Amazing Zimbabwe! - Parte prima

L’ennesima conferma che l’Africa non tradisce mai i propri estimatori!

Si pronuncia “Zimbabue”, ma tutti lo chiamano “Zimbaue”.
Come mai tanta uniformità? ci chiediamo, oltre a domandarci perché Africa, nell’immaginario collettivo, è sempre sinonimo di caldo, siccità, fame, malattie, pericoli di varia natura.
E’ infatti folta la schiera di chi, dopo aver chiesto quale sarà la nostra prossima destinazione e non si ferma a un laconico “ah, Zimbaue!”, si preoccupa di quanto caldo patiremo, di come faremo a lavarci e se e cosa ci daranno da mangiare…
Dedico questo resoconto di viaggio a tutti coloro che si sono posti e si porranno le stesse domande.
Come nasce l’idea di visitare lo Zimbabwe?
Può sembrare superficiale, comunque un paio di immagini e un articolo ben scritto è la risposta esatta. Ma andiamo per ordine.
All’incirca due anni fa, in aeroporto a Victoria Falls, al termine di un viaggio in Botswana, annotavo nominativi e indirizzi di operatori locali pubblicizzati su grandi cartelloni, con la speranza che in futuro la pesante crisi economica che allora soffocava il Paese si smorzasse e che lo Zimbabwe tornasse a essere la meta di un tempo, frequentata da molti visitatori.
Un viaggio in Zimbabwe era dunque un progetto riposto in un cassetto, in attesa di tempi migliori.
Una rivista di nuova pubblicazione, “La nostra Africa”, periodico trimestrale, nel secondo numero, uscito lo scorso dicembre, riporta – tra gli altri – un interessante articolo dal titolo “A spasso tra i giganti”.
Il reportage sulle Matobo Hills, corredato da belle immagini e indirizzi utili, accende la miccia e mette in moto quella “urgenza” che spinge Sandro e me a pensare “andiamoci!”.
L’Ambasciata italiana, con sede nella capitale dello Zimbabwe (Harare), sconsiglia il viaggio, appellandosi a ipotetici e mai verificatisi disordini.
Tale risposta non ci meraviglia e neppure ci turba. Ormai è un classico, per quasi ogni meta africana la “storia” si ripete senza significative variazioni.
Basta invece chiedere informazioni fuori dal nostro Paese, a Londra per esempio, per ricevere rassicurazioni in merito alla fattibilità del viaggio e per convalidare il sospetto che il ruolo delle nostre ambasciate all’estero è quello di non avere un ruolo e di evitarsi qualsiasi tipo di problema scoraggiando, immotivatamente, il turismo.
Arrivano quindi risposte incoraggianti e proposte di itinerari sia da Londra che direttamente dallo Zimbabwe.
La nostra idea è quella di visitare le Matobo Hills, di spostarci poi a nord per trascorrere alcuni giorni nell’isolamento di Hwange N.P., raggiungere la valle dello Zambesi con sosta al lago Kariba e, infine, prima di rientrare ad Harare, ultima tappa a Mana Pools.
Gli operatori interpellati propongono programmi molto simili e la sistemazione, per quanto riguarda i Parchi Hwange e Mana Pools, nei safari camp di proprietà Wilderness Safaris.
Ho l’impressione che, dopo anni di interdizione, crisi economica, dittatura dell’inossidabile Mugabe, epidemie, non ci sia ancora una rete turistica molto estesa e che sia saggio e prudente non cercare soluzioni alternative, evitando di uscire da quelli che sono evidentemente considerati circuiti sicuri.
Wilderness Safaris è un nome noto, una garanzia, oltre che un’organizzazione impegnata in diversi progetti volti alla tutela dell’ambiente e delle comunità locali.
Stabilito un contatto via e-mail, le risposte ricevute sono alquanto soddisfacenti: il viaggio è fattibile in totale sicurezza, inoltre il preventivo di spesa è inferiore a quelli già esaminati.
Soddisfatta, confermo date e programma.
E’ fatta! in realtà manca ancora tanto tempo, siamo solo a gennaio, ma la partenza è ormai una certezza ed è fissata per il giorno 11 luglio 2011.
Anche per quanto riguarda i voli, la fortuna è dalla nostra parte. Tramite Expedia trovo una combinazione di voli Afriqiyah Airways, per la tratta Milano/Johannesburg con scalo a Tripoli, più 2 voli South African Airways, da Johannesburg a Bulawayo e da Harare a Johannesburg, a un prezzo incredibilmente basso.
La compagnia aerea libica Afriqiyah, che non conosco, ma che viene utilizzata da noti operatori turistici italiani, può offrire tariffe molto convenienti grazie al fatto che la Libia è uno dei maggiori produttori di petrolio.
La serenità, però, dura poco. Tempo un paio di mesi dall’acquisto dei biglietti aerei, la situazione in Libia precipita inaspettatamente: dalle proteste popolari alla sanguinosa guerra il passo è breve.
Nessuno più risponde dei nostri biglietti.
La società italiana di rappresentanza della compagnia aerea si eclissa e anche Expedia, con esasperanti messaggi “fotocopiati” contenenti ringraziamenti per la preferenza accordata e generici inviti a ulteriori contatti, fa orecchie da mercante alla serie di reclami. Gli operatori del call center non sembrano meno automi di un risponditore automatico.
La data di partenza si avvicina, ormai rassegnati a considerare carta straccia i biglietti già acquistati e per non rischiare di trovarci a piedi o costretti a pagare tariffe molto elevate, opzioniamo altri voli per Johannesburg con Ethiopian Airlines.
Qualche settimana dopo, del tutto inaspettatamente, Expedia comunica telefonicamente d’aver emesso nuovi biglietti in sostituzione di quelli inutilizzabili.
Non so a cosa devo tale decisione. Ho collezionato inequivocabili rifiuti sia per iscritto che per telefono, sta di fatto che la comunicazione verbale è seguita da conferma via e-mail recante date e orari dei nuovi voli e non mi pare vero.
Per precauzione attendo qualche giorno, poi per correttezza annullo le opzioni Ethiopian.
Ansiosa, ricontrollo le prenotazioni quotidianamente, sino al brutto giorno in cui… panico, incredulità, desolazione, rabbia… sono spariti tutti i voli!
Contatto telefonicamente e scrivo alle compagnie aeree inserite nel ns. itinerario (Lufthansa, SAA, Swiss) minaccio Expedia, non ci posso credere, deve esserci una spiegazione, ma tutti confermano che non siamo prenotati su alcun volo.
Manca poco più di un mese alla partenza, ho annullato le opzioni Ethiopian, pagato il saldo a Wilderness Safaris… non può andare tutto in fumo!
Passato qualche giorno, le cose si aggiustano.
Nessuno ha saputo spiegarmi per quale ragione siano state cancellate le prenotazioni, ma tutto è bene quel che finisce bene.
Il check in online e la stampa delle carte d’imbarco dissipano ogni timore residuo.

Itinerario
11 luglio 2011
A Malpensa tutto fila liscio, esibiamo i documenti e spediamo i bagagli che ritireremo una volta giunti a destinazione finale (Bulawayo).
Il volo Lufthansa per Francoforte parte in perfetto orario, il volo SAA per Johannesburg decolla invece in ritardo, ma poco importa.
Dopo la distribuzione del pasto, ci rilassiamo e ci addormentiamo.
La nottata in volo scorre velocemente.

12 luglio 2011
A Johannesburg, il cielo grigio, le nuvole basse, il suolo bagnato, rappresentano ormai il consueto “panorama” di questa città dove transitiamo per l’ennesima volta.
Non facciamo pertanto caso al freddo, imputando i primi brividi al nostro look estivo e all’impianto di condizionamento che soffia aria gelida all’interno del terminal.
Così, anche il personale sudafricano dei vari desk, uffici, shop ci pare bizzarro con i cappotti scuri, i pellicciotti sintetici, alcuni indossano addirittura guanti, sciarpe, stivali…
strani, molto strani, ci ripetiamo, mentre dal bagaglio a mano sfiliamo una felpa e seguiamo il percorso fino al gate di imbarco sul volo diretto a Bulawayo.
Sorvoliamo uno spesso strato di nuvole, dall’aspetto inquietante, e nel grigiore diffuso raggiungiamo lo Zimbabwe.
Nel modesto aeroporto di Bulawayo realizziamo che fa freddo e non a causa dell’aria condizionata.
Siamo fuori luogo e ridicoli con i sandali, i piedi nudi e i polpacci scoperti.
L’inverno australe ci accoglie con una temperatura diurna (è circa mezzogiorno) di 8°-10° e ride bene chi ride ultimo direbbero i sudafricani che abbiamo giudicato persone un po’ naif.
Recuperati i bagagli e, in fila, in attesa di sottoporci ai controlli, non possiamo fare a meno di notare le lunghe casse metalliche dei passeggeri che hanno qualche cosa da dichiarare.
Osserviamo la complicata trafila cui devono sottoporsi, per scoprire che le casse contengono fucili da caccia e che i loro possessori sono individui che a breve, dopo aver speso una fortuna, poseranno per una foto rituale accanto all’animale abbattuto.
Il disgusto per tale fetta di umanità supera di gran lunga il nostro stupore per la bassa temperatura.
Una donna ci attende all’uscita e questo appuntamento segna l’avvio concreto di quanto stabilito solo sulla carta e via e-mail. Una soddisfazione, indubbiamente!
Circa 50 km ci separano da Amalinda Camp e dalle Matobo Hills.
Le Colline Matobo (World Heritage Site):
“Le Matopos (colline del Matobo) esercitano un’attrazione particolare che costituisce la loro essenza. Ci sono altri grandi massicci di granito in Rhodesia (Zimbabwe), ma c’è qualcosa nelle Matopos che le distingue dalle altre formazioni rocciose, qualcosa di mistico, che riecheggia la profonda devozione di tutti coloro che le hanno, per secoli, ritenute un luogo sacro […]
L’accesso più comune alle Matopos è da nord, ma è giungendo da sud che il nobile massiccio roccioso appare in tutto il suo splendore, elevandosi come un bastione dal grande mare d’erba del basso veld.
In ogni angolo delle colline, scene di incredibile bellezza selvaggia si succedono: i licheni pennellano di rari e delicati colori le rocce, nella luce tenue del primo mattino e in quella calda del tramonto.
Inoltre, una serie numerosa di eventi di fondamentale importanza storica per il Matabeleland, sembrano avere origine proprio dalle Matopos.
Le Matopos sono uniche […] Qualcuno le ha definite la Svizzera della Rhodesia […] Ma le Matopos sono semplicemente le Matopos. Le nostre Matopos, così vicine al cuore della nostra nazione”.
Liberamente tradotto da “The Matopos”, Sir Robert Tredgold. 1956
Il viaggiatore che percorre i sentieri delle colline di granito del Matobo, non potrà non condividere la sensazione espressa da Sir Robert Tredgold, in cui la meraviglia per l’opera selvaggia e maestosità della natura, lo smarrimento al cospetto di tante e tali testimonianze storiche (dall’alba dell’uomo alla contemporaneità) di cui questo luogo sembra pregno, e il timore mistico tipico dei luoghi di culto, si fondono, catalizzati dal vento, che sempre spazza le cime arrotondate dei kopje, lasciandoci in muta contemplazione.
