Canada 1: Gli stati occidentali

Vancouver, British Columbia e Alberta

Il viaggio, effettuato nel pieno dell'estate e suddiviso in due parti, ha avuto una durata, compresi i voli di andata e ritorno, di 34 giorni. I partecipanti sono stati il sottoscritto Leandro con l'amico Danilo, la moglie Gabriella e il figlio Alessandro di 14 anni, gruppo già collaudato in Norvegia l'anno precedente, con l'aggiunta di Walter, il compagno di viaggio che, per esperienza, senso pratico e disponibilità, tutti vorrebbero avere.
I primi diciotto giorni sono stati dedicati agli stati occidentali, dopodiché un volo interno ci ha portato a Montréal per gli itinerari del Quebec con puntata finale a Toronto e alle cascate del Niagara.
Il viaggio è stato totalmente autogestito, prima con la lettura di guide di viaggio, poi con la richiesta di documentazione agli uffici turistici canadesi per l'organizzazione degli aspetti pratici e del programma di visite. Dall'Italia abbiamo fissato via fax solo i primi pernottamenti in un hotel di Vancouver, scegliendo poi ogni sera l'alloggio al momento o in qualche caso con una telefonata il giorno prima.
Tutti i dati relativi ai mezzi di trasporto, alle strutture ricettive, all'alimentazione, al clima, e a tutta la logistica, possono essere reperiti dal lettore mano a mano che la relazione procede.1° giorno: VOLO GENOVA - ROMA - TORONTO - VANCOUVER
Lasciamo il suolo italiano alle sette del mattino. Del lungo volo ho il marcato ricordo di un giorno che non finisce mai, dal momento che, procedendo verso ovest attraverso otto fusi orari, si insegue in pratica un tramonto che non si decide ad arrivare. In sostanza arriviamo a Vancouver intorno alle ventidue, quando per il nostro organismo sarebbero le sei del mattino successivo.
Per quanto riguarda i panorami sorvolati, che di tanto in tanto vengono indicati dal personale di bordo, mi ha suscitato grande impressione il Labrador, che è quanto di più inospitale si possa immaginare, tanto da essere definito da Jacques Cartier "la terra che Dio donò a Caino" con distese a perdita d'occhio di tundra, ghiacciai e laghi senza alcun segno di vita: la grandiosità dello scenario è però tale da lasciare senza fiato.
Atterriamo quindi a Vancouver verso le 22 di una calda serata estiva. La città, che da un sondaggio di qualche anno è risultata la più a misura d'uomo del mondo, rivela subito, ai primi contatti con la popolazione, le sue caratteristiche di multirazzialità: il tassista che ci porta in centro è infatti un iraniano e il portiere del St.Regis Hotel un giapponese.
La camera assegnataci ci fa subito capire alcune costanti degli hotel canadesi: i letti singoli, salvo rare eccezioni, sono queen size, vale a dire formato quasi matrimoniale; il bidé è praticamente ignoto; la presenza di una zanzariera alla finestra fa indovinare senza sforzo di fantasia l'abbondanza quasi ovunque di zanzare, localmente mosquitos, spesso di dimensioni rilevanti.
Con il viaggio aereo Genova-Roma-Milano-Toronto-Vancouver sulla gobba, prendiamo sonno senza ninnananna.

2° e 3° giorno: VANCOUVER
La nostra prima giornata canadese, che coincide con la Festa Nazionale del 1° luglio, si presenta serena, per cui, smaltita con un bel sonno la stanchezza, scendiamo al buffet per la colazione alle 7,45.
La prima richiesta che il premuroso cameriere ci rivolge riguarda la preparazione delle uova: è importante cioè sapere se ci vogliamo o no il bacon e se le preferiamo normali, poached (in camicia) o scrambled (strapazzate). Si dà evidentemente per scontato che la colazione, oltre a bevanda calda, spremuta, marmellata, affettati e pane tostato imburrato, sia costituita comunque da due uova fritte. Faremo vacillare le sicurezze del cameriere quando, la terza mattina, oseremo rinunciare alle uova e chiederemo il pane not buttered (non imburrato).
