il personale, in questo modo. Ma allo stesso tempo ci chiediamo se questo non sia la classica conferma del motto che il denaro non fa la felicità. E’ davvero difficile per un Occidentale, immaginare che in un Paese con il 70% di disoccupazione la soddisfazione per la propria esistenza sia così grande, soprattutto di questi tempi. Forse abbiamo sbagliato tutto, ma questa è un’altra storia!

Sabato 30 settembre
Arriva finalmente il giorno tanto atteso, quello del sorvolo sulle isole di Ambae ed Ambryn. Ci siamo tenuti in contatto con Peter, il pilota neozelandese grazie ad sms e telefonate quasi quotidiane, soprattutto per capire quali saranno le condizioni metereologiche della giornata.
Le previsioni erano buone e quel mattino la prima cosa che faccio appena sveglio è controllare il cielo dalla finestra. Ci alziamo alle 6.30 e il cielo, appena rischiarato, sembra essere sgombro da nuvole, ma sappiamo che non dobbiamo comunque illuderci, la nuvoletta fantozziana è sempre in agguato.
Partiamo alle 7.00 per andare a restituire l’auto: l’impiegata ci chiede come è andata e, visto che mi ha fornito l’assist, non me la sento proprio di dire che è andata bene, e le dico che è una delle peggiori auto che abbia mai affittato: è vero che non ci ha lasciato a piedi, ma non ci sembra giusto, dopo che ci viene data una scassatissima auto cinese ad un prezzo “europeo” lasciare pure credere che siamo contenti! A dire il vero, l’impiegata sorride come se non fosse sorpresa della risposta e replica che riferirà al proprietario, un cinese che abbiamo incrociato la sera in cui siamo arrivati: abbiamo la forte sensazione che non servirà a nulla!
Poco male, la nostra attenzione oggi è rivolta altrove! Con un taxi collettivo arriviamo all’aeroporto pochi minuti prima delle 8.00, facciamo colazione al minuscolo bar di quello che con molta generosità possiamo definire scalo aereo, e quindi contattiamo Peter. Dieci minuti dopo il nostro pilota viene a prenderci per portarci all’interno dell’aeroporto. Entriamo nella pista senza passare nessun controllo di sicurezza, come al solito. Per tutti i voli interni di Vanuatu il bagaglio a mano non ha mai subito nessunissimo controllo, decisamente una cosa alla quale non siamo assolutamente abituati. Peter ci da le indicazioni di sicurezza su come entrare e uscire dal suo minuscolo aereo (un idrovolante di soli 4 posti, per l’occasione “trasformato” in un normale aereo da pista).
Decolliamo per il nostro primo volo, su Ambae, poco prima delle 9.00. L’isola è relativamente vicina ed infatti in meno di mezz’ora siamo sopra a quella che è la nostra prima meta, il semisconosciuto lago vulcanico di Voui esattamente sulla sommità di un vulcano chiamato Lombenben, alto 1496 metri.
Il lago ha una storia recente decisamente movimentata: cratere attivo ricoperto di acque acide quasi a diretto contatto con la lava, ha subito nel 2006 una violentissima eruzione con la formazione proprio al centro di un ulteriore cratere che ha formato un’isoletta. In seguito, una parte del nuovo cratere è collassata e l’acqua sulfurea ha invaso il centro reimpossessandosi dell’area.
La caratteristica straordinariamente spettacolare di questo lago è certamente il colore dell’acqua che, al momento attuale è di un verde-azzurro che contrasta fortemente con il blu del vicino Lago Manaro. Quest’ultimo è un cratere spento, senza più alcuna attività, dunque l’acqua è di colore blu come un qualsiasi laghetto di montagna. Il contrasto tra il colore dell’acqua e la vegetazione del Manaro e le rive spelacchiate, con tronchi inceneriti e l’acqua verde-azzurra del Voui lascia letteralmente a bocca aperta: prima di venire personalmente ad esplorare la zona, abbiamo visto una foto di una decina di anni fa, quando per un breve periodo, a causa degli sconvolgimenti vulcanici subacquei, l’acqua era diventata per un breve periodo addirittura di colore viola! Ora non lo è più, ma la vista aerea della sommità del vulcano è comunque uno spettacolo che rimarrà per sempre impresso nelle nostre menti. Siamo fortunati, perché un paio di nuvolette non ci creano grossi problemi di visibilità, e Peter compie tre o quattro passaggi per farci godere pienamente lo spettacolo!