Le colline sono di tale bellezza che anche il Parco Nazionale, ricco di fauna, rimane, al loro cospetto, un ricordo secondario.
Nel Matobo, si raccolgono le formazioni di “rocce in bilico” (balancing rocks) più spettacolari e numerose dello Zimbabwe.
Alcune assumono equilibri talmente impossibili da sembrare ciclopiche opere dell’uomo, paragonabili ai dolmen e menhir dell’età del ferro. La natura granitica conferisce loro un colore rossastro di grande effetto, accentuato dalle “pennellate” di colore dei licheni che le ricoprono.
Da sempre, le colline del Matobo, sono parte fondamentale della tradizione Ndebele, che da secoli le venera quali luogo magico e di culto. Molte di queste colline sono sacre e vi si svolgono ancora oggi cerimonie mistiche legate al culto di Mwari. Nei momenti più difficili della nazione Ndebele, le colline sono state un punto di riferimento insostituibile e la tradizione vuole che tra queste cime inaccessibili di granito, risiedesse l’Umlimo, una sorta di strega profetessa, alla quale i re si rivolgevano per prendere decisioni importanti.
Ai piedi di queste rocce, si è svolta una parte importante della storia del paese. Dalle battaglie del secolo scorso tra gli impi di re Mzilikazi e l’esercito inglese, alle repressioni sanguinose degli anni ’80 contro i “dissidenti” Ndebele, da parte del neo-costituito governo nazionalista dello Zimbabwe.
Le formazioni rocciose: balancing rocks e dwala:
Le rocce del Matobo sono principalmente formate da granito, cioè roccia intrusiva, formatasi in seguito alla solidificazione lenta del magma sotto la superficie terrestre.
Soltanto in alcuni punti il granito è venato di quarzo, generato dalla metamorfosi di rocce sottoposte a temperature e pressioni elevatissime.
Queste rocce si distinguono in due tipi, facilmente riconoscibili: le tipiche “balancing rocks” formate da pile di massi squadrati dalle forme bizzarre, e le grandi colline tondeggianti, dalla superficie liscia e dalla forma a dorso di balena, denominate “dwala”.
Qui, in un bellissimo lodge incastonato tra enormi blocchi di granito, trascorriamo 3 giorni.
Il paesaggio è a dir poco stupefacente. La sistemazione, con pochi “cottage” di pietra costruiti accanto o attorno ai massi, è molto particolare. Le abitazioni e le zone comuni sono distribuite su più livelli di una collina e collegate tra loro da passaggi sospesi e gradini scavati nella roccia.
Apprezziamo l’insolita architettura e i dettagli dei vari ambienti, ma l’assenza di vetri alle finestre nelle camere, gli spazi “open” e la temperatura che durante la notte scende sotto lo zero, ci preoccupano un poco, così come le cene all’aperto, su una panoramica terrazza ricavata da un basamento roccioso.
Ci vestiamo in modo più appropriato, pranziamo e ci godiamo una prima uscita a piedi, guidati da Edgan, giovane guida africana con tanta passione per l’ambiente e gli animali.
Seguiamo, avvicinandoci cautamente, una famigliola di zebre composta da maschio, femmina e un piccolo. Le zebre ci annusano e si bloccano: è un successo perché generalmente se si tenta di avvicinarle con una jeep tendono a fuggire.
Ci fermiamo a lungo a osservarle, scattando qualche bella fotografia.
Saliamo in cima a una collina, un insieme di pietroni tondi pennellati dal giallo dei licheni, che ci regala una superba vista su una porzione molto ampia di territorio. Il cielo grigio penalizza luogo e colori, ma al tramonto alcuni raggi di luce forano le nubi colorando le rocce di calde sfumature arancio.
Raggiunto un laghetto ammiriamo alcuni kudu intenti a bere e, infine, tra le altre cose, Edgan ci mostra, maneggiandoli e ispezionandoli con fare esperto e disinvolto, gli escrementi bianchi, ormai secchi, di un leopardo, predatore notturno qui presente, ma raramente visibile durante il giorno per la sua natura molto elusiva.
Conosciamo ormai le abitudini di questo animale davvero schivo e sappiamo che occorre una gran dose di fortuna per incontrarlo.
Il buio incombe, rientriamo per la cena che consumiamo, anziché seduti attorno al grande tavolo, vicino al fuoco.
Raggiunta la nostra “casetta”, rabbrividiamo al pensiero di spogliarci e infilarci nel letto gelido, ma una provvidenziale termocoperta rende decisamente meno drammatico lo zero termico e gli spifferi d’aria che soffiano dalle tante finestre chiuse soltanto da “tendine” di paglia.

13 luglio 2011
In barba a chi ci immagina grondanti sudore e disidratati, prendiamo posto sui sedili di una jeep scoperta, infagottati in voluminose trapunte.
Ci spostiamo attraverso le Matobo Hills e le innumerevoli formazioni costituite da massi di granito sovrapposti in posizione - solo in apparenza - precaria a formare statue, profili e figure cui è intrigante attribuire sempre diverse fisionomie.
La più bella e famosa tra le balancing rocks è senza dubbio la “mother in charge”, così chiamata per la sua straordinaria somiglianza al profilo di una donna che reca un bimbo legato sulla schiena. La “scultura” è imponente e la sua mole spicca già da molto lontano. Avvicinandosi non ci si può sottrarre al fascino di questa ciclopica opera della natura.
Visitiamo una delle tante grotte qui presenti, ricca di pitture rupestri risalenti a diverse migliaia di anni fa.
Ci perdiamo nei dettagli e il tempo sembra essersi fermato mentre, sulle pareti di roccia, riconosciamo orici, eland, kudu, rinoceronti e tutta l’antica fauna africana, raffigurata con tratti quasi stilizzati, ma con tale esattezza di particolari da risultare inconfondibile.
Consumiamo il pranzo, contenuto in graziosi cestini di paglia, sulla sommità di un kopje che domina un’immensa vallata verde punteggiata da colline di granito.
Mentre osservo il paesaggio, riconosco i luoghi descritti da Wilbur Smith in diversi suoi romanzi e, nel silenzio e nella quiete, portati dal vento che soffia in questo preciso momento, sembra quasi di udire in lontananza il suono dei tamburi dei valorosi guerrieri Ndebele e l’echeggiare degli spari dei cacciatori bianchi.
Dedichiamo il pomeriggio alla scoperta del Matobo N.P.
Ci indirizziamo, seguendo le indicazioni dei ranger, verso l’area dove sono stati avvistati, solo poche ore fa, almeno una mezza dozzina di rinoceronti, ma la nostra “caccia” si rivela infruttuosa.
Una diga sbarra il corso di un fiume creando un piccolo lago color smeraldo, perfetto habitat per ippopotami e coccodrilli.
Superato lo sbarramento artificiale e la scenografica “caduta” di enormi massi, il vecchio letto del fiume, dove ormai non scorre più l’acqua, ci addentriamo nel cuore del parco che ospita una discreta varietà di animali i cui numeri però sono risicati, contiamo infatti non più di 4 o 5 esemplari per ogni specie.
Non proviamo delusione, la maggior attrazione di questa località è rappresentata, senza dubbio, dal paesaggio e dalla sua vastità.
Ancora una volta, nel riconoscere le impronte ben marcate di un leopardo, si conferma la sua presenza, ma non abbiamo la fortuna di incontrarlo.
Dopo aver assistito al tramonto che, nonostante il cielo grigio, ci omaggia dei suoi caldi colori, torniamo al lodge e, ospiti della proprietà, oltre ad alcuni turisti nuovi arrivati, sono le zebre.
Ceniamo di nuovo seduti attorno al fuoco. Il freddo notturno è pungente, rabbrividiamo nel rimpiangere i caldi indumenti ripiegati negli armadi di casa che non immaginavamo potessero essere tanto utili anche a queste latitudini.
Le fiamme crepitanti, le chiacchiere con due donne belghe, un bicchierino di Amarula (tipico liquore africano) attenuano il nostro disagio e, infine, il tepore del letto scaldato grazie alla termocoperta ci abbraccia prima del sonno.

14 luglio 2011
Seduti a tavola, mentre gustiamo la ricca colazione, concordiamo con Edgan il programma della giornata che preferiamo spezzare in due parti dedicando la mattinata alla visita del luogo dove è sepolto Rhodes, prendendoci poi una pausa per pranzare qui al lodge e tenendo in standby un eventuale secondo game drive nel Matobo N.P.
Per raggiungere la località prescelta dobbiamo superare la diga già vista ieri, ci fermiamo sulla riva del lago per scattare una foto, oggi con una luce migliore.
Edgan ci fa notare lo strano comportamento di un babbuino, si tratta di una femmina che trascina un cucciolo, purtroppo senza vita, lasciandolo cadere a terra e allontanandosi di corsa, nel disperato tentativo di farsi rincorrere. Non vedendo reazioni, la madre torna a recuperare il piccolo babbuino e la sequenza si ripete più e più volte. E’ evidente che la poverina non ha ancora abbandonato la speranza di vedere il figlioletto rianimarsi.
La scena è tristissima e ad ogni tentativo fallito ci si stringe il cuore, sembra proprio che non ci sia alcuna differenza tra uomini e animali nell’ “accettare” la morte al suo sopraggiungere.
Ripartiamo, senza parole, percorrendo un tratto di strada asfaltata che giunge al dwala chiamato World’s View (la vista sul mondo), ovvero il kopje che ospita la tomba del personaggio più controverso dell’intero Zimbabwe: Sir Cecil John Rhodes.
Nell’anno 1896, al ritorno da una cavalcata tra le colline, in compagnia di Lord Grey, Cecil John Rhodes disse: “abbiamo compiuto una meravigliosa scoperta. Abbiamo trovato una collina dalla cui sommità si gode di un panorama che merita d’esser visto…”
Ritornato successivamente alla collina con alcuni amici, egli espresse il desidero di esservi seppellito: “alla mia morte sarò seppellito qui, rivolto verso nord. Anche i resti di Allan Wilson e dei suoi valorosi saranno trasferiti da Fort Victoria e tumulati qui, in un monumento che erigerò alla loro memoria… lo chiamo questo posto World’s View!”.
Sei anni più tardi, il 26 marzo 1902, Rhodes morì.
Questo luogo, scelto dallo stesso Rhodes quale sua estrema dimora, è un luogo di grande fascino, il cui sapore mistico incontra la veduta incantevole sulle colline sottostanti, che gli ha valso il nome.
Gli Ndebele chiamano questo kopje Malindidzimu, che significa, per singolare ironia della storia, “il luogo degli spiriti benigni”. Rhodes, infatti, non fu certo l’uomo bianco più amato dal popolo Ndebele. Semmai, fu il più temuto.
Rhodes sconfisse Mzilikazi e disperse i suoi Impi, assoggettando il popolo Ndebele. La sua tomba, nel cuore sacro della nazione Ndebele, può risultare perciò, per alcuni, una sorta di atto sacrilego, un’estrema umiliazione nei confronti di un popolo sconfitto.
Eppure, nella logica di un popolo guerriero e fiero, come fu quello Ndebele, tutto ciò può assumere un aspetto ben diverso.
Come Mzilikazi, giungendo da una terra straniera, conquistò il Matabeleland e ne assoggettò le genti, così, anche Rhodes, giunto da lontano, conquistò questa terra, sconfiggendo uno degli eserciti più forti, agguerriti e ben organizzati che l’Africa abbia mai visto.
Questo gli riconobbero i guerrieri Ndebele. Alla potenza di tale nuovo sovrano, giunto da terre lontane, essi si inchinarono, rispettosamente, senza rinunciare alla riscossa, ma accettando la sconfitta, come solo un fiero guerriero sa fare.
Il 10 aprile 1902, infatti, alla salma di Cecil John Rhodes, tumulata sulla collina di Malindidzimu, gli Induna della Nazione Ndebele resero il saluto riservato ai Re: Bayete!
Fu la prima e unica volta che ad un uomo bianco fu reso simile omaggio.
Prima di compiere questo storico atto simbolico, tuttavia, gli Induna chiesero e ottennero che non venisse compiuta la cerimonia di estremo saluto con la salva di fucile, affinché gli spiriti della collina non venissero disturbati.
Posteggiata l’auto, ci incamminiamo verso la più grande e spettacolare collina di granito, sulla cui sommità sono disseminati diversi enormi blocchi di pietra tondeggianti.
I licheni gialli crescono sulla roccia come un immenso prato fiorito, il sole – che brilla per la prima volta da quando siamo giunti in Zimbabwe – è piacevolmente caldo ed esalta i colori.
Piccole nubi bianche spiccano nel cielo terso e azzurro. Tutto attorno le colline si susseguono a perdita d’occhio elevandosi da un “mare” d’erba verde.
Non occorre molto sforzo, davanti a un panorama tanto meraviglioso, a percepirne la spiritualità.
Giunti in cima al World View’s ci impressionano maggiormente gli equilibri e le dimensioni dei massi piuttosto che la tomba di Rhodes. Si è quasi indotti a pensare che i macigni siano stati posati al suolo da un artista stravagante e si ha l’impressione che possano rotolare a valle solo con un soffio.
Sostiamo a lungo, godendoci il tepore del sole e lo straordinario paesaggio sottostante: 360° di nulla e di silenzio ad eccezione delle colline.
Prima di risalire in macchina, visitiamo una sorta di museo all’aperto che raccoglie, su diversi pannelli, una rassegna fotografica dedicata alla vita di Cecil John Rhodes.
Il personaggio non ci emoziona, non ne apprezziamo l’operato e non ne facciamo mistero, ma Edgan, facendo spallucce, molto diplomaticamente afferma che anche questa è storia.
Tornati al lodge, ci viene servito il pranzo. Trascorriamo poi diverso tempo in un salotto allestito in una zona appartata, ammirando il panorama e beneficiando del calore del sole che continua a splendere.
Ospiti del giorno un certo numero di facoceri, decisamente buffi quando corrono con il codino ritto in verticale.
La temperatura mite ci invoglia ad uscire per un nuovo game drive nel Parco.
Ripassiamo dal bel lago verde, fermandoci a osservare da vicino gli ippopotami, per il resto facciamo il pieno degli incredibili scenari delle Matobo Hills con le rocce incendiate dai colori di un intenso tramonto.
La serata è meno rigida, la cena all’aperto meno drammatica, nel cielo senza nubi luccicano milioni di stelle, ma protagonista indiscussa di questa notte africana è la luna piena che diffonde una tenue luce argentea.

15 luglio 2011
Il sole sembra aver finalmente vinto la partita contro le nuvole, la luce filtra attraverso le finestre e la nostra abitazione di pietra e roccia – mentre chiudiamo i bagagli - appare ancora più bella.
Lasciamo Amalinda camp verso le 9, a bordo di un confortevole minibus dai sedili larghi e distanziati come quelli di una business class aerea, guidato dal boss cui fanno compagnia la moglie e il figlio adolescente.
Prossima destinazione Hwange National Park.
E’ questo il Parco Nazionale più grande dello Zimbabwe, con i suoi 14.650 km2 di superficie, e probabilmente anche il più popolato di fauna. A parte gli elefanti, numerosissimi in ogni angolo del parco (il censimento aereo del 1995 ne ha contati circa 22.000!), si possono osservare più di 105 specie di animali tipiche dell’Africa meridionale, dalle più comuni, quali il leone, la iena maculata e il bufalo cafro, alle più rare, quali nove delle dieci specie di mammiferi protette in Zimbabwe: il licaone, il pangolino, il rinoceronte nero e quello bianco, la iena bruna, il protele, il ghepardo, l’antilope roana e l’orice, tra le quali, orice e iena bruna, vivono, in Zimbabwe, esclusivamente nel territorio di Hwange.
Già nel 1873, Frederick Courtney Selous, cacciava in quella che oggi è la zona orientale del parco, mentre l’ufficializzazione di Hwange a Parco Nazionale avvenne nel 1929, quando nell’aerea più meridionale, a ridosso del confine col Botswana, viveva ancora una comunità di Boscimani San, e Ted Davison divenne il primo ranger del Wankie National Park.
Il nome Wankie, come per l’omonima cittadina, era la traslitterazione inglese del nome di un capo tribù locale: Hwange. Alla fine degli anni ’80, quando il processo di “re-africanizzazione” dello Zimbabwe (ex Rhodesia) interessò anche i nomi delle località geografiche, Wankie mutò in Hwange.
I compagni di viaggio si rivelano altezzosi, facendoci sentire niente di più che “bagaglio”. Parlano tra loro scavalcandoci (siamo seduti nei due sedili di mezzo) senza mai rivolgerci uno sguardo e la parola.
A Bulawayo facciamo una sosta, la bionda signora necessita di una toilette.
Ovviamente tale funzione fisiologica non può essere espletata in un bar qualsiasi e neppure in un campo o dietro un cespuglio. Non sia mai!
Questa donna africana, dalla pelle bianca, sceglie di fare pipì solo in un club per bianchi, il Bulawayo club appunto, storico, pomposo e ubicato in un edificio coloniale che si affaccia su una piazza importante.
