Rockies on my mind

Il ritorno sulle Montagne Rocciose: appassionato viaggio nel West americano, dove la Natura regna incontrastata

Sono gli Americani che giocano a fare gli attori, o Hollywood non fa altro che copiare la realtà?
Questa è la madre di tutte le domande che ci siamo portati a casa dalla nostra vacanza statunitense; sì, perché gli Stati Uniti che abbiamo visitato stavolta, cioè quelli tipicamente “western” delle Montagne Rocciose, danno incredibilmente l’impressione di vivere all’interno di un film: il paesaggio, sia quello delle lande desertiche del Wyoming che quello selvaggio e boscoso dell’Idaho, dove in ogni momento ti aspetti di trovarti una diligenza dietro la curva o un gruppo di pellerossa schierati in cima ad una collina; le cittadine, fatte per lo più di un paio di strade di cui una centrale sulla quale gli edifici hanno architettura tipicamente western, dove i negozi vendono cappelli da cowboy, stivaloni e abiti indiani e dove il bar principale non è un bar o un pub, ma un saloon; loro, gli americani, gran parte dei quali veste abitualmente jeans (rigorosamente Wrangler), stivali, camicia a quadretti e immancabile cappello, che parlano uno slang “western” che per una decina di giorni mi è parso incomprensibile, che girano con il pick-up, si esaltano al rodeo e ascoltano musica country bevendo birra dalla bottiglietta; addirittura gli indiani, o meglio i Nativi, nel cui sguardo scorgi una profondità e una fierezza che vengono dal passato (sarà solo suggestione?).
Insomma, tutto quello, e molto di più, che si pensa di trovare in un viaggio di gran lunga più esaltante di quanto ci aspettassimo e a volte temessimo, titubanti per aver optato per un itinerario più settentrionale rispetto a quello classico dei Parchi dell’Ovest.

Clima

Abbiamo viaggiato tra giungo e luglio 2006. In partenza, credevamo di andare incontro a temperature più basse. Forse siamo stati fortunati visto che ha piovuto effettivamente poco, ma abbiamo trovato caldo piuttosto intenso, soprattutto nelle zone di pianura di Wyoming e Montana. Comunque, non c'è stato freddo nemmeno al Glacier.

In valigia

Che guida?
Al momento del nostro viaggio, estate 2006, non c’erano guide in italiano specifiche per questi stati; avremmo dovuto accontentarci delle poche pagine dedicate dalla Lonely sugli Stati Uniti occidentali. Perciò abbiamo acquistato con Amazon la guida “Rocky Mountains” della Rough Guide in inglese, che si è rivelata leggibile con facilità e molto utile, più una pubblicazione per l’esplorazione in automobile, metro per metro, su Yellowstone e il Gran Teton, che invece non ci è servita granchè.

Come spostarsi

Il “Far West” è il paradiso dei viaggi on the road: le strade sono poche (rispetto all’ampiezza del territorio) e ampie, ben segnalate e facilmente percorribili, il traffico non intenso e generalmente ben ordinato ed educato.
I limiti di velocità, se pur bassi a volte in modo eccessivo, sono per lo più rispettati; questo crea un po’ di disagio a noi europei, abituati a mezzi che si spostano sulle strade a velocità differenti, e quindi insofferenti al fatto di viaggiare magari per delle ore in compagnia delle medesime autovetture a identica velocità.
Noi abbiamo scelto il noleggio con la National di una spaziosa Chevy Malibu presa all’aeroporto di Denver e rilasciata a quello di Spokane; costo totale del noleggio 886 dollari, di cui 199 per il -off, il noleggio macchina negli States è sempre a buon mercato.
Alternativa molto interessante sarebbe stato il noleggio di un camper: le valutazioni sono quelle solite, da parte mia posso solo aggiungere, con un pizzico di rammarico, che se c’è un posto dove scegliere il camper, quello è l’Ovest degli Stati Uniti.
Sulle strade abbiamo incontrato anche numerosi motociclisti, emuli del mito di Peter Fonda e Jack Nicholson di Easy Rider: sinceramente, mi hanno destato curiosità ma non molta simpatia questi signori, davvero di ogni età, rigorosamente in giubbotto di pelle, bandana e occhiali scuri, che come veri padroni passano le giornate occupando il centro della carreggiata a velocità ridotta e mandando a quel paese chiunque osi sorpassarli, per poi ritrovarsi in gruppo al motel, dove finalmente possono lucidare la moto in maniera ossessiva o chiacchierare amabilmente, naturalmente a motore acceso, naturalmente a tutte le ore.

Dove alloggiare

E’ cosa risaputa, gli Stati Uniti offrono una grande varietà di alloggi e trovare una sistemazione non è normalmente un problema, anche senza prenotazione.
Con l’avvertenza, però, che la prenotazione può essere di grande aiuto ed è consigliata dove si concentra la massa dei turisti e durante i week-end; ancora, la prenotazione diventa indispensabile qualora si intenda pernottare all’interno dei Parchi nazionali.
Aprendo una breve parentesi sul pernottamento nei parchi da noi visitati: trovo non sia necessario dormire all’interno del Gran Teton, viste le ridotte dimensioni, può essere una bella idea qualora si vogliano visitare le zone meno frequentate del Glacier, è di gran comodità per Yellowstone.
Nelle zone di maggior interesse naturalistico, oltre agli immancabili motels, si trovano numerosi campeggi, alcuni dei quali offrono sistemazioni in suggestive “cabins” (casette) di legno.
Gli americani amano il poter contare su “certezze”: quindi, avvicinandosi ad ogni città si può essere sicuri di incontrare gli stessi motels e hotels, normalmente delle solite grandi catene, peraltro ampiamente (e con un anticipo per noi incomprensibile) pubblicizzati lungo le highways; l’unica cosa a cambiare è il numero delle strutture, che ovviamente dipende da dimensioni e richiamo turistico della città.
Questo consente di stare tranquilli: nel motel sappiamo più o meno esattamente cosa troveremo, due queen sizes beds (una piazza e mezza l’uno, quindi ci si può adattare fino a 4 persone), la solita moquette, bagno con doccia, televisore, macchina per il caffè e Bibbia nel comodino; e allo stesso modo sappiamo cosa possano offrire i diversi alberghi. A proposito, di norma sono presenti Best Western, Holiday Inn, Red Lion (sì, con la “i”) e altri ancora.
Per quanto riguarda i prezzi, abbiamo trovato motels da 70 a 110 dollari a notte, alberghi tra i 100 e i 120 dollari, lodges nei parchi a partire grosso modo dai 150 dollari, cabin intorno ai 100 dollari.
Discorso a parte meriterebbe il soggiorno in un ranch, che purtroppo resta per noi un sogno non realizzato. Il progetto della vacanza era nato proprio con desiderio di “vivere” il ranch; poi, però, abbiamo dovuto arrenderci, un po’ perché stare in un ranch per 5-7 giorni significa perdere un sacco di altre cose, a meno che non si disponga di parecchio tempo, un po’, e soprattutto, per i costi elevati: nelle strutture che, senza strafare, offrono comfort “familiare” associato all’avventura, cioè nei cosiddetti Dude Ranches (vd.link), per un soggiorno di 5 giorni si chiedono normalmente circa 1.200 dollari a persona, quindi suppergiù 3.000 dollari per la nostra famiglia (e siamo solo in tre) per 5 giorni.