Dopo il sorvolo dei laghi torniamo a Louganville, per fare di nuovo il pieno del veivolo. La sosta dura solo una mezz’oretta e quindi decolliamo verso le 11.00 per fare rotta verso sud. Il cielo è limpido, ma sopra ad ognuna delle isole ci sono delle nubi bianche che minacciano la visibilità. Sorvoliamo la costa orientale di Malakula, la seconda isola in ordine di grandezza di Vanuatu, famosa per essere stata l’isola dei cannibali. Ancora oggi, ci racconta Peter, ci sono villaggi dove fanno bella mostra di sé, si fa per dire, teschi e ossa umane a decorare le capanne dei capi tribù.
Pieghiamo poi verso est, per incrociare l’isola di Ambrym, la nostra meta. Le nubi si vanno addensando sempre di più purtroppo, e quando arriviamo sulla verticale delle due caldere con la lava bollente, la visibilità è purtroppo ridotta. Sorvoliamo i crateri che riusciamo a vedere tra qualche squarcio che si apre tra le nubi, ma non riusciamo purtroppo a scorgere la lava in fondo alle caldere. Soprattutto la caldera chiamata Marum è quella che ci interessa di più, ma sappiamo che è lunga e stretta e per scorgere la lava occorre volare sopra quasi in verticale, cosa che non riesce. Mentre l’aereo sorvola in cerchio la zona, abbiamo però modo di apprezzare lo spettacolo dei fiumi di lava pietrificati che si sono aperti la via tra le foreste. Non ci sono dubbi che il trekking proposto da un vulcanologo che abbiamo trovato si Internet sarebbe senza dubbio indimenticabile: tuttavia noi abbiamo dovuto rinunciarci perché sarebbe durato una settimana e ci avrebbe rubato metà del tempo dedicato a questo splendido arcipelago che abbiamo comunque visitato solo in parte!
Ancora un paio di tentativi di aprirsi la via tra le nubi, ma non c’è nulla da fare. Dobbiamo purtroppo rinunciare allo spettacolo della lava bollente e proseguiamo verso Efate. Quest’ultimo volo dura quasi tre ore, e prima di arrivare sorvoliamo le isole di Epi ed Emae. Finalmente arriviamo in vista di Efate e, visto che ad Ambrym non siamo riusciti a vedere bene ciò che volevamo osservare, Peter ci regala un piccolo giro lungo la meravigliosa costa corallina di Efate: i colori del mare sono meravigliosi, come solo le barriere coralline sanno regalare. Atterriamo alle 14.00, soddisfatti nonostante tutto della nostra esperienza. La parziale delusione di Ambrym è stata largamente compensata dallo spettacolo dei laghi di Ambae.
Dopo aver salutato Peter, torniamo al Fatumaru lodge che abbiamo lasciato una settimana prima e dedichiamo il nostro ultimo pomeriggio a Port Vila allo shopping. Acquistiamo due grosse conchiglie (una è la hornshell che suonavano i ragazzi alla festa della circoncisione, una conchiglia piuttosto rara, dato che non è venduta a buon mercato) e un altro contenitore in legno intagliato.
L’ultima cena ancora al nostro ristorante preferito, “The port”, non prima di esserci gustati una fetta di torta all’unica pasticceria della città e aver fatto un ultimo giretto al mercato.
Il giorno dopo partiremo al mattino presto, fermandoci un giorno intero ad Auckland dove ci tufferemo nell’atmosfera festaiola dei mondiali di Rugby, prima di proseguire verso casa. Quel giorno ci sarà la sfida Inghilterra-Scozia e il centro città è invaso da allegri tifosi vestiti nei modi più disparati!

Il nostro viaggio a Vanuatu è dunque archiviato, ed è stato ampliamente al di sopra delle aspettative. Considerato che le isole sono 83 e che ci sono tante altre cose da vedere e da fare, come per esempio i salti rituali dell’isola di Pentecost, nel mese di maggio, (cerimonia dalla quale i Neozelandesi hanno preso spunto per lanciare il bungy jumping), oppure le ex-tribù di cannibali di Malekula, oppure semplicemente tante altre spiagge e vulcani, credo che potrebbe non essere l’ultima volta che capitiamo da queste parti.
Un giorno, chissà…

Link dei nostri lodges:
www.fatumaru.com
www.turtlebaylodge.vu
www.tafea-tourism.com/accommodation/lencove.htm

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Viaggiatore: SARA - FERRI 78

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