Il giro del Catinaccio

Sulle montagne di Re Laurino

Catinaccio in italiano, Rosengarten in tedesco: bisogna ammetterlo, tra “Giardino delle Rose” e “Grosso catino”, il secondo ha tutto da perdere. E poi, dietro Rosengarten c’è la nota leggenda, che non starò a ripetere, di Re Laurino che mandò la maledizione al suo meraviglioso giardino trasformandolo in pietra affinché nessuno potesse più vedere le rose né di giorno né di notte; ma al crepuscolo, cioè in quel momento in cui già non è più giorno ma non è ancora notte, chi guarda quelle straordinarie pareti rocciose può godere dell’infinita gamma di tonalità di rosso che le tingono.
D’accordo, si tratta semplicemente di un fenomeno ottico, ma a volte è bello far finta di dimenticare che esiste la scienza e che invece, chissà, abbiano ragione le leggende; e pazienza se il nome ladino di quella manifestazione, Enrosadira, ha perso buona parte della sua poesia, inflazionato com’è sulle insegne di tanti hotel, ristoranti, pensioni, gasthof, alberghetti sparsi nell’area dolomitica.
Ma dobbiamo pur sempre parlare di montagne e, ancora una volta, che montagne!
Il Gruppo del Catinaccio in senso esteso può essere portato ad esempio di campionario delle differenti morfologie delle montagne dolomitiche: la verticalità della Roda di Vael, l’ondulata compattezza del Catinaccio, lo slancio elegante delle Torri del Vajolèt, il labirinto delle Cime di Valbona, l’esilità delle creste del Masaré, la complessità dei Dirupi di Larsèc, l’imponenza del Molignòn. Il tutto, per un’infinità di itinerari, sia escursionistici che di arrampicata, veramente impossibili da esaurire da parte di chi, come me, ha la consuetudine di dedicare alle Dolomiti 10-15 giorni a ogni inizio settembre.
Il Catinaccio propriamente detto è una montagna davvero singolare per la struttura e le differenti forme che offre a seconda dei punti di osservazione. Ad esempio, dal belvedere privilegiato del Rifugio Bolzano, sulla sommità del massiccio dello Sciliar, le sue due cime risultano quasi confuse dall’antistante mole “a canne d’organo” che la Croda di Laurino presenta su questo versante; visto dalla cima del Catinaccio di Antermoia, massima quota del gruppo con 3004 metri, può far venire in mente due gigantesche orecchie; nella classica veduta da Ciampedie, racchiusa tra la Cresta di Davoi e le Torri del Vajolèt, è invece meglio comprensibile il senso del nome “Catinaccio”, con le due evidenti conche al culmine della verticale parete est.
Insieme con quella delle Cime di Lavaredo, questa è probabilmente l’area dolomitica che subisce la più pesante pressione umana nei mesi estivi, per effetto di sentieri agevoli e percorsi relativamente brevi che riversano folle di escursionisti al cospetto dei più decantati scenari alpini. Ecco, proprio nella bellezza sta il loro punto debole, vista la percentuale troppo alta di turisti con una “cultura della montagna” (ma anche semplicemente una coscienza ambientale) limitata o del tutto assente.
Ma non voglio tornare sulle problematiche dell’affollamento, tema già sviscerato in un precedente articolo di questa sezione; d’altra parte potrei sentir ribattere, non a torto, che se in un posto bello ci vado io è normale che ci vadano tanti altri.
Però, oltre alla scontata esortazione di rispettare la montagna, un suggerimento mi sento di darlo, ed è quello di fare un piccolo sforzo per spingersi un po’ di al di fuori degli itinerari cosiddetti “classici”: bastano talvolta poche centinaia di metri per uscire dalle processioni del sentiero 546 che in un’ora porta da Gardeccia ai Rifugi Vajolèt e Preuss per scoprire visuali inconsuete sulle più note cime del gruppo. Ad esempio quella medesima traversata può essere fatta lungo una traccia alternativa, non segnalata ma evidente e appena un po’ più lunga, sull’opposto versante del vallone del Vajolèt: nonostante l’immediata vicinanza, non ci incontrerete una persona che è una… Oppure, lungo la salita dal Vajolèt al Passo Principe, poco prima di metà percorso, risalire, con un po’ di fatica ma senza difficoltà, il pendio ghiaioso che porta al misconosciuto Passo del Vajolèt: è una deviazione che impegna sì e no un’ora tra andata e ritorno ma ripaga con l’immersione in un angolo solitario e una veduta impensabile sull’opposto versante verso l’incantevole alpeggio di Malga Hanicker. Oppure ancora, subito dopo lo scollinamento al Passo d’Antermoia, spendere una mezz’oretta per spingersi fino a una delle tante facili cime del sottogruppo del Larsèc: lo fanno in pochi e tutti gli altri si perdono vedute sorprendenti e fotografie insolite, che invece potrebbero fissare se solo, per un momento, provassero a “uscire dal coro”.
Affollamento o no, il Catinaccio merita comunque di essere apprezzato da ogni punto di osservazione e il giro completo della sua base, con partenza e arrivo al Rifugio Aleardo Fronza alle Coronelle (m. 2337), è un’escursione di una giornata vivamente consigliabile; una buona soluzione è pernottare nel confortevole rifugio, raggiunto anche dalla telecabina che sale da Malga Frommer, per godere di un’alba da brividi sul gruppo del Latemar, che talvolta sembra emergere dal mantello di nebbie mattutine che di frequente ammantano la depressione del Passo di Costalunga.