Danilo, in un misto di orrore e curiosità, capisce subito che non gli mancherà materiale per incrementare la propria casistica di dietologo.
Usciti dall'hotel, possiamo renderci conto dell'assoluta comodità della sua posizione: dietro l'angolo dell'edificio c'è infatti l'ingresso dell'unica stazione coperta della metropolitana (che per il resto del suo tragitto è di superficie). Troviamo la città ancora semideserta; la prima persona che incontriamo è un indiano sikh che con una pompa sta lavando lo spazio prospiciente il suo negozio di souvenirs, mentre pochi metri più in là lo steam clock (orologio a vapore) di Gastown, il quartiere storico di Vancouver, suona un po' stonatamente le 8,30.
Vorrei evitare di dare a questa relazione il taglio della guida turistica, essendo già abbondante la letteratura manualistica in commercio; citerò quindi i vari luoghi e punti di interesse cercando di filtrarli attraverso le mie sensazioni e il mio vissuto, essendo questo un viaggio mio e solo mio. L'unicità dell'esperienza nasce dal fatto che mi trovo in quel determinato posto in quel giorno a quell'ora, con quelle condizioni atmosferiche, quella compagnia, quella condizione fisica e quello stato d'animo.
Intraprendiamo così la visita della città che si sta animando con le manifestazioni della festa nazionale: sfilate, orchestrine, tutti con una bandierina canadese o un cappellino bianco e rosso. Il fulcro è la Canada Place, ricavata della riqualificazione di un quartiere degradato in occasione dell'Expo del 1986. Non mancano le "americanate", la più evidente delle quali è un dinosauro verdastro a grandezza naturale che è in via di gonfiamento su un molo: non so che cosa c'entri, ma è comunque simpatico.
Molto interessante è la salita sulla torre dell'Harbour Centre; da un'altezza di 167 metri si può apprezzare la stupenda posizione della città: la baia costellata di isolette e imbarcazioni di ogni tipo, la riva nord sovrastata da montagne innevate e, verso sud, i quartieri residenziali collinari con il delta del Fraser e ancora montagne. Al bar ubicato nella terrazza panoramica azzardiamo un caffè che con sorpresa troviamo lodevolmente simile all'espresso italiano: annotiamo e raccomandiamo quindi il nome della catena che lo distribuisce, la Starbuck, presente nelle grandi città canadesi.
Una piacevole passeggiata lungo la Robson Street, caotica ma vivacissima arteria brulicante di negozi e ristoranti di ogni genere, conferma quanto la città sia multietnica; non a caso consumeremo i nostri due primi pasti in un ristorante cileno e in uno giapponese. Ci colpisce la presenza lungo le strade di numerosi poliziotti e paramedici che circolano in bicicletta e calzoni corti.
Risolviamo anche il problema logistico più importante per il proseguimento del viaggio, vale a dire il noleggio dell'auto; dopo un paio di tentativi presso piccole agenzie che però ci propongono coperture assicurative piuttosto nebulose, scegliamo infine per un'organizzazione primaria quale l'AVIS, la cui impiegata portoricana, alla domanda "Contro quali rischi siamo assicurati?", risponde categoricamente: "Any" (tutti), il che ci conforta non poco.
Troviamo poi un'agenzia di viaggi aperta dove tentiamo anche di prenotare l'imbarco sul traghetto dell'Inside passage, la crociera che unisce in 20 ore Prince Rupert, estrema località occidentale che raggiungeremo fra 11-12 giorni, con Port Hardy, a nord dell'isola di Vancouver: si tratta di un percorso di 430 km. tra isole e coste frastagliate in un paesaggio selvaggio e incontaminato, dove la presenza umana è rivelata qua e là da un porticciolo di pesca, un totem o una fabbrica di pasta di carta. Purtroppo risulta tutto esaurito fino alla metà di Settembre, per cui non potremo fare altro che sperare debolmente, una volta giunti a Prince Rupert, di trovare posto a seguito di qualche rinuncia.