In cucina

Ok, non siamo in Italia e nemmeno in Francia, ma non mi si dica che negli States si mangia male.
Certo, a meno che non si frequentino i ristoranti di elevato standing, il menu si limita normalmente a pochi piatti, comunque gustosi: ottime bisteccone, hamburgers che nulla hanno a che vedere con i nostri, patate e qualche gustosa minestra.
Discorso a parte merita la pizza, che si è rivelata una gradita sorpresa: la classica enorme puzzona che gli americani si portano a casa in cartoni giganti non è per niente male, oltre ad essere una soluzione “facile” ed economica.
Però ciò che più colpisce sono sicuramente le dimensioni delle porzioni, gigantesche come d’altronde ogni altra cosa si incontri; provare, per credere, l’interessante esperienza di una gita in un supermercato, dove secondo me i reparti più divertenti sono quelli delle infinite salse e degli snacks, oltre che quello, indimenticabile, dei dolci, grossi, colorati, pazzi, totalmente pazzi.
Un consiglio: mai prendere le porzioni large, meno che mai a colazione! Ancora adesso mi sveglio nella notte con il terrore che i large pankakes, ordinati con leggerezza la colazione nel Montana, possano decidere di ribellarsi e cominciare ad uscire dal piatto…

Itinerario

In periodo di tensioni e timore di attentati, abbiamo scelto di volare con una compagnia “neutra”; questo ci ha comportato un aggravio di spesa rispetto a compagnie statunitensi e anche uno scalo e qualche disagio in più. Appena tornati, però, la notizia degli attentati sventati su voli da Londra agli States ci ha convinto di aver fatto la scelta giusta per noi.
La scelta è caduta sulla Austrian, con voli Verona-Vienna (tratta coperta da Air Dolomiti), Vienna-Toronto (Austrian Airlines) e Toronto-Denver (Air Canada).
Per tornare da Spokane a Denver, ci siamo affidati alla Frontier Airline, compagnia low-cost con sede a Denver che ha larga diffusione negli Usa e nel Nord America in genere: ottimi l’aereo, il servizio, la puntualità, da tenere certamente in considerazione.

Per quanto riguarda il nostro viaggio: da Denver ci siamo diretti verso nord, lungo la Highway 25; una volta in Wyoming, attraverso la Medicine Bow National Forest , abbiamo percorso il sud lo Stato da parte a parte, per poi risalire verso il Gran Teton e Yellowstone.
Usciti dal Northern gate di Gardiner, ci siamo diretti verso le Rocky Mountains, passando per Bozeman e Butte; da lì, siamo “ridiscesi”, in direzione Idaho, dove abbiamo grosso modo seguito il Salmon River fino a Stanley.
Risaliti per la stessa “93”, siamo tornati nel Montana, dritti verso i laghi del nord e il Glacier National Park, per poi chiudere definitivamente verso ovest, seguendo il confine con il Canada, fino a Spokane – Washington, dopo una sosta al parco Silverwoods.

- Itinerari diversi
Va detto che il nostro itinerario, se pur attentamente studiato da casa, alla prova dei fatti ha rilevato qualche pecca, determinate un po’ dall’imprevisto giorno passato a Denver in attesa dei bagagli, un po’ dalle mai sufficientemente considerate distanze e lentezza degli spostamenti. In particolare, una scelta azzeccata sarebbe stata quella di tralasciare il sud del Montana, uscire da Yellowstone dalla porta Ovest e dedicare maggior tempo al selvaggio Idaho.
Gli itinerari proposti dagli opuscoli turistici della zona sono tanti e di diverso tipo, “a tema”, o “a zone”: “naturalistici” attraverso i parchi o seguendo le numerose sorgenti calde, “storici” sulle tracce degli esploratori Lewis e Clark, “etnici” con particolare attenzione agli insediamenti dei Nativi; o, ancora, la scelta tra itinerari diversi nel Wyoming, tra sud e nord dell’Idaho, tra montagne e ranches del Montana, e numerosi altri.
Ognuno di questi varrebbe un viaggio, ma mi sembrano più adatti agli americani: noi che veniamo da oltreoceano dobbiamo giocoforza scegliere, cercando di toccare il più possibile tra questi temi e zone, ma con la consapevolezza di trascurare parecchie attrazioni; nel nostro caso, per esempio, il progetto prevedeva una puntata all’Hell’s Canyon, in Idaho, ma una volta in loco ci siamo accorti che le distanze erano improponibili per i nostri tempi e abbiamo dovuto dolorosamente rinunciare (ancora oggi mi sveglio nel cuore della notte con gli incubi…).

Da non perdere

1° GIORNO – L’Italia, l’America e l’elasticità mentale
Volare per Icaro è stato più facile!
Subito alla partenza l’ho fatta grossa: da vero deficiente ho preso con me il passaporto vecchio e scaduto.
Il disastro è stato superato, oltre all’abilità e alla pazzia di chi, svegliato nel sonno all’alba, è partito da casa a velocità folle per portarmi il documento corretto, grazie alle notevoli disponibilità ed elasticità del personale Air Dolomiti, che ha acconsentito ad attendere l’arrivo del passaporto fino a pochissimi minuti alla partenza del volo, consentendomi di salire sull’aereo e salvandomi di fatto il viaggio.
Superati, non senza avere lo stomaco definitivamente attorcigliato, tutti gli ostacoli del viaggio che la rigidità mentale della burocrazia americana ci ha creato, ci siamo trovati a Denver, per una notte e un giorno di sosta non prevista in attesa dei bagagli. Che fare?
Alla sera, parto alla ricerca di qualcosa da mangiare: nelle vicinanze dell’albergo i giardini sono ben tenuti, gli spazi nei parcheggi enormi, come i pick-up parcheggiati; nel pub, sui muri campeggiano poster dei Colorado Avalanches e dei Denver Nuggests. Mi scappa un sorriso e una gran voglia di affrontare il Nuovo Mondo: sono veramente in America!!
Notte all’hotel Amerisuites, nelle vicinanze dell’aeroporto, albergo di buona qualità con stanze ampie e comode, a prezzi accettabili. Dollari 141.

2° GIORNO – Io allo zoo? Mai!
Direttamente all’aeroporto veniamo a sapere che i bagagli dovrebbero arrivare nel primo pomeriggio (dopo il fallimento di un patetico tentativo dell’impiegato del nostro albergo, di nazionalità ignota, che addirittura non riusciva a farsi capire al telefono dagli addetti bagagli del Lost & Found!! – piaceri della globalizzazione…), così decidiamo di passare la mattina al Denver Zoo, con una scelta che si rivela felice, anche per me che avevo giurato che non avrei mai portato mia figlia in uno zoo.
Nel primo pomeriggio finalmente si parte, macchina puntata verso nord lungo la trafficata Highway 25.
L’incontro con il Woyming è subito emozionante. Presa la “130”, strada secondaria più o meno parallela alla Highway 80 e di questa molto più affascinante, ci si apre davanti un paesaggio tipicamente western: l’aria tersa permette allo sguardo di spaziare su un’immensa pianura, qualche ranch, mucche al pascolo, l’immancabile fila di pali della luce di legno…
La strada incontra la piccola catena montuosa del Medicine Bow Range, una sorta di ampio altopiano che si erge in mezzo al nulla, sulla sommità del quale si trovano piacevoli foreste e laghetti; addirittura c’è la neve, dopo che si è passati nel giro di pochi chilometri dal deserto della pianura. Tanto per cambiare, la sensazione è che qualche giorno negli chalets dei campeggi del luogo non sarebbe per nulla sprecato.
Ma il tempo per noi stringe, e raggiungiamo Saratoga Hot Springs verso sera.
Ottima cena al Hotel Wolf (50 dollari in 3), con ambienti tipicamente cow-boy rimasti pressoché inalterati da quando l’albergo era l’unica costruzione del paese, sull’angolo della strada polverosa che correva (e corre) verso Ovest. Matilde, già la prima sera, decide che il prossimo Carnevale si sarebbe travestita da cow-girl.
Notte al Silver Moon Motel, prezzi modici (69 dollari), qualità non eccelsa.

3° GIORNO – Ringooooo
Giornata di spostamento
Colazione da LollyPop, un simpatico barettino che consiglio, carino per approcciare le abnormi abitudini alimentari degli States.
Due passi ed eccoci alle terme di Saratoga, certo non una lussuosa spa, ma piacevoli, oltre che gratuite: si tratta di una piccola vasca, con annesso spogliatoio, in cui immergersi in un’acqua a temperatura elevatissima (la parte più vicina alla sorgente è la più calda ed è ottima per cuocere le aragoste, mi fa notare divertito uno dei pochi presenti immersi come asparagi, che tra l’altro sembrano affrontare la temperatura molto più tranquillamente di noi…)
Certamente più facile è il bagno nell’adiacente fiume: a pochi metri dall’entrata dalla vasca termale, un ruscelletto di acqua calda si immette nel torrente, creando piccole piscine con un’acqua tiepida di grande godimento!
In viaggio verso il west, tra le diverse attrazioni scegliamo Fort Bridger, all’estremità sud-occidentale dello Stato, segnalato come un sito di grande interesse storico, un insieme di edifici militari e civili rimasti (o ricreati) dal tempo dei pionieri. E sbagliamo, perché oltre a farci allungare la strada, il forte non è molto interessante, ancora una volta ci siamo dimenticati che le attrazioni “storiche” degli Usa non andrebbero prese in considerazione, almeno da noi europei.
Molto meglio sarebbe stato arrivare prima alla mostra meta, Jackson Hole, capitale turistica del Woyming, una cittadina splendidamente inserita nella Rocky Mountains nelle vicinanze del Gran Teton NP e particolarmente ricca di atmosfera, oltre che di negozi e locali tipicamente western.
Notte al 49er Inn, motel mediamente lussuoso con arredi caratteristici in legno scuro (265 dollari per 2 notti).

4° GIORNO – Rockies, rieccoci
L’avevamo promesso 8 anni prima, lasciandoci alle spalle il Jasper National park, in Canada: le Montagne Rocciose valgono da sole il viaggio dall’Italia, e noi ci dobbiamo tornare.
E allora, lasciata la piana che accoglie Jackson Hole, eccoci di nuovo al loro cospetto, all’entrata del Teton National Park, una striscia di terra dalla natura esplosiva che comprende la catena montuosa del Teton Range ed i laghi circostanti.
Il Teton “soffre” la vicinanza del suo più famoso vicino Yellowstone, del quale certo non ha né le dimensioni né la varietà e la singolarità dei paesaggi, però è un parco affascinante con parecchie opportunità: montagne meravigliose che si ergono dalla pianura, laghi alpini, escursioni di ogni tipo e difficoltà.
Anche l’avvistamento degli animali è relativamente facile; scoiattoli a parte, noi abbiamo il piacere di avvistare qualche alce e alcuni rapaci, tra cui uno impegnato in una meravigliosa scena di caccia al pesce.
Per quanto ci riguarda, la mattina ci lanciamo in una delle agevoli escursioni (circa un’ora e mezza), che costeggiano il Swan Lake e l’Heron Pond (laghetti minori “satelliti del Jackson Lake) mentre al pomeriggio abbiamo la malaugurata idea di partecipare ad una delle gite in battello sul Jenny Lake, ma il tempo non è bello ed i colori neppure e la guida parla senza interruzione per tutto il tempo. Non consigliata
Rientrati a Jackson Hole, un po’ di sano shopping ci ritempra il corpo e lo spirito.

5° GIORNO – Il mondo com’era
La giornata inizia bene, con Italia-Australia alla tele, vinta con rigore all’ultimo minuto.
Prima di lasciare Jackson Hole, non possiamo di certo perdere la divertentissima Alpine Slide, una divertentissima discesa con una sorta di bob a rotelle che corre in una pista di plastica giù dalla montagna, con tanto di curve paraboliche e rettilinei mozzafiato. La salita in seggiovia è un po’ cara (17 dollari?), ma limitarsi ad una sola corsa è ugualmente impossibile…

Entrare a Yellowstone fa un certo effetto. E’ uno di quei posti che senti nominare da tutta la vita, anche se nei nostri cartoni era camuffato in Jellystone, tanto che un sacco di gente, saputo che ci ero stato, mi ha subito chiesto “Hai visto Yogi e Bubu?”. Chiarisco subito: di orsi manco l’ombra, evidentemente se ne stanno lontani dalle zone più frequentate.
Non avrò visto Yogi, ma il “Ranger” sì, eccome: da poco entrati nel parco, mi faccio sonoramente riprendere per essermi avvicinato troppo ad una coppia di cervi, e sono costretto ad una ripugnante scena da turista italiano finto tonto per salvarmi da una multa.
Yellowstone è molto vasto e, come già detto, varrebbe la pena di prenotare con tutto l’anticipo necessario una sistemazione all’interno, per non dover perdere parecchie ore negli spostamenti.
Abbiamo a disposizione 2 giorni e mezzo, anche se poi ne sfrutteremo uno in meno.
Nel pomeriggio iniziamo a percorrere il classico anello che comprende le maggiori attrazioni, subito l’area geotermale, che comprende la mitica colonna di vapore dell’Old Faithful, anche se non è da perdere la passeggiata che, su comode passerelle di legno, consente di girare tra piccoli geysers e pozze di acqua e fango bollenti; poi l’ambiente spettacolare dei Midway e Lower Geyser Basins, davvero affascinanti con fumi infernali e incredibili colori di acqua e terra.
Poi pieghiamo verso l’uscita orientale e la città di Cody, patria di Bufalo Bill. La strada è lunga e questa parte del parco non è straordinaria, compreso lo Yellowstone Lake; in più, la presenza di interminabili lavori in corso allunga enormemente i tempi di percorrenza ed arriviamo in città molto ma molto più stanchi del previsto.
Cena a Cody, presso il celeberrimo Hotel Irma, dove soggiornava Bufalo Bill, bisteccona in un meraviglioso ambiente stile 800 western. Da non perdere.
Notte a Cody, Econolodge Motel, buona qualità, con piccola piscina, colazione insufficiente presso la reception. 259 dollari per 2 notti.

6° GIORNO – Il colpo di genio
La stanchezza accumulata nei giorni precedenti si fa sentire e il colpo i grazia ce lo danno i lavori in corso che allungano mostruosamente la strada per la East Entrance.
Così, decidiamo di fermarci a Cody, con quello che si rivela un autentico colpo di genio, perché il giorno si trasforma inaspettatamente nel miglior di tutta la vacanza, quello che offre i ricordi più indelebili.
Alla mattina raccolgo qualche depliant alla reception del motel e di punto in bianco si decide: si va a cavallo! Scegliamo un piccolo ranch facilmente raggiungibile a pochi chilometri ad ovest di Cody, che organizza brevi cavalcate per turisti. Indimenticabile il momento dell’arrivo: piazzale polveroso spazzato dal vento, i cavalli in un recinto con l’immancabile bandiera stelle e strisce, una casetta di legno con il classico portico sotto al quale le cow-girls del posto dormono con cappello abbassato sugli occhi e stivaloni appoggiati al tavolino. Ma possibile?!?
Eccome se è possibile: in quattro e quattr’otto, due istruzioni al volo e siamo in sella, mia moglie su
un cavallo nero, io e Matilde su Dudley, uno splendido cavallone marrone. Ci inerpichiamo sui sentieri sassosi che salgono sulle colline circostanti, tra cespugli verdi, rumore di zoccoli e cielo blu terso. I cavalli sono tranquilli, ovviamente, ma per la prima volta a cavallo ci sembra già molto, tanto che Stefania accusa momenti di puro terrore.
Terminata la splendida avventura e rinfrancati da un bagno nella piscina del motel, ci dedichiamo allo shopping, per poi accomodarci lungo la strada principale in attesa dello spettacolo western che giornalmente viene messo in scena con figuranti che impersonano tutti i caratteristici personaggi del West: lo sceriffo, il buono, la prostituta del saloon, il bandito, ecc.
Che dire: fa parte del folklore americano, tante tante parole in quella sorta di inglese wyomingizzato, la gente che canta l’inno a bandiere spiegate e che esulta quando il cattivo viene ucciso, tutto sommato non un granchè.
Ma siamo a sera, e ci attende uno dei pezzi forti del nostro viaggio: il Cody Nite Rodeo, spettacolo che nei mesi estivi ha cadenza giornaliera nell’apposita arena. Lo spettacolo è appassionante e divertente, le competizioni si susseguono in un crescendo di entusiasmo davvero travolgente; Matilde applaude divertita, in testa il nuovo cappello da cow-girl, in mano un succulento hot-dog, o meglio, aut-dog, come lei lo pronuncia.
Che serata!!
Notte nello stesso motel del giorno prima.
Ultimi appunti su Cody:
In città si trova il Museo di Bufalo Bill, che noi non abbiamo visto, e credo sia stato un peccato;
Fuori dal centro, verso ovest, vale la pena fare una sosta in un negozio sul lato sinistro della strada che vende oggetti, libri, coperte, oltre che una serie di articoli curiosi tutti da vedere.

7° GIORNO - Yellowstone, Aka Mother Nature’s Favorite Son
Si torna a Yellowstone, per completare la visita alla principali bellezze del parco. E’ doverosa, prima di tutto, una citazione della bellissima strada che da Cody conduce al Parco attraversando la Wapiti Valley, un concentrato di bellissimi panorami western, torri di roccia, terra rossa, con il Shoshone River che scorre a fondo valle. Non a caso, Roosvelt definì la valle “The most scenic 50 miles in America”.
Subito ci imbattiamo in 2 bisonti e ci incamminiamo entusiasti lungo un sentiero, dove però i segnali di attenzione per la presenza di orsi ci induce a maggior prudenza e torniamo indietro.
Una buona opportunità per addentrarsi nella natura del parco sono le escursioni con ranger, organizzate con partenza da diversi punti “strategici”; proprio dove ci siamo fermati sta per partire una di queste escursioni, ma i nostri entusiasmi vengono raffreddati quando arriva il ranger designato come guida: una donna tutt’altro che giovane, quasi cade scendendo dalla macchina per poi lasciarsi sfuggire i documenti dalle mani. Proprio il ranger che tutti si aspettano di incontrare…
La strada ci conduce in luoghi primordiali, assolutamente fantastici. Prima le Lower e Upper Falls, viste dalla terrazza naturale dell’Artist Point, così chiamata per il gran numero di pittori che ha scelto quell’inquadratura per ritrarre lo spettacolo naturale; poi Inspiration Point e lo Yellowstone Canyon; ancora, la Hayden Valley, dove trova ampia soddisfazione la voglia di osservare i bisonti, peraltro presenti anche in altre zone del Parco, che popolano a grandi mandrie gli sconfinati prati della Valle.
Proseguendo verso nord, ci spostiamo nella selvaggia zona detta Blaktail Deer Plateau, dove la vastità degli spazi di una Natura incontaminata lascia senza fiato. Infine, le Mammoth Hot Springs; a riguardo di quest’ultime, va detto che possono deludere ad un primo sguardo, perché l’impressione, arrivando da sotto può essere “che sfortuna, siamo arrivati in un periodo di assenza di acqua!”; vanno invece percorse le scale che portano in cima alla formazione rocciosa e poi vanno percorsi sia i sentieri a destra che quelli a sinistra, per non perdere i punti di maggiore bellezza.
Usciamo dal “mito” verso sera, dalla pluri-fotografata Northern Gate, pensando di fermarci per la notte a Gardiner. Invece il paese è decisamente inutile, così decidiamo di puntare verso Livingston, anche perché la guida ne parla come di cittadina gradevole, con numerosi edifici intatti, tanto che “There’s still an authentic Old West feel to the town’s architecture”. Niente di tutto questo: Livingston, a parte i fatto di aver dato i natali a Calamity Jane, non ha molto altro da dire, ancora una volta siamo caduti nella trappola delle attrattive storiche Usa. Per fortuna, la persona al banco dell’hotel ci indica il ristorante Montana’s Rib & Chop, dove, a suo dire, fanno le migliori ribs dello Stato. Devo dire che forse non ha torto…
Notte al Best Western Yellowstone Inn di Livingston: positivo, camera spaziosa, anzi “giga”, come dice Matilde, grande piscina interna, ottima colazione. Totale 123 dollari

8° GIORNO - Jurassic Montana
La giornata prevede la visita del Museum of the Rockies di Bozeman, altra tappa da non perdere. Bozeman è una cittadina di una tranquillità molto piacevole (forse perchè in assenza degli studenti, lontani per le vacanze estive): la via principale dello shopping ben tenuta con negozi e immancabili bandiere stelle-strisce e le ombrose vie laterali, case eleganti, giardinetti (senza recinzioni di sorta) con erba perfetta e vialetto, qualche casetta di legno sugli alberi. Praticamente un telefilm, molto molto american!
Il Museo è una sorpresa. Interessante è la parte dedicata alla storia della vita sulle Montagne rocciose, dai nativi ai pionieri; ma davvero strabiliante è la sezione dei dinosauri, in cui si espongono ossa o addirittura scheletri interi di dimensioni davvero ragguardevoli. Purtroppo, per problemi di orario, non abbiamo visto il Planetario, per il quale è obbligatoria la visita guidata.
Nella giornata, assistiamo anche a Italia-Ucraina, seduti a un bar con persone di diverse nazionalità: siamo in semifinale, e il successo degli azzurri ha ancora più sapore con davanti un enorme hamburger con patatine!
Bozeman è ricca di b&b carinissimi, anche se abbastanza cari; proviamo in un paio di case, poi decidiamo diversamente, cioè di intraprendere il percorso del giorno successivo, che si preannuncia particolarmente lungo. Quindi decidiamo di puntare su Butte, cittadina a sud-ovest del Montana sostanzialmente inutile, dove alloggiamo al Red Lion, che invece si rivela una scelta azzeccatissima: prezzi abbordabili (100 dollari), camere spaziose e di ottima qualità, piscinona con idromassaggio.

GIORNO 9° - Due mondi paralleli
La strada che ci porta in Idaho è davvero lunga; taglia dritta come un coltello pianure sconfinate, sotto un cielo pazzesco, enorme, è impossibile che non venga subito in mente l’appellativo che il Montana si merita: The Big Sky Country.
Ma attenzione alle soste, perché non appena ci si ferma e si abbassa il finestrino, con l’aria calda entrano nella macchina ad una velocità impensabile nugoli di zanzare, veramente tantissime, per fortuna non particolarmente aggressive.
La visita al Big Hole National Battlefield Monument ci porta ad incontrarci con il primo di 2 mondi che in queste zone si sono trovati faccia a faccia e purtroppo si sono scontrati: quello dei Nativi.
Questo luogo ha visto una delle più note tragedie delle “guerre indiane”; qui l’accampamento in riva al fiume dei Naz Perce, in fuga per non essersi piegati all’ingiustizia ed ai confini di una Riserva che l’esercito aveva imposto e poi via via ristretto, è stato ferocemente attaccato dalla Cavalleria degli Stati Uniti, che non ha risparmiato donne e bambini.
La storia è raccontata in un audiovisivo molto toccante, al quale i visitatori assistono in rispettoso e sgomento silenzio. E’ possibile anche seguire il Naz Perce Historic Trail, per seguire il tentativo di fuga di questo popolo all’interno della terra originariamente di proprietà, ma fuori dai confini imposti, infinitamente più piccoli.
Ancora qualche miglia, e la strada ci porta al paesino di Wisdom, sperduto nella piana e nella polvere delle sue strade.
Ed ecco venirci incontro il secondo dei 2 mondi, quello dei bianchi, dei cowboy: assistiamo, increduli, al cosiddetto Gun Show, una festicciola nella quale very cowboy (e cowgirl) si sfidano in una gara a cavallo con tiri di pistola a palloncini lungo il percorso.
Ad assistere entusiaste, urla comprese, persone che hai visto nei film ma non penseresti che esistano veramente: il vecchio in salopette con cappellino a unghia, il ragazzone con faccia pulita in jeans, maglietta e cappellone, la donna in camicia a quadretti, salopette di jeans e coda di cavallo bionda.
Pranziamo in un saloon, appoggiati al bancone (e dove se no?)
Mentre saliamo in macchina, ci avvicina un signore per chiederci da dove veniamo e, nel sentire che siamo italiani, ci regala molto soddisfatto un paio di bossoli di cartuccia…
Ma come dicevo, la strada per l’Idaho è lunga, bisogna salire Al Chief Joseph Pass e poi ridiscendere lungo la valle scavata dal Salmon…
Per fortuna, grazie all’insistenza di Stefania, non ci fermiamo al paese di Salmon, come io avrei fatto sfiduciato rinunciando a raggiungere Stanley, la nostra meta nel cuore della Sawtooth Wilderness Area.
Eh sì, perché Stanley è davvero un posto fantastico: chiuso tra montagne da favola, attraversato dal Slamon River di colore blu scuro, è un paesino fatto di case di legno, stile western, riunite attorno a poche vie in terra battuta. Le insegne più frequenti sono quelle delle agenzie che organizzano rafting sul Salmon, uno dei fiumi più rinomati per questo sport.
E’ ad una di queste che ci rivolgiamo non appena arrivati nel tardo pomeriggio, per prenotare un’escursione per la mattina successiva, il battesimo del torrente per la piccola Matilde…
Cena con bisteccona al Mountain Villane Restaurant e notte al Riverside Motel, una sorta di piccolo residence molto recente, elegante, con una ampia terrazza direttamente affacciata sul fiume. Forse il posto migliore di questa vacanza; 295 dollari per 2 notti, non è un posto economico, ma ne vale la pena.