La parte iniziale, di un paio d’ore, è la più impegnativa ma di maggiore fascino e coincide con la via ferrata di Passo Santner. In realtà solo la seconda metà del tratto è attrezzata; inoltre, come forse già accennato in altri articoli, le difficoltà sono modeste e consiglio questa traversata (insieme ad altre semplici come il Gran Cir o i Campanili del Latemar) come ideale “battesimo” per chi voglia provare una ferrata: basta non soffrire di vertigini e munirsi di un cordino con due moschettoni per l’autoassicurazione agli infissi di sicurezza.
Dal Rifugio Fronza si risale un sentierino ben gradinato che progressivamente introduce in un labirintico mondo di roccia che non si immagina osservando dal fondovalle la parete ovest del Catinaccio, che appare anzi del tutto compatta: si procede tra cengette, stretti canalini, forcellette, pinnacoli, guglie, campaniletti, con l’ausilio di tratti di cavo d’acciaio, pioli e scalette metalliche, mai eccessivi e sempre sistemati con avvedutezza, cioè dove sono effettivamente utili. Anche un ultimo traverso su neve ghiacciata, il punto più emozionante, è superato senza problemi, grazie al cavo posto su due livelli di altezza per ovviare a differenze d’innevamento tra un anno e l’altro.
Raggiunto il Passo Santner (m. 2741, la quota più elevata dell’itinerario) e l’omonimo rifugio, è d’obbligo uno sguardo all’indietro per farsi un’idea della struttura, tipicamente “a carciofo”, di questo settore della montagna: da qui sembra impossibile che si possa passarci in mezzo da semplici escursionisti!
Guardando avanti, lo spettacolo è invece dato dalle Torri del Vajolet, anche se conviene scendere lungo il sentiero che in una decina di minuti porta al Rifugio Re Alberto per goderne al meglio, cioè senza che siano “impallate” dalla retrostante mole del Catinaccio d’Antermoia.
Dalla conca del rifugio (dedicato ad Alberto I Re dei Belgi, nonno dell’Alberto attuale e assiduo di queste montagne), a fianco di un laghetto di anno in anno purtroppo sempre più misero, si ha la “cartolina” più nota della “triade” delle Torri, ma anche qui vale la pena di spingersi fino all’orlo occidentale del pianoro per scoprire ancora prospettive inedite.
La ripida discesa lungo la conca del Gartl, segnalata in maniera persino sovrabbondante, è di solito affollatissima e capita non di rado di imbattersi in turisti con scarpette da ginnastica che, non tenendo conto che dopo essere saliti si deve sempre scendere, possono trovarsi in impaccio per la roccia lisciata da milioni di passaggi: non c’è un effettivo pericolo, ma sono leggerezze che dovrebbero essere evitate.
La folla si dirada però immediatamente, sciamando lungo il sentiero che riporta a Gardeccia: rimaniamo un po’ più in quota evitando i Rifugi Vajolèt e Preuss, peraltro ospitalissimi e dei quali tenere conto per un pernottamento in una successiva occasione, magari per affrontare l’indomani une delle numerose escursioni nei vari settori del Gruppo. Il nostro itinerario segue un sentierino (541) che prende quota svolgendosi per un buon tratto alla base della poderosa muraglia della parete est del Catinaccio, con meta più immediata il Passo delle Coronelle (m. 2630), dopo avere lasciato a sinistra la deviazione che porta al Passo delle Cigolade (m. 2561): si tratta dei due più agevoli valichi che mettono in comunicazione il versante del Vajolèt con quello di Bolzano. Voltandosi spesso per apprezzare i sempre più estesi panorami verso la conca di Gardeccia, i Dirupi di Larsèc, l’Antermoia e il Catinaccio, si raggiungono le ghiaie della Busa di Davoi, ormai in vista del Passo, che si raggiunge con un breve tratto di divertenti roccette.
In uno scenario di assoluta tranquillità che merita una sosta contemplativa, può anche capitare di avvistare qualche camoscio: dal ben visibile corteo dei vacanzieri quattrocento metri più in basso ci divide appena un’ora e mezzo di cammino, ma sembrano anni luce!
Non rimane che firmare il libro dei visitatori, custodito in una cassetta metallica sotto un anfratto della roccia, e scendere sull’opposto versante ovest, cupo, incassato, selvaggio e scosceso quanto quello orientale è dolce, aperto e idilliaco. La discesa è veloce e ben presto si individua la sagoma del Rifugio Fronza, raggiunto con alcuni semplici tornantini tra i massi.
Conclusa l’escursione a Malga Frommer, è d’obbligo il consueto sguardo all’indietro per individuare almeno una parte dell’anello percorso; il sole ormai basso brilla sul tetto, appena distinguibile, del Rifugio Passo Santner, e allora bisogna proprio aspettare ancora qualche minuto prima di salire in macchina. Sta per andare in onda lo spettacolo dell’Enrosadira: sarà la miliardesima volta nella storia di queste montagne, ma è una di quelle repliche che non finirà mai di incantare.

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