Nella giornata successiva, che al mattino si presenta piovigginosa, decidiamo di allargare la conoscenza della città e dei dintorni utilizzando i mezzi pubblici: il percorso completo A/R della metropolitana di superficie (skytrain), la traversata a North Vancouver con il seabus e il ritorno in centro con l'autobus (anche l'autista indossa informalmente calzoni corti) attraverso i quartieri collinari ci forniscono un quadro molto istruttivo sulla conformazione e sullo stile di vita dell'agglomerato urbano, il cui modello è comunque americano: mentre il centro è caratterizzato dai grattacieli, i dintorni sono spesso immersi nel verde costellato di casette basse con giardino, ognuna con una tettoia sotto la quale, accanto all'automobile, è presente quasi sempre anche il pick-up (è un'altra delle costanti di tutto il Canada, perlomeno della parte che visiteremo).
Il fatto che Vancouver, benché in Canada, sia un campionario di stereotipi statunitensi, è confermato dal fatto che l'industria del cinema hollywoodiano ambienti volentieri sulle strade della città films d'azione; manco a dirlo ci imbattiamo in un quartiere dove è in azione un set cinematografico, con tanto di innevamento artificiale.
Notiamo che parecchi palazzi, anche quelli che presentano facciate lussuose, hanno spesso uno dei quattro lati che, in forte contrasto, dà su strettoie che sono un po' una "terra di nessuno" fatiscente, ricettacolo di rifiuti tra pali della luce dissestati e grovigli di cavi. Anche questo aspetto ci riporta alle scene di tanti films, in particolare polizieschi.
Nel pomeriggio il tempo si rimette al bello, il che ci consente una serie di piacevoli passeggiate attraverso il Parco Stanley. In magnifica posizione all'estremità di una penisola, è attraversato da sentieri e piste ciclabili tra alberi secolari e prati sui quali scorrazzano curiosissimi scoiattoli; il punto più emozionante del parco è un gruppo di totems degli indiani della costa del Pacifico.
Un'altra attrazione è costituita dall'Acquario, dove spiccano le vasche delle orche, quelle delle beluga (balenottere bianche) e la ricostruzione di una foresta amazzonica completa di soffocante atmosfera tropicale.
Lasciata la zona del parco, ci rechiamo alla Granville Island, isola a sud del centro alla quale si accede tramite l'omonimo ponte; un tempo insediamento industriale, la zona è stata riconvertita e presenta ristoranti, gallerie d'arte, boutiques, teatri e hotels.
L'aspetto più vivace è costituito dal Mercato coperto, dove i banchi dei prodotti si alternano agli stands gastronomici dove si può personalizzare il proprio pasto mettendo insieme piatti delle più svariate cucine: orientali, greca, spagnola, russa, araba, messicana, turca, italiana, ecc.

4° giorno: VANCOUVER - SORRENTO (km. 536)
Saldato il conto del St.Regis Hotel (L. 165.000 a testa per tre pernottamenti), ci rechiamo alla sede dell'AVIS dove, come da accordi perfezionati ieri, preleviamo il veicolo che ci porterà in giro per la British Columbia e l'Alberta per due settimane: si tratta di un caravan Dodge/Chrysler Voyager azzurro metallizzato, cilindrata 3200, cambio automatico, a sei posti che ci darà grandi soddisfazioni sia per lo spazio che per le prestazioni, il tutto al prezzo di $ 72 al giorno, al cambio L. 86.500.
Imbocchiamo in direzione Est la Pender Street che, attraversato il quartiere di Chinatown, lascia poi la città immettendosi ben presto nella strada n. 1, la mitica Trans Canada Highway.