10° GIORNO - L’Idaho che hai sempre sognato
La White Cloud Rafting Adventure è giusto fuori dalla porta del nostro hotel. Il gruppo che si riunisce per l’avventura sulle rapide del Salmon River è eterogeneo, gli unici ad avere un aspetto “omologato” sono i ragazzi dell’organizzazione, i veri “rafters”: li avevo già incontrati in Canada: praticamente sono una specie di surfisti, atteggiamento volutamente scanzonato, capelli lunghi, vestiti colorati e occhiali da sole, con la sola differenza, ovviamente, di essere un po’ meno marittimi e decisamente più “outfitter”. Noi scegliamo il percorso più tranquillo, che possa affrontare anche Matilde.
Però, per chi non abbia bambini al seguito, consiglierei di scegliere l’opzione un poco più avanzata, in quanto il nostro percorso si risolve in una lunga traversata tranquilla, intervallata, raramente, da tratti di rapide (per il vero più “complicate” del previsto). In conclusione, nonostante i costi elevati (circa 180 dollari in 3), l’avventura del rafting è assolutamente da non perdere.
La giornata nella natura si completa con l’escursione al Redfish Lake, uno splendido specchio d’acqua incastonato tra le montagne della Sawtooth National Recreation Area.
E’ domenica pomeriggio, e gli abitanti affollano il piccolo lido, con bambini che nuotano (acqua gelida), donne che parlano (strano per un’americana…) e uomini che si divertono cercando di infilare ferri di cavallo su piccoli paletti infissi nel terreno.
Alla sera, c’è musica dal vivo al Redfish Lake Lodge, la gente assiste numerosa seduta sul prato, noi abbiamo l’opportunità di goderci tutti gli spettacoli del momento: il tramonto nel lago, la musica, e soprattutto gli americani, cercando di capire qualcosa di questa gente, seduta accanto ad enormi frigoriferi da campeggio, che magari non avrà il nostro stile, che magari parla sempre e a voce spesso alta, ma che più di noi ci sembra incline al divertimento, magari anche semplice, comunque più brava a godersi le piccole cose, a stare nella natura con spontaneità.
Tornati al nostro albergo, ci sediamo fuori ad ascoltare il fiume. Nel buio, si intravedono sull’altra sponda alcune tipiche tende indiane, le voci dal fiume sembrano crescere in una melodia malinconica…

11° GIORNO - Il lupo ulula...
Nel suo spigolo sud-occidentale, Montana e l’Idaho s’incontrano lungo la strada 93, che scende dal Lost Trail Pass in un bellissimo scenario di montagna. A proposito, in questa zona, secondo la nostra guida dovrebbe trovarsi il Medicine Tree; in teoria è un grande albero sacro per gli Indiani, in pratica non l’abbiamo proprio trovato…
Sulla strada, superato il passo, ci imbattiamo nelle insegne del Lost Trails Hotsprigns Resort, presso Sula, e subito decidiamo di fermarci per la notte. Il resort è fatto da piccole casette di legno per il vero tenute neanche troppo bene, sparse in un bel bosco attorno ad un corpo centrale, anch’esso di legno ovviamente, in cui si trovano un ristorante e soprattutto una piscina termale aperta ai pochi ospiti del luogo, che si godono il meraviglioso ambiente circostante a mollo nell’azzurrissima acqua calda della vasca.
Nel pomeriggio facciamo una puntata nella cittadina di Darby, famosa per i suoi negozi di antiquariato. Questi, a dire il vero, sono inferiori alle attese, ma è comunque divertente passarci un po’ di tempo a curiosare tra il vecchio “vero” e le porcherie da west, tipo la tromba del 7° Cavalleria che adesso si rizza orgogliosa sul muretto del mio salotto.
La sera nel resort è di quelle da non dimenticare. Seduti sulla veranda della nostra casetta, riceviamo prima la visita di un cerbiatto curioso che si siede ad osservarci, poi l’invito di un altro ospite ad unirci alla sua famiglia, proveniente dallo Utah. Tanto per non uscire dagli stereotipi, è un reduce del Vietnam, con tanto di spille pacifiste attaccate al giubbino di jeans. Stiamo per un po’ attorno al fuoco (sul quale, e ti pareva, borbotta una pentola di fagioli) con lui, sua moglie, la figlia e quello strano tipo di suo genero, che sembra ubriaco marcio e parla una lingua incomprensibile. Si parla dell’Europa e del lungo viaggio che questo personaggio vi ha fatto tanti anni prima come hippy, sconvolto dagli orrori della guerra; accanto a noi stanno 2 veri lupi che la famiglia tiene praticamente come cani, uno dei quali, una femmina di nome Tooma, si lascia coccolare proprio come un cagnolone.
Ma, quando cala la notte, l’ululato dei lupi si diffonde nel silenzio del bosco, atmosfera da brividi…
Notte al Resort: 123 dollari cena e cabin

12° GIORNO - Indipendence Day, Pow-Wow day
Facendo una classifica tra le giornate emozionanti che ho passato in viaggio nella mia vita, il 4 luglio 2006 è senza dubbio in medaglia.
Tanti ricorderanno questa data per la semifinale Italia-Germania, che noi ci siamo persi; noi, invece, la conserviamo stampata e viva nella memoria per lo spettacolo della Festa, vissuta in due ambiti totalmente differenti, come quello del Pow-wow di Arlee, qualche miglia a nord di Missoula, e della festa tutta stelle-strisce a White-fish, Montana.
Ad Arlee, Montana, hanno organizzato la Festa del 4 luglio con la parata della città di mattina e con il successivo avvio del Pow-Wow nello spazio organizzato poco fuori dal centro abitato.
La parata è divertente: sfilano bambini nei colori nazionali e la piccola banda degli studenti, anziani in rappresentanza delle diverse organizzazioni e qualche carro da cui vengono lanciate caramelle agli spettatori, cowboy a cavallo, indiani ed ovviamente i vigili del fuoco, che come sempre riscuotono un grande entusiasmo.
Ma il clou comincia dal pomeriggio, con le celebrazioni del Pow-wow.
La manifestazione si svolge in un grande spiazzo polveroso, sotto alcuni tendoni e tra i vari stand allestiti. Noi abbiamo la fortuna di assistere alla Snake Dance, praticamente una sorta di serpentone umano che si snoda al ritmo di musiche tribali, fino a riempire di costumi, colori, movenze ed emozioni fortissime lo spazio sotto il tendone in cui si svolge.
Man mano il serpente “avvolge le sue spire” il ritmo ti entra dentro, ti senti avvolto dagli spazi infiniti del west, con addosso la storia e l’orgoglio di un popolo oppresso; non mi vergogno certo ricordando che l’emozione mi ha portato alle lacrime.
Finita la Snake Dance, c’è spazio per la toccante parata dei reduci di guerra (che purtroppo qui non sono solo vecchi come da noi) e per un indimenticabile inno cantato da una piccola indiana di 5 anni.
Lasciamo a malincuore il pow-wow, d’altronde abbiamo parecchia strada da fare per raggiungere Whitefish, all’estremo nord del Montana; strada peraltro bellissima, nella parte che si snoda lungo le sponde del Flathead Lake.
A Whitefish (cittadina molto gradevole stile western, molto verde, affacciata sul lago), riceviamo 2 notizie contrastanti, un po’ come da bambini, una bella e una brutta. Quella bella, stento a crederci guardando le news alla tele, è che abbiamo battuto ancora una volta i crucchi e siamo in finale!!
Quella brutta, davvero fantozziana, è che il celebre spettacolo di fuochi d’artificio sul lago, per il quale abbiamo prenotato proprio a Whitefish, è stato sospeso, interrompendo una tradizione che durava dal 1977!
Pazienza; armati di pizza gigante in cartone, ci sistemiamo sulla piccola spiaggia della città. Il lago è decisamente bello, un gruppo di signori nostalgici perfettamente “seventies” suona sotto un gazebo, passiamo alcune ore molto american e altrettanto piacevoli.
Quando si fa buio, non ci sarà lo spettacolo “ufficiale”, ma si scatenano quelli privati: non meno di un’ora di fuochi d’artificio provenienti da tutte le case attorno al lago, una vera gara a chi spara i fuochi migliori che mi ricorda tanto le competizioni tutte americane per la casa con decorazioni natalizie più scintillanti!
Il 4 luglio ci è davvero piaciuto: per lo meno in questa zona degli States è una festa allegra, spontanea, veramente sentita e direi senza fastidiosi eccessi, magari qualche birra in più in corpo per quei matti che a mezzanotte si buttano in acqua vestiti, ma nessuna sensazione di insicurezza, una vera festa delle famiglie!
Notte al Downtowner Motel: motel “ordinario”, 103 dollari

13° GIORNO - Sconfinato Glacier
Ecco un’altra perla del nord-ovest: il Glacier National Park, una grande area di Natura selvaggia, imponente, sconfinata, fantastica; il Parco è a ridosso del confine con il Canada, anzi in verità l’area protetta varca la frontiera, in quanto continua in Canada con il nome di Waterton Park.
Percorriamo la strada principale, la mitica Going To The Sun Road, che taglia il parco grosso modo in orizzontale; Probabilmente il traffico è il problema principale: la strada è una e non è di certo un’autostrada, e a volte diventa una sofferenza, soprattutto quando ci si trova davanti uno degli storici pullman rossi che accompagnano i turisti per il parco, molto affascinanti, ma di una lentezza esasperante!
Le passeggiate sono numerose e adatte a tutte le esigenze, dai sentieri asfaltati o su passerelle in legno percorribili con passeggini, ai trekking in zone montane impervie e molto isolate.
Noi prendiamo dapprima una breve deviazione che in una mezz’ora circa porta ad una zona boscosa attraversata da un torrente, giusto il modo per “entrare” nella Natura (tra l’altro da questo sentiero intravediamo l’unico orso della vacanza); poi, saliamo fino ai 2025 metri del Logan pass, lungo una strada spettacolare che sale dalla foresta del fondo valle fino alla rocce e ai ghiacci del passo. Da qui ci incamminiamo verso l’Hidden Lake, raggiungibile con una passeggiata di circa 1 ora e mezza che parte da dietro il Visitor Center .
Restiamo strabiliati dalla maestosità del panorama e dalla bellezza di paesaggi pressoché incontaminati. Il sentiero, per buona parte coperto dalla neve, è all’inizio piuttosto frequentato; poi man mano la gente si fa sempre meno numerosa ed il percorso continua tra montagne straordinarie fino ad una sorta di terrazza dalla quale si domina il laghetto, gemma verde incastonata tra monti di roccia grigia scura. Purtroppo, però, la neve ci ha rallentato parecchio e decidiamo di non scendere al lago (ci vuole un’altra mezz’ora circa), ma di tornare indietro per non perdere una puntata al Saint Mary Lake, il secondo del parco per dimensioni.
Erroraccio: il lago è bello, non ci sono dubbi, ma l’emozione non è per nulla paragonabile a quella che offre la solitudine di rara bellezza dell’Hidden Lake. Tra l’altro, decidiamo di salire su una delle barche che portano i turisti a fare il giro del lago, non contenti dell’esperienza negativa del Teton. Anche in questo caso, gita che non consiglierei, sinceramente tempo male impiegato, considerato che queste gite non sono economiche, durano parecchio e alla fine vengono mostrati gli stessi panorami godibili anche senza scendere in mezzo all’acqua.
Per la notte, abbiamo scelto il Lake Mc Donald Lodge, resort storico non lontano dall’entrata occidentale del Glacier, dove ho prenotato con largo anticipo una cabin a prezzo certamente non economico. Grossa delusione: la cabin non è altro che una casetta di 2 stanze condivisa con altri ospiti, praticamente 2 camere d’albergo del tutto anonime con un ingresso in comune; niente della soluzione affascinante che mi aspettavo, tanto che, contrariamente alle mie abitudini, mi rivolgo alla reception per protestare, ovviamente senza ottenere alcun risultato.
Ciò malgrado, va detto che la struttura centrale dell’albergo (quella che si vede nelle foto in internet) è all’altezza delle attese e ci godiamo sia una bellissima serata sulle poltrone davanti al fuoco, sia una colazione di grande qualità ed abbondanza (anche se non siamo sicuri che ci spetti, d’altro canto è una sorta di rivincita per la camera…).
Prezzo: 163 dollari
Il mio consiglio, a questo punto, è di prendere alloggio in uno di motel che si trovano appena fuori l’entrata del parco.

14° GIORNO - …Terra!!
Il nostro secondo giorno al Glacier dovrebbe essere un secondo giorno di escursioni, e il blu del cielo non potrebbe essere più invitante.
Però, superato il torrente ed addentratici nel bosco, Stefy comincia ad essere inquieta, la paura dell’orso si insinua pian piano nella sua testa.. alla fine, rassegnati, torniamo indietro, si cambia meta, via verso Apgar, alla punta occidentale del Lake Mc Donald.
La giornata è splendida ed il lago di un azzurro struggente. Noleggiamo una canoa e pagaiamo per un po’ nell’aria sottile; Matilde si diverte un mondo, soprattutto quando, come esausti navigatori, “conquistiamo” una spiaggetta isolata, sulla quale attracchiamo e passiamo un po’ di tempo tra ossa di dinosauro, legni di vecchie navi e preziosissimi sassi colorati.
Nel pomeriggio lasciamo il parco, direzione nord dell’Idaho. Attraversiamo una zona verdissima a ridosso del confine canadese, piena di invitanti indicazioni turistiche; tra l’altro, ci imbattiamo in una tempesta come quelle che da noi si vedono soltanto nei documentari: cielo buio color grigio scuro, acqua, grandine e raffiche di vento impetuose che fanno volare oggetti per la strada e ondeggiare pericolosamente i semafori appesi ai cavi sopra gli incroci.
Scegliamo di passare la notte a Sandpoint, di cui leggiamo bene sulla guida. A dire il vero, la cittadina è piuttosto anonima, forse avremmo fatto meglio a puntare su Wallace o su Coeur D’Alene, ma tant’è, siamo stanchi e una cena in un ristorante molto carino sull’acqua del lago ci ripaga ampiamente.
Notte al K2 Inn, discreto, nulla di più, 109 dollari.

15° GIORNO - Silverwoods, ovvero come morire assiderati all’aria frizzante dell’Idaho
Sarà da pazzi scatenati, ma come possiamo perderci una giornata a Silverwoods, il maggiore parco dei divertimenti del nord-ovest americano!?!
Il parco è diviso in due parti distinte: l’una è Silverwoods vero e proprio, con 2 ottovolanti in legno ad alto contenuto adrenalinico e qualche gioco abbastanza “selvaggio”, come una sorta di tranquillo autoscontro su barchette, che però vengono bersagliate dai bordi della vasca con impietosi getti d’acqua che gli altri visitatori azionano (a pagamento) per soddisfare i più bassi istinti sadici; l’altra è chiamata Boulder Beach, ed è un parco acquatico, con scivoli di vario tipo, piscine e massacri d’acqua vari. Insomma, nella sua totalità un parco non enorme, ma che diverte e soddisfa.
Peccato che l’aria dell’Idaho sia un tantino frizzante, anche se il sole splende il cielo; così capita che la coda per gli scivoli, o quella specie di inespugnabile castello con acqua che arriva da tutte le parti divenga una tortura del freddo per noi italiani, in mezzo a vigorosi northamericans non curanti della bassa temperatura!
Serata a Spokane: rendiamo la macchina, cena e pernottamento al lussuoso al Ramada Inn di fronte all’aeroporto.
La nostra vacanza è finita e si torna a casa, quanto meno noi pensiamo di tornare a casa…

16° GIORNO - Chi mi ha preso il barattolo con le firme dei jazzisti?
Mi sento tanto dentro il film “The terminal”, chiuso nella prigione dorata di quello che è stato giudicato uno degli aeroporti più belli del mondo, il Denver Internationale Airport, reso famoso dalle nuovissime coperture in teflon che ne rendono inconfondibile la sagoma anche a grande distanza.
Quando, arrivati con un volo perfetto della Frontier Airline e passata qualche ora sulle sedie del terminal, vediamo che il volo Air Canada per Toronto è in ritardo tale da farci perdere la coincidenza per l’Europa, comincia una giornata bruttissima.
Ritardo, ritardo e ancora ritardo. Partiamo dopo circa 10 ore in aeroporto, senza sapere se avremo il posto per il volo per Vienna, nella serata del giorno successivo.
E, più che un beffa un disastro, ci perderemo pure la finale di Coppa del Mondo!!
Ma tutto cambia, come per magia, quando i simpatici impiegati della Air Canada di Toronto i accolgono nei loro uffici e ci consegnano voucher per l’albergo e biglietti per il volo del giorno dopo.
Notte, inattesa, a Toronto, al Delta Toronto Airport Hotel, albergo di ottima qualità che purtroppo non riusciamo a goderci appieno, visto che arriviamo a notte inoltrata. Non so quanto costi, ovviamente ce l’ha pagato la Air Canada.

17° GIORNO - L’Italia dall’altra parte del mondo
E’ il grande giorno.
A Toronto, ci spiegano in albergo, vivono circa 6-700.000 persone di origine italiana; la tensione per la partita è altissima e la si avverte già sulle tangenziali che corrono attorno alla città, sulle quali le macchine espongono in gran numero bandiere dell’Italia…
Si va, anzi si corre, verso College Street, cuore della Little Italy della città. In strada, gente vestita di azzurro o avvolta nel tricolore, ci sono concertini improvvisati per strada e cori per gli azzurri.
Non avrei mai creduto di vivere un’esperienza del genere; vediamo la partita al di fuori di un bar, la gente ci riserva un’accoglienza incredibilmente calorosa, compreso Gino, il padrone del bar di origine calabrese che, tra un abbraccio e l’altro, alle 11 di mattina mi offre una birra e una grappa a stomaco vuoto, e guai a rifiutare…
Così, tra urla, canti ed esclamazioni in italo-anglo-canadese, esultiamo con i nostri “connazionali all’estero” come dicevano una volta i telecronisti delle partite di pallone; alla fine, tra gli abbracci generali, c’è addirittura chi ci ringrazia, non so per cosa, forse di aver condiviso con loro la gioia della vittoria, forse per averli fatti sentire più vicini all’Italia. In realtà, siamo noi a ringraziare loro: dell’accoglienza, sì, ma soprattutto per averci aperto gli occhi verso una realtà che neanche immaginavamo, per averci fatto vedere e toccare cosa significhi l’attaccamento ad una nazione, a quella bandiera che troppo spesso diamo per scontata, quando addirittura non denigriamo.

18° GIORNO - Fatece largo che passamo noi…
Largo ai campioni del mondo! Bello assaporare una vittoria del genere all’estero: a casa non capita certo di trovare un sacco di gente che ti fa i complimenti, di norma sinceri perché gli anglosassoni meglio di noi sanno riconoscere il merito ed il vincitore. Si torna a casa, e con questo sorriso stampato sul viso superiamo anche le ultime vicissitudini, cosa vuoi che sia una valigia che ritarda di fronte ad una coppa alzata nel cielo tedesco!? (certo, facile scriverlo quando è passato del tempo…).

Curiosità 

- Avete presente i camperoni che si vedono in qualche film americano, tipo quello che De Niro trasforma in un laboratorio per lo spionaggio in “Ti presento i miei”? Volevo rassicurare tutti: esistono veramente. Bestioni enormi gestibili solo sulle ampie strade americane. Mi dispiace non averne visto nemmeno uno dall’interno…
- Questo è stato il viaggio degli stereotipi, in cui abbiamo constatato come tutte le leggende che si dicono sugli americani o che si vedono nei films sono sostanzialmente vere. Incredibile!
Mi ha sorpreso l’uso continuo dello “Yeah”, sia come affermazione, sia quasi come un intercalare; sinceramente l’ho trovato sì divertente, ma non mi è sembrato che valorizzi molto le persone che lo usano così di frequente.
Ricordiamo divertiti il fatto che, sempre quando entri in un negozio / locale, o semplicemente quando incontri una persona, questa immancabilmente ti rivolga uno squillante: “How are you guys?”, molto cortese peraltro, con un bel “Yeah” strascicato che segue la tua risposta positiva.
- Posso dirlo con certezza: gli americani sono ossessionati dalle bibite e dal ghiaccio. Bevono in continuazione, di solito da grossi contenitori di plastica colorati che in Italia non ho ancor visto, che si portano con sé a piedi, in bici, in macchina, praticamente sempre.
E poi il ghiaccio, che riempie interamente il bicchiere al ristorante, oppure che viene esposto in grossi contenitori posti fuori dagli stores ai bordi della strada. Il ghiaccio è davvero una mania, per capirlo basta guardare gli occhi di una qualsiasi cameriera quando le viene chiesto di non metterlo nella bibita che si sta ordinando…
- Lewis & Clark , gli esploratori che nei primi anni del 1800 partirono da St.Louis, nle Missouri, per arrivare ad addentrarsi in questa remota zona del west, sono veri e propri miti qui. Innanzitutto se ne possono seguire le orme lungo un itinerario di diversi giorni che ne ripercorre il percorso. Ma le loro piccole immagini sono un po’ dappertutto, a testimonianza di quanta importanza l’America attribuisca agli esploratori ed in genere agli uomini che cercano di ampliare gli orizzonti, che tentano (e riescono) l’impresa. Così Lewis & Clark, praticamente sono diventati un nome unico, campeggiano ovunque; basti pensare, per esempio, alla rilevanza che hanno nel recente film “Una notte al museo”, dove il valoroso Roosvelt di cera si innamora dell’indianina che fece da guida ai nostri esploratori…
A proposito, ho un preziosismo “Passport to the Lewis & Clark Trail 2005”, un vero vademecum per seguire passo per passo l’itinerario dei 2 illustri esploratori
- Gli States sono la terra degli eccessi, questo si sa. Qui tutto è “giga”, ha dedotto dopo pochi giorni Matilde, senza che nessuno le avesse insinuato questa idea. Sono ampie le strade ed enormi le macchine, capienti i bicchieri e angoscianti le porzioni, infiniti gli spazi naturali e alta la voce della gente, grande l’orgoglio e tante le ingiustizie che queste terre hanno visto.
Altra cosa che mi ha colpito è l’aria condizionata, sempre al massimo, compreso quando non ce n’è affatto bisogno; ricordo, ad esempio, la navetta dell’albergo che alla mattina presto ci porta dall’albergo all’aeroporto di Denver: fuori l’aria decisamente frizzante della mattina, dentro aria condizionata a mille e un freddo cane.
Dimenticavo: qualcuno sa dirmi perché gli autisti americani mangiano e devono in continuazione a qualsiasi ora del giorno e della notte? (patatine e snacks vari, bicchieroni di polistirolo con caffè ai gusti più svariati)
- Chi non ricorda la bianca scritta “Hollywood” che sovrasta la città dalle colline?
In questo viaggio ho imparato che non è affatto una peculiarità di Hollywood, benché quella sia certamente la scritta più nota: scritte analoghe, o magari solo le iniziali, campeggiano sulle alture attorno a diverse altre cittadine dell’ovest. Certo, non fanno lo stesso effetto…
- Altra Us-mania di cui non ero a conoscenza: i fuochi d’artificio. I negozi che li vendono sono ovunque, addirittura molti sono specializzati in Fireworks ed espongono inquietanti coloratissime insegne. Non so se fosse l’appropinquarsi del 4 luglio, festa per eccellenza in cui si sparano i fuochi, ma una diffusione simile proprio non me l’aspettavo.
- Piccola nota dolente: l’avvistamento di animali. Parlando di “Ovest”, tra Usa e Canada non c’è paragone, chi vuol vedere gli animali vada senza esitazione in Canada. Ci aspettavamo di vedere molti più animali liberi: nemmeno un orso, nè a Yellowstone, né al Glacier (tranne forse uno di sfuggita); cervi sì ma solo a Yellowstone, alci sì ma niente aquile e niente lupi, una gran quantità, quelli sì, di bisonti a Yellowstone e di Bighorn Sheep, le bianche capre di montagna al Glacier.
Va peraltro detto che l’avvistamento di animali, orsi compresi, diventa ovviamente tanto più frequente quanto più ci si allontana dai sentieri maggiormente battuti; giusto qualche giorno fa ho visto in un documentario il racconto davvero terrorizzante di padre e figlia aggrediti da un grizzly al Glacier. Saranno casi rari, ma very impressive!!
- I Rangers dei Parchi sembrano essere una vera istituzione, “americanamente” orgogliosi nella loro divisa verde dell’importante ruolo a loro attribuito. La gente rivolge loro un sacco di domande e loro rispondono a tutti con un radioso sorriso e una bella ridondanza di parole. In pratica, se la tirano alla grande…
- Nell’agosto del 1988, un insieme di circostanze eccezionali, come il gran caldo, le scarse precipitazioni e le forti raffiche di vento, contribuì a trasformare alcuni normali focolai nel più vasto incendio che la storia di Yellowstone ricordi, durante il quale numerosi animali sono morti e vaste aree del parco sono state distrutte (tuttora distese di alberi anneriti coprono intere vallate, come una marea nera veramente impressionante).
Per domare le fiamme, ci fu un grande spiegamento di forza, una vera “americanata”, con più di 25.000 uomini, decine di elicotteri e altri mezzi antincendio.
E agli statunitensi, però, piace evidenziare come tutti questi sforzi si siano dimostrati praticamente inutili, in quanto l’incendio si spense per l’arrivo della pioggia e della neve, e non grazie alla tecnologia umana, e si dimostrò che l’area distrutta sarebbe stata sostanzialmente la stessa senza alcun intervento umano, a confermare l’assoluto dominio della Natura di Yellowstone.
La catastrofe non fu però veramente tale, ma si inserì piuttosto in un ciclo vitale “naturale” e, anzi, per alcune circostanze fu addirittura un beneficio.
Infatti, la stragrande maggioranza degli animali non ebbe problemi a spostarsi in zone non minacciate dal fuoco e si adattò rapidamente alla mancanza d’erba cibandosi degli aghi di pino. Morirono piuttosto parecchi insetti ed uccelli, oltre ai pesci uccisi dal calore dell’acqua o dall’inquinamento causato dalle sostanze antincendio.
Addirittura, le fiamme ed il successivo gelo contribuirono a ristabilire la popolazione dei cervi, che erano aumentati in modo eccessivo a causa del clima mite, ma molti dei quali non superarono l’inverno.
In primavera, poi, le precipitazioni contribuirono a far sì che la cenere penetrasse ne terreno, rendendolo fertile, e spuntarono erba e fiori nuovi in gran quantità.
Benefici ne ebbero anche le foreste, che sostituirono i vecchi alberi con nuovi piccoli pini; e anche i fiumi, grazie al deposito di sedimenti sul fondo dei bacini che arricchirono la’cqua di sostanze nutritive.
In sostanza, nel corso di quell’incendio che molti temevano potesse rappresentare la fine del Parco, Yellowstone non fece altro che riportare il proprio sistema ecologico ad uno stadio successivo; d’altro canto, nel corso dei millenni la Natura del Parco è ricorsa al fuoco per muovere gli ingranaggi delle sua esistenza, in una continua storia di ciclici distruzioni e rinnovamenti.

Note dolenti

- BUROCRAZIA Cominciamo con il piede giusto, subito una bella generalizzazione. Di fronte all’elasticità ed alla disponibilità dimostrate dal personale della Air Dolomiti di Verona, mi trovo a fronteggiare, stavolta non certo per colpe mie, l’ottusità e la rigidità della macchina burocratica americana.
Il nostro itinerario prevede circa un’ora e mezza tra il volo che arriva da Vienna e quello in partenza da Toronto. Non molto, è vero, però i 2 voli sono della stessa compagnia, ci diciamo, sapranno bene se la cosa sia possibile o meno…
Il problema sorge già in aereo: a Toronto è prevista la dogana per l’entrata negli Usa, ma nessuno sa veramente risponderci quando chiediamo se dobbiamo ritirare i nostri bagagli o se questi volino diretti a Denver. Otteniamo mille risposte diverse, e ancora oggi sinceramente non so quale fosse quella giusta.
Sì, perché arrivati a Toronto, constatiamo con preoccupazione che l’aeroporto è in rifacimento e il tragitto da un terminal all’altro, coperto in pullman, è veramente lungo. Arrivati in prossimità della dogana, con il tempo che ormai stringe inesorabile, il nastro gira tristemente vuoto e le nostre valigie non ci sono. Inizia la trafila dei famigerati moduli statunitensi: loro hanno veramente un modulo da riempire per qualsiasi cosa e non si degnano di rispondere ad una richiesta di informazioni o di aiuto in nessun altro modo, se non presentandoti l’apposito modulo. Alla fine partiamo, i nostri bagagli non si sa dove siano, a Denver ovviamente non arrivano con noi.
Per carità, non siamo i primi a cui vanno smarriti i bagagli, quello che fa veramente incazzare è l’impossibilità di avere un’informazione, niente di più, dalla stessa azienda che dopo tutto ha creato il problema; e poi la risposta, sempre uguale e ripetuta in eterno, dell’addetto all’ufficio bagagli: “I have no idea”. Te possino… Il giorno dopo, la vicenda si chiude, non tutti gli impiegati per fortuna sono uguali, le valigie miracolosamente compaiono giusto di fronte all’ufficio Lost and found: non pensavo di poterle amare tanto…
Non è finita, eccoci al ritorno: l’aereo da Denver a Toronto parte in ritardo di circa 4 ore, praticamente la coincidenza per l’Europa è persa, e la sera ci sarebbe stata la finale dei Mondiali… Mi sento tanto come Tom Hanks in “The terminal” durante le circa 10 ore passate in aeroporto a Denver, sulle sedie o nelle diverse code che si ripetono allo sportello della United Airlines. Anche qui, la burocrazia, impera, le risposte a monosillabi si susseguono. Alla fine, divento quasi amico della signorina al banco, probabilmente impietosita da questo italiano in preda allo sconforto con bimba al seguito. Ciò non toglie che non mi facciano il re-booking sul volo del giorno successivo per Vienna, semplicemente perché ho il torto di non aver acquistato i biglietti su internet, ma in agenzia (colpa gravissima, a quanto pare) e questo non consente loro di collegarsi al “sistema” della Austrian; telefonare alla Austrian o alla Air Canada, d’altronde, è impossibile, il fuso orario diverso fa sì che gli uffici siano chiusi. Benissimo, e noi? Dopo interminabili discussioni, partiamo per Toronto, dove ci viene assicurato che troveremo un addetto della United ad attenderci con i voucher per l’albergo dove passare la notte. E chi l’ha visto? Aeroporto deserto nella notte canadese, i nostri passi che risuonano nei corridoi desolatamente vuoti, fino a che raggiungiamo l’ufficio della Air Canada, dove il gentilissimo personale ci accoglie e ci aiuta a risolvere i nostri problemi con estrema cortesia. La nostra considerazione? Usciti dagli Usa, ritroviamo in Canada la stessa disponibilità e l’efficienza che avevamo lasciato in Italia, difficile non generalizzare…
Dimenticavo: giunti in Italia, ovviamente manca una valigia, che arriva 3 giorni dopo. D’altronde, come altro poteva finire?
Conclusione:
1) un viaggio per gli States che preveda 2 soste è molto a rischio di problemi con bagagli e coincidenze
2) meglio acquistare i biglietti in internet: si risparmia e si evitano problemi in caso di necessità di re-booking
- Altra nota negativa è il trattamento ricevuto da Europ-car e CTS Viaggi, tramite cui ho prenotato i voli, il noleggio macchina e il noleggio di un’autovettura da Milano Malpensa a Brescia. Al ritorno, mi sono visto addebitare un prezzo circa doppio di quello pattuito per quest’ultimo servizio di noleggio. Presentata la documentazione per il reclamo tramite il Cts, semplicemente non ho più ricevuto alcuna notizia. La cifra è piccola, ma il comportamento certamente non corretto. Mi dispiace, sono stato un cliente Cts per tanti anni, penso che questa sia stata l’ultima occasione.

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