L’episodio simboleggia quanto siano ancora lontane le distanze tra bianchi e neri.
Mentre la signora “visita” il club, noi ammiriamo il bel centro cittadino che vanta ampi viali fiancheggiati da alberi di jacaranda, edifici coloniali ben conservati e poco traffico.
L’impressione è gradevole, le auto parcheggiate sono in buono stato, le persone, neri perlopiù, indossano abiti decorosi e ovunque regnano ordine e pulizia.
Riprendiamo il viaggio lungo una strada asfaltata, diritta, con pochi altri automezzi in circolazione. Siamo però costretti a fermarci spesso per via dei molti posti di blocco presidiati da militari.
Ci stupisce, in presenza dei personaggi che di volta in volta ci intimano l’alt, l’atteggiamento sottomesso cui lo spavaldo “bwana” è costretto a piegarsi.
Provo un piacere quasi perverso nel vedere un uomo tanto pieno di sé, abbassare la cresta e far ricorso a uno sfoggio di convenevoli, spudoratamente falsi ai nostri occhi, ma evidentemente necessari per poter proseguire il viaggio senza intoppi.
Attraversiamo, per circa 4 ore, un paesaggio monotono, costituito in prevalenza da bush.
Varcato l’imponente ingresso di Hwange N.P., ci accoglie e ci prende in consegna Brian, cordiale e sorridente guida di Wilderness Safaris che ci invita ad attendere per qualche minuto l’arrivo di un gruppo di canadesi, provenienti da Victoria Falls.
I 4 nuovi arrivati si rivelano fin da subito persone amichevoli e gioviali.
Montiamo su una jeep scoperta e ci trasferiamo, godendo di un primo lungo game drive della durata di 3 ore, nella concessione di Davison’s camp.
Strada facendo non mancano gli incontri con la fauna africana: elefanti, kudu, giraffe, graziose antilopi di taglia minuscola, waterbuck e uccelli colorati.
Il paesaggio alterna tratti di bush a savane dal bel colore dorato, numerose le pozze d’acqua che ospitano indolenti ippopotami e richiamano all’abbeverata molti animali.
La pista costeggia – per alcuni chilometri - una ferrovia, un unico binario segna il confine tra il parco nazionale e la riserva di caccia.
Non essendovi recinzioni o sbarramenti di alcun tipo, è evidente che gli animali si spostano liberamente in entrambe le aeree e mentre nella zona protetta l’unica forma di “caccia” praticabile è quella con l’obiettivo di una macchina fotografica, solo pochi metri al di là della ferrovia è consentito sparare.
Contraddizione che ancora una volta non comprendiamo, domandandoci come si possa puntare il fucile e sparare a un animale, non prima di aver speso somme da capogiro per il suo abbattimento.
Allontanandoci dalla via ferrata ci concentriamo sulla bellezza e varietà paesaggistica e sugli animali che incontriamo, sfuma così un po’ di quell’amaro che il pensiero della caccia ci procura ogni volta.
Facciamo una pausa in un luogo attrezzato, all’ombra di un padiglione circolare, per consumare il pranzo e – ripreso il viaggio – raggiungiamo nel tardo pomeriggio Davison’s camp, allestito all’ombra di alberi di mopane, che accoglie poche spaziose tende affacciate su una grande pozza d’acqua.
Ci viene proposta un’uscita immediata per un breve game drive serale, invito che però decliniamo.
Siamo infreddoliti e, dopo l’intera giornata trascorsa in macchina, la stanchezza reclama una doccia calda.
Preferiamo quindi goderci la pozza, già frequentatissima dagli elefanti. Infatti non abbiamo neppure il tempo di posare le borse in tenda che il documentario è già iniziato. Bocca spalancata dalla meraviglia, binocolo e macchine fotografiche in azione.
Qui, nonostante lo spettacolo continuo offerto dagli animali che affollano la pozza, l’Africa ci dispensa la prima lezione…
mentre contempliamo il cielo nero e la luna piena, appena sorta, a poca distanza dal campo sentiamo i versi striduli e insistenti di un gruppo di babbuini.
La jeep che sta rientrando dal game drive si blocca nei pressi di un albero di mopane.
Dalla nostra postazione vediamo la luce dei fari e la macchina che si sposta in cerchio.
Il fracasso prodotto dai babbuini è incessante, comprendiamo che sta accadendo qualche cosa di speciale, non sappiamo però esattamente cosa.
Poco dopo fanno ritorno al campo i canadesi e Brian, sono molto eccitati mentre ci riferiscono di aver visto un leopardo camminare molto vicino alla jeep, probabilmente di ritorno dalla pozza oppure alla ricerca di una preda da cacciare.
Non è esagerato ammettere che ci viene da piangere per la frustrazione.
Dopo anni di safari è la prima volta in assoluto che rinunciamo a un’attività e il leopardo perso è un castigo durissimo da “digerire”.
Per i canadesi questo è il primo viaggio in Africa, il primo Parco visitato e il primo game drive… la cosiddetta fortuna dei principianti.
Dopo la cena e un raduno attorno al fuoco, ci ritiriamo tutti velocemente.
La notte è gelida, nel letto troviamo una borsa d’acqua calda ciascuno e vari strati di coperte. Spogliarsi e infilarsi tra le lenzuola richiede un atto di coraggio, poi grazie al calore diffuso dalla “bula” le cose vanno meglio, ma fatico a prendere sonno, il peso delle coperte mi opprime, mi giro e rigiro rimuginando e dandomi della sciocca per aver sottovalutato – nel preparare i bagagli – il freddo e il disagio conseguente alla mancanza di indumenti più adatti a questo clima.
Associare la parola “freddo” all’Africa risulta molto difficile alla maggior parte delle persone, questo aspetto ha colto di sorpresa anche noi che da anni “predichiamo” che in Africa non fa solo caldo, ma prima d’ora non avevamo mai viaggiato in luglio, nel cuore dell’inverno australe, sperimentando solo il freddo notturno provocato dalla forte escursione termica.
Avremmo dovuto soppesare meglio la morfologia del territorio della parte centrale dello Zimbabwe: un vasto altopiano posto al di sopra dei 1000 metri di altezza dove anche durante le ore diurne le temperature non sono elevate.

16 luglio 2011
Laddove siamo carenti (indumenti caldi), sopperisce il guardaroba “griffato” Wilderness Safaris in dotazione su ogni veicolo: morbide coperte e mantelle impermeabili foderate di pile.
Eccoci, dunque, all’alba, su una classica jeep da safari, ben coperti, senza più temere le basse temperature e carichi di aspettative che, sappiamo bene, l’Africa non deluderà.
Il terreno pianeggiante con vaste distese di savana solo punteggiata qua e là da acacie, alberi di mopane e persino qualche slanciata palma, offre una visuale molto ampia che favorisce l’osservazione degli animali.
Le numerose pozze d’acqua costituiscono, inoltre, per le molte specie, un punto di arrivo obbligato, e per noi maggiori opportunità di emozionanti incontri.
Sono infatti 5 giraffe a costringerci all’immobilità mentre, a turno, si avvicinano ad una pozza, si piegano sulle zampe anteriori e allungano il collo, bevendo avidamente.
La sequenza dura a lungo e possiamo beneficiarne da una distanza molto ravvicinata.
Tutte le giraffe riescono a bere, non è scontato che ciò accada con facilità in quanto sono molto guardinghe e basta un nonnulla perché si disperdano rinunciando a soddisfare la necessità di acqua. Terminata l’abbeverata, si dispongono in fila, incamminandosi con quella tipica movenza elegante e flessuosa, infine si perdono in lontananza tra le fronde di un boschetto di acacie.
Poi è la volta degli ippopotami che ci scrutano da un azzurro specchio d’acqua.
Incontriamo una antilope sable, merce rara, in tanti anni è solo la seconda volta che ne vediamo una.
Salutiamo un branco di waterbuck e proviamo tenerezza nello scorgere, nei pressi di un termitaio, il cucciolino di leone più piccolo mai visto sino ad ora, poco più che un gattino.
Nelle vicinanze sicuramente c’è mamma leonessa, ma non riusciamo a localizzarla.
Rientrati al campo per il brunch e una pausa, non è certamente terminata la possibilità di vedere animali.
Una processione di elefanti, kudu, facoceri, babbuini, impala e persino un branco composto da oltre una ventina di antilopi sable, raggiungono il grande bacino d’acqua antistante le tende e vi sostano, tenendoci impegnati con binocolo, macchina fotografica, carta e penna per annotare quanto stiamo vedendo.
Il programma giornaliero, in un safari camp, prevede due attività: la prima all’alba, la seconda nel pomeriggio. Il game drive pomeridiano può terminare al tramonto, oppure – per chi lo desidera – può protrarsi in notturna per altre due ore.
La nostra scelta ricade, senza dubbio, su un game drive notturno.
Si parte dopo il tradizionale tè con dolcetti e salatini, ci allontaniamo parecchio dal campo, attraversando savane, bush e differenti altri ambienti.
Con immenso piacere constatiamo che questo parco è eccezionalmente popolato da antilopi sable. Tra le tante scene, assistiamo alla lotta di due stupendi maschi che si prendono ripetutamente a cornate.
Incrociamo branchi di elefanti e diversi sciacalli.
Mentre il sole sta tramontando, ci troviamo in una vallata molto aperta e vasta che improvvisamente si riempie di animali.
Con una luce calda e i bellissimi colori rosso/aranciati del cielo, ammiriamo una sfilata di giraffe, branchi di gnu, zebre, kudu, waterbuck, impala, che si spostano in massa e in assoluta libertà. Tutti gli animali, prima invisibili, ora – con il favore delle tenebre – sembrano muoversi più disinvoltamente.
La notte africana sopraggiunge repentinamente, nel cielo pennellate di nero sempre più ampie cancellano ogni traccia di colore, a questo punto il game drive prosegue e a illuminare la scena è il raggio conico di una spotlight rossa che mette in luce fosforescenti coppie di occhi appartenenti a tante bestiole notturne (volpi e gatti africani, manguste, kangaroo rabbit, etc.) e ad animali di taglia più grande tra i quali si riconoscono gli impala e altre antilopi.
Nel buio spiccano le sagome più scure degli elefanti e poi, finalmente, esattamente sulla pista, ci precedono 5 giovani leoni, evidentemente affamati, che si muovono furtivi, unendosi alla leonessa immobile e intenta a fiutare possibili prede, mentre il leone maschio, che blocca la strada, osserva l’intera famiglia con simulato distacco.
Il bellissimo maschio si incammina, allontanandosi nella notte e mostrandoci il dorso esattamente quando, sopra il suo corpo muscoloso, sorge la luna piena.
Una splendida “fotografia” che si stampa nella mente.
Ci aspettano ancora molta strada e qualche incontro prima di rientrare al campo.
Mentre ceniamo, una fila interminabile e nera raggiunge la pozza: centinaia di bufali circondano lo specchio d’acqua, sollevando nuvole di polvere e spezzando il silenzio con i loro richiami.
La massa scura si avvicina poi al campo, raggiunge la zona del fuoco dove abitualmente ci si raduna prima e dopo il pasto serale, spingendosi oltre fino ad attorniare le tende poste a sinistra del luogo in cui ci troviamo. I bufali invadono il campo oltrepassando anche il passaggio che normalmente utilizziamo per spostarci tra le abitazioni e questo ritrovo.
Siamo, i canadesi e noi, bloccati e impossibilitati a raggiungere le tende.
Accompagnati da due guide armate, tentiamo di disperderli, ma il muro di animali è compatto, non c’è alcun segnale di ritirata.
Costretti a desistere, torniamo sui nostri passi in attesa di nuovi eventi.
Trascorso diverso tempo senza che accada nulla, ci caricano su una jeep che compie un ampio cerchio creandosi un varco tra i bufali che continuano a opporre resistenza, o meglio, sono totalmente indifferenti ai tentativi di allontanarli.
Raggiungiamo le tende avvicinandoci al lato anteriore, saltiamo dal massiccio automezzo che ci fa da scudo, non senza esitazione, rifugiandoci velocemente all’interno in silenzio e senza accendere la luce.
Grazie al chiaro di luna, attraverso la zanzariera, stiamo ancora un po’ di tempo a osservare gli oltre 600 bufali che hanno deciso di accamparsi qui, grati alla natura africana per questo fuori programma.

17 luglio 2011
Usciamo all’alba, con gli ormai inseparabili canadesi, l’avventura della scorsa notte ha ulteriormente rafforzato la nostra intesa e mentre commentiamo le nostre prodezze, un leone maschio, bellissimo esemplare adulto, che troneggia in mezzo alla pista, ci zittisce di colpo. Seduto, in posa statuaria e regale, si concede ai nostri obiettivi, poi si muove lentamente addentrandosi tra l’erba alta e dorata, fino a sparire del tutto.
Inizia così, con il felino solitario, una carrellata di incontri, ne cito solo alcuni.
Mentre osserviamo una colonia di babbuini, un piccolo attira la nostra attenzione e ci regala un buffo siparietto: l’inesperto cucciolo, nel tentativo di arrampicarsi su un albero, scivola più volte, si aggrappa fortunosamente ai rami, ma cade inevitabilmente. Ostinato ci riprova, l’epilogo tuttavia è sempre uguale.
Due waterbuck saggiano la solidità delle corna battendosi in una serie di duelli e, infine, uniscono le proprie forze per scacciare un intruso: un terzo waterbuck.
Gli ippopotami, questa mattina, all’acqua fredda di una pozza, preferiscono l’ombra di un albero.
I musetti di due leoncini fanno capolino tra l’erba gialla. Sono ben mimetizzati mentre gli adulti quasi certamente sono a caccia, sostiamo nei paraggi qualche minuto, ma non accade nulla, non riusciamo a vederli.
Nonostante ci troviamo a debita distanza dai piccoli, i due – per innato istinto – vanno a nascondersi, fino a rendersi invisibili, dietro un cespuglio.
Incontriamo molti elefanti che, in questa stagione, ostentano parecchi piccoli.
Tornati al campo, rivediamo i bufali, meno numerosi rispetto alla notte passata, ma comunque tanti, tra di essi ci sono i nuovi nati, si sono stabiliti attorno alla pozza e vi bivaccano per l’intero pomeriggio, mentre le famiglie di pachidermi vanno e vengono.
Nel momento di maggior affluenza contiamo tre branchi di elefanti da non meno di 30 individui ciascuno. Uno a ogni estremità della pozza e uno al centro, nelle immediate vicinanze i bufali immobili e attorno una “corona” di altri animali in attesa del proprio turno per bere.
Alcuni piccoli elefanti rotolano nella melma contenuta in una conca, ne escono totalmente ricoperti e lucidi, gli adulti invece si spruzzano di terra con le proboscidi.
In poche parole un documentario senza fine anche nei momenti di pausa.
Oggi guardo e annoto tutto direttamente dal mio letto e attraverso le zanzariere.
Rasentando la pozza e avanzando tra gli elefanti che continuano a fare la spola nei dintorni, ci allontaniamo dal campo per un nuovo, avvincente e lungo game drive.
Si susseguono gli incontri con antilopi sable, impala, minuscoli dik-dik, waterbuck, babbuini.
Vediamo altri 2 leoncini, parzialmente nascosti dalla vegetazione e posizionati su una cunetta.
In una immensa spianata si fatica a tener conto degli elefanti. Ci troviamo a passare di fianco ad alcuni di essi che attingono acqua da una buca scavata a ridosso della pista. Ci fermiamo per sondarne le intenzioni, i pachidermi si allontanano, non di molto e neppure volentieri dopo aver sventolato le orecchie. Siamo tanto vicini da rubare un bel primo piano a un giovane esemplare.
Una mamma elefante e il suo piccolo inconsapevolmente ci regalano ottime opportunità fotografiche mentre, rivolgendoci il posteriore, bevono da una piccola cavità.
Assistiamo a un tramonto da lasciare senza parole in una radura interamente circondata da alberi e palme che perdono i loro connotati trasformandosi in sagome nere mentre il cielo, sullo sfondo, è color rosso sangue.
Il game drive notturno ci riserva tante emozioni: nel buio si profilano cinque leoni, poco dopo ne incontriamo altri cinque, uno di questi quasi viene schiacciato dall’unica altra jeep che abbiamo incrociato. Per fortuna non è successo.
Il cielo è nerissimo, punteggiato da milioni di stelle, come sempre, ma questa sera è attraversato dalla scia luminosa della via lattea.
La notte è fredda, si sta volentieri attorno al fuoco.
Ci ritiriamo e ci infiliamo velocemente sotto le coperte scaldate dalla borsa d’acqua calda, ci addormentiamo mentre passiamo in rassegna la tante immagini che questo parco ci ha regalato.

Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento, contattaci per ottenere il tuo account

© 2024 Ci Sono Stato. All RIGHTS RESERVED. | Privacy Policy | Cookie Policy