La bassa valle del Fraser è una vasta pianura alluvionale sfruttata per l'agricoltura, che si addentra tra la catena costiera a Nord e quella delle Cascades a Sud. Cominciamo a notare la grande varietà di veicoli che percorrono le strade canadesi: oltre ai già citati pick-ups, sfilano automobili quasi tutte di grossa cilindrata, enormi autoarticolati, campers, roulottes, vecchi coaches salvati dalla rottamazione e riadattati al trasporto privato; deduciamo che evidentemente non ci devono essere particolari restrizioni di circolazione, dal momento che vediamo automezzi che trainano l'immaginabile e l'inimmaginabile: biciclette appese davanti e dietro, carri-tenda, carrelli con motociclette, cabine con cavalli, addirittura campers che trainano la roulotte alla quale è agganciata un'automobile. Ancora scenari molto americani.
Giunti all'altezza di Hope (km. 141), quasi all'improvviso si avvicinano le montagne, mentre il Fraser che, in direzione opposta al nostro senso di marcia, ha finora continuato a scorrere con ampie anse alla nostra sinistra in un paesaggio brullo cosparso di cespugli di salvia selvatica, diventa più tumultuoso man mano che la valle si restringe. Sulla riva opposta alla nostra corre la linea ferroviaria, qui in uno dei suoi tratti più difficili, spesso superati solo grazie a tunnels.
I treni canadesi costituiranno spesso un vero e proprio spettacolo, essendo formati da 150-160 carri merci trainati da quattro-cinque motrici diesel.
Proprio i lavori di costruzione della linea della Canadian Northern provocarono nel 1914 una frana che ostruì in parte il letto del fiume all'altezza di Hell's Gate: l'aumentata violenza della corrente impedì la risalita dei salmoni e ne conseguì per qualche anno il crollo della pesca e del commercio dei pregiati pesci. Per spezzare la corrente e ridurne la velocità fu necessario costruire sulle rive del fiume dei canali in cemento, attraverso i quali i salmoni effettuano tuttora la loro risalita. Il sito viene visitato tramite una teleferica che discende per 150 metri in fondo alla gola, dove un'esposizione, tramite un filmato e una serie di pannelli illustrativi, descrive il ciclo del salmone.
Dopo Hell's Gate i versanti della vallata si allargano nuovamente ricoprendosi progressivamente di alberi. La cittadina di Lytton (km. 250), che detiene il non invidiabile primato delle più elevate temperature registrate in Canada, sorge alla confluenza fra il fangoso Fraser e le acque limpide del Thompson.
Penetriamo quindi nel roccioso e incassato Canyon del Thompson, in cui la Trans Canada Highway serpeggia con qualche saliscendi offrendo belle vedute sul fiume. Dopo Spences Bridge (km. 287) la valle si allarga in colline semi-aride, un tratto di un centinaio di chilometri di bellezza selvaggia in cui il senso di solitudine è solo in parte attenuato dalla presenza della strada e di qualche ranch.
Superato il bivio di Cache Creek e la località Savona (proprio così!), costeggiamo per una quarantina di chilometri lo stretto e lungo Lago Kamloops, fino a toccare (km. 414) l'omonima città, importante mercato di bestiame, frutta e ortaggi.
Nel tardo pomeriggio raggiungiamo, in una regione ricca di verde e di foreste, le coste del Lago Shuswap, dal quale ha origine il Thompson del Sud; i numerosi bracci del lago ospitano ogni anno i salmoni sockeye per la riproduzione.
Dopo avere cercato una sistemazione presso un ostello dal quale però non provengono segni di vita, prendiamo alloggio in località Sorrento (di nuovo proprio così!) presso l'omonimo motel, il cui gestore è, guardacaso, italiano. Il pernottameno ci costa 35.000 lire a testa.

5° giorno: SORRENTO - EAGLE PASS - RADIUM HOT SPRINGS (km. 456 / 992)
Lasciamo la regione del Lago Shuswap, trascurando la strada che in direzione Sud porta alla valle dell'Okanagan, zona di produzione vinicola. Dirigiamo invece sempre in direzione Est per percorrere il tratto di 219 km di Trans Canada Highway tra Sicamous e Golden che si sviluppa tra i monti Monashee e Selkirk, in un susseguirsi di vedute su paesaggi di montagna e valli boscose.
Il primo sito rimarchevole che incontriamo, in prossimità dell'Eagle Pass, è Three Valley Gap: si tratta di un luogo indefinibile in riva all'omonimo lago, uno slargo tra pareti scoscese su cui sorgono una caffetteria/emporio d'altri tempi, una specie di città fantasma costituita da un gruppo di edifici in legno, due vecchie vaporiere con alcune carrozze ferroviarie in disarmo e un variopinto monumento in stile disneiano al cercatore d'oro con il suo asinello; completa il tutto una casa-museo-teatro dedicata a Walter Moberly, l'uomo che nel 1865, seguendo il volo di un'aquila, scoprì il passaggio che battezzò quindi Eagle Pass.
Una ventina di km. oltre Three Valley Gap raggiungiamo Revelstoke, centro di villeggiatura circondato dai Monashee e dai Selkirk. Imbocchiamo la strada del monte Revelstoke, la cui cima (m. 1943) è raggiunta con 26 km di percorso stretto e sinuoso; l'ultimo tratto, lasciata l'auto, è coperto da un bus navetta gratuito. Il tempo si è fatto uggioso e in parte penalizza il vastissimo panorama; l'ambiente di vetta è costituito da un terreno brullo con sparuti cespugli e fiori dalle tinte vivaci, pochi abeti rossi rinsecchiti e qui e là chiazze di neve.
Una sosta che merita di essere ricordata lungo il tratto tra Revelstoke e Golden è quella per la pausa pranzo: la effettuiamo in località non identificata in uno di quegli spazi lungo le grandi vie di comunicazione che offrono l'essenziale per le esigenze del viaggiatore: stazioni di servizio, motels, autofficine, supermarkets, fast-foods. Nel nostro caso si tratta del "Frontier Motel", nome che già la dice lunga. Il simpaticissimo interno è infatti strutturato a recinti in legno ognuno dei quali congloba uno o più tavoli, mentre i banconi, i separatori, i muri e i soffitti sono decorati con raffigurazioni, oggetti e attrezzi ispirati all'epopea del Far West: più americano di così (anche se siamo in Canada) non si può. Lo spazio nel quale ci sistemiamo è eloquentemente denominato "Corral".
Abbiamo ben presto scoperto che l'unico modo per salvarsi dalla ristorazione stile "qui-facciamo-tutto-fritto-e-solo-fritto" è quello di rifugiarsi nelle salads, che sono sempre abbondanti, ricche di ingredienti (pollo, gamberetti, uova, insalata verde, salsine varie, ecc.) e a buon mercato; più arduo conquistare una quantità di pane che vada al di là delle poche fettine spesse tra i tre e i quattro millimetri.
Quasi impossibile invece ottenere una bevanda non corredata da una quantità di ghiaccio pari o superiore alla bevanda stessa. La richiesta "please no ice", che ho già imparato a rivolgere sempre non appena capito l'andazzo, avrà per lo più uno di questi due esiti (spesso entrambi): non fare in tempo a dire "pl…" (sono velocissimi) e quindi arrendersi o ricevere lo sguardo sbigottito di chi vede minacciata la stabilità di un meccanismo mentale consolidato fin dalla nascita. Il ghiaccio è in effetti uno dei capisaldi su cui si basa l'esistenza del cittadino medio nordamericano: infatti ognuna delle cittadine, anche le più piccole, che incontreremo nel corso del nostro viaggio accoglie il viaggiatore con un cartello che, sotto il nome della località, elenca le esigenze che in essa possono essere soddisfatte: Motels, Fast-foods, Drinks, Markets, Fuel, appunto Ice. Del resto in ogni stazione di servizio è sempre presente il rassicurante cassone che distribuisce per pochi spiccioli i preziosi cubetti, mentre in ogni locale pubblico, appena preso posto a un tavolo, compