Dolomiti: una storia in immagini

Dipinti, stampe, fotografie: finestre infinite sulle montagne più belle!

Chi oggi frequenta la montagna, e quindi anche le nostre adorate Dolomiti, a tutti i livelli, dal turismo culturale a quello enogastronomico, dall’escursionismo al trekking più impegnativo fino ai vari gradi dell’arrampicata, dispone oggi di mezzi sempre più sofisticati per catturare ogni particolare degli scenari nei quali si immerge: una tecnologia “a prova di errore” consente ormai anche agli inesperti di scattare foto, riprendere filmati, addirittura inviare immagini in tempo reale tramite i telefonini delle ultime generazioni. È ormai un ricordo il tempo in cui si portava il rullino in laboratorio e, dopo alcuni giorni, si apriva con un po’ di trepidazione la busta delle fotografie. “Beh, sono riuscite…” era già un primo spunto di soddisfazione nel soppesare la busta piena; se poi erano anche discrete la gioia era al massimo.
Eppure non è passato che qualche decennio, così come basta andare indietro di un paio di secoli, un lasso minimo nello scorrere del Tempo, per trovarsi in un mondo nel quale la montagna era intesa come ambiente dal quale tenersi lontani: ostile, pauroso, irto di pericoli, popolato di animali feroci e spiriti malvagi.
Ebbe poi inizio l’esplorazione dell’ambiente alpino, prima timidamente con mezzi rudimentali, poi con la crescente consapevolezza derivata dall’insaziabile curiosità dell’Uomo, per arrivare all’attuale sviluppo tecnologico: fra attrezzature sempre più affidabili, capi d’abbigliamento supertecnici (e supercari…), mappe dettagliate, altimetri digitali, telefonini cellulari e magari anche il navigatore satellitare, il fattore, non dico avventura, ma semplicemente scoperta è ormai vicino ad essere azzerato.
È quindi con una certa tenerezza che di tanto in tanto ci imbattiamo in vecchie immagini, sotto forma di acquarelli, stampe, incisioni o sbiadite fotografie in bianco e nero. Da qualche anno l’editoria viene incontro a una fascia di pubblico attento, magari non numeroso ma fedele e appassionato, recuperando e pubblicando quelle testimonianze di scenari dolomitici che non ci sono più: niente alberghi, niente impianti di risalita, niente strade asfaltate né automobili, solo le case dei contadini e dei pastori, qualche fienile, la chiesetta, all’intorno estesi pascoli a fare da piedistallo alle catene montuose, davvero un altro tempo ma anche un altro mondo.
Percorrendo a ritroso l’iconografia dell’ambiente alpino ci imbattiamo in alcune figure emblematiche, cioè i primi pittori che si diedero a girare le valli alpine scegliendo per soggetto la montagna: era quasi una novità fissare sulla tela o sulla carta un gruppo di cime in quanto tale e non come sfondo, magari non ben definito, di un paesaggio, di una scena campestre o di un ritratto ambientato.
Edward Theodore Compton (1849-1921) ne è il più noto e significativo rappresentante: di origine londinese, ancora adolescente e del tutto autodidatta sviluppò un’ottima tecnica pittorica, in un’alternanza di disegno e acquarello.
Ben presto le montagne del suo Galles cominciarono ad andargli strette, così scese a sud, prima rimanendo ammirato dalla maestosità delle Alpi Svizzere e trovando infine nelle Dolomiti una varietà di scenari che gli consentì di esprimere al meglio la sua arte.
Le oltre duemila opere di Compton rivelano una visione romantica della montagna, con l’ambiente alpino sempre ritratto al meglio della sua potenza: profili di cime ancora più severe di quanto già non siano, contrasti di luci e ombre, le nuvole minacciose a coprire le vette, gli squarci di sereno abbagliante, forse a simboleggiare la luce divina, l’uomo ritratto sempre come piccola presenza nella grandiosità della natura. Ma anche, da parte di Compton, grande precisione descrittiva, a testimoniare un profondo conoscitore della montagna e della pratica alpinistica: i suoi dipinti di un secolo fa, da qualche anno commercializzati sotto forma di belle cartoline, non presentano infatti sostanziali differenze, a parte le differenti tecniche espressive, con i corrispondenti scenari fotografati oggi dal medesimo punto di ripresa.
Una cinquantina di quelle incantevoli illustrazioni corredano il memorabile “Im Hochgebirge” (Dalle Dolomiti) del 1889 del grande Emil Zsigmondy, lodevolmente ristampato nel 1999, in conformità all’originale, dalla Cooperativa di Cortina (http://www.coopcortina.com); l’iniziativa annovera altri titoli, tra i quali segnalo “Il gruppo del Monte Cristallo” di W. Eckerth del 1891, illustrato da schizzi di A. Heilmann che richiamano, per incisività, le immagini di Compton.

Ma la fotografia incalzava, anche se il fotografare la montagna non era così scontato come oggi. A un pittore era sufficiente un blocco di fogli da disegno e una matita per stendere le linee essenziali di un paesaggio e poi affinarlo con calma nel proprio studio. Fare una fotografia poteva essere semplice nel riprendere una panoramica da fondovalle, ma la faccenda si complicava terribilmente quando il soggetto era un particolare, come ad esempio un arrampicatore in parete, una cordata su un ghiacciaio, o addirittura alpinisti in posa vicino alla croce di vetta.
Poche storie, bisognava salire lassù con una zainata di materiale: niente teleobiettivi, niente esposimetro, niente autofocus, niente pellicole a grana ultrafine, ma fotocamere che erano vere e proprie casse, massicci cavalletti, chili e chili di lastre sensibili, per una fatica che era di poco inferiore a quella degli scalatori. È anche vero che alle limitazioni dei materiali suppliva tanta preparazione tecnica, tanto intuito nel “leggere” la luce adatta, tanta attenzione nel comporre l’inquadratura, tanta pazienza per cogliere l’attimo dello scatto, pena dover gettare via una lastra e con essa spesso l’impossibilità di ripetere il tentativo. Ciononostante, i risultati, oggi ancora visibili in tanti bei libri, non finiscono di sorprenderci.
Come già accennato in altri articoli di questa sezione, ho messo insieme negli anni una discreta biblioteca tematica, risultato di una specie di “tributo” (per fortuna piacevole) che ogni anno sborso alle librerie delle varie vallate dolomitiche nel corso dei miei soggiorni.
Ne sortisce un’incessante scoperta di personaggi, da quelli più celebrati a quelli più oscuri ma non per questo meno significativi. Nella cerchia dei fotografi, mi pare ne spicchino due davvero unici: Franz Dantone e Antonia Verocai Zardini. Non vedo una foresta di mani alzate a dire “Io li conosco!”, quindi provo a farne un succinta connotazione.
Franz Dantone, soprannominato “Pascalin”, fu un vero e proprio pioniere della fotografia nell’ambito dolomitico; la sua è inizialmente la storia di un uomo come tanti, costretto ad emigrare da Canazei, dov’era nato nel 1839, per cercare un’alternativa all’esistenza grama dei valligiani. Dopo avere esercitato diversi mestieri in Germania trovò la definitiva realizzazione nella fotografia, diventando in pochi anni il più assiduo utilizzatore del nuovo mezzo tecnico non solo della nativa Val di Fassa ma di tutte le Dolomiti: una figura presto diventata familiare a tutti, con il suo mulo carico di attrezzature a salire fino al punto in cui i “ferri del mestiere” passavano dal basto alle sue spalle per raggiungere tra immaginabili difficoltà gli angoli più impervi delle montagne.
Pascalin vide sempre la fotografia come una passione piuttosto che il tramite per cospicui guadagni che la sua abilità avrebbe potuto procurargli; ne è riprova il fatto che per vivere alternava l’attività di carpentiere muratore e la gestione di un’osteria. Dal 1897, anno della sua costruzione, fu gestore del Contrin, uno dei rifugi storici della Val di Fassa, fino alla sua morte avvenuta nel 1909.
Passando in rassegna le foto in bianco e nero di Dantone, vediamo di volta in volta l’inaugurazione della propria osteria, guide alpine in compagnia di clienti in giacca e cravatta, ingenue rappresentazioni teatrali su improvvisati palchi nelle piazze di paese, solenni cerimonie civili, religiose o militari, l’arrivo in Canazei di un impettito ispettore dei monopoli a cavallo, gruppi di coscritti in posa alla visita di leva, i primi ciclisti esibire orgogliosamente la propria due ruote. Persone morte da un secolo, ma fermate sulla lastra fotografica con un’incisività che le fa sembrare sorprendentemente vive.
Altrettanto sensibile, anche se proiettata in un contesto storico totalmente differente, è l’opera di Antonia Verocai Zardini, cortinese nata nel 1876. Imparato il mestiere nello storico studio fotografico del padre Annibale affacciato su piazza Venezia, “Tonina” ne continuò l’attività con il marito Raffaele e poi, dopo l’invio al confino di questi, in proprio.
Un vero esempio di imprenditore al femminile ante litteram, che dovette conciliare per anni la conduzione del laboratorio con le incombenze di una famiglia numerosa, con l’aggiunta degli eventi della Grande Guerra.
Proprio gli eventi bellici finirono per fornire, suo malgrado, la maggiore linfa alle sue riprese, documentandoli spesso dal balcone al primo piano della casa. L’arte di Antonia è riconosciuta nella delicatezza con cui traspose in immagini la guerra riuscendo ad evitare l’esibizione delle sue crudezze; la guerra è presente ma la si intuisce appena, le foto la porgono con ritegno e non la urlano nelle case della gente come fanno oggi i mezzi di informazione. Vediamo un prigioniero austriaco tra due militari italiani ma vediamo anche la lealtà e il rispetto, vediamo un battaglione di fanteria entrare in Cortina ma è assente la retorica della conquista, vediamo un soldato giocare con un cane o un altro con in braccio un gattino ma il loro accenno di sorriso fa sembrare la guerra un po’ più lontana.

Ma le guerre finiscono, il tempo passa, le Dolomiti cominciano a essere frequentate per la loro bellezza ineguagliabile, arriva il turismo di massa. Si evolve anche la fotografia e le immagini sulle cartoline e nei libri diventano sempre più accattivanti. Ricordo che, tra le tante collezioni che occupavano la mia infanzia, c’era anche quella delle cartoline, prima radice di quella passione per i viaggi che avrebbe caratterizzato la mia maturità; ancora lontano dalle villeggiature che sconfinassero dalle località rivierasche o dall’immediato entroterra ligure, vedevo remotissime le località dolomitiche e il più delle volte quelle immagini di montagne dalle forme slanciate che solo dopo anni avrei calcato con gli scarponi portavano sul retro la dicitura “Foto Ghedina”. Un marchio davvero mitico, un archivio che immagino immenso: in parte anche a quel "Signor Ghedina" va il merito della mia scoperta delle Dolomiti.
Oggi il mercato dell’immagine è sterminato e ad ogni mio ritorno nelle vallate dolomitiche mi imbatto in sempre nuove proposte; cito solo le prime che mi vengono in mente, la bellissima serie di foto aeree della Tappeiner che aiutano a comprendere al meglio, grazie al punto di ripresa inconsueto, la conformazione dei vari gruppi montuosi; e la Light Hunter, cartoline e libri di grande raffinatezza che incantano per la grande cura dell’inquadratura e l’attenzione quasi leziosa nel cogliere gamme infinite di luci e ombre.
Tutte foto belle, molto belle, bellissime, perfette; ma confrontandole con quelle, tutto sommato imperfette, di cento e passa anni fa, sento un po’ di disagio: in quelle c’era anche il cuore.

2 commenti in “Dolomiti: una storia in immagini
  1. Avatar commento
    rndjapgz bszaircev
    10/07/2007 02:53

    ityuxndgl sibazcwhp dogmqeac vhnmutr pvbfx szkjpivg fgwql

  2. Avatar commento
    Felicity
    09/03/2005 12:10

    Veramente un bell'articolo!! Anche io amo le stampe e le foto delle Dolomiti, mi sembra che ne hai fatto una storia sintetica ma molto ben documentata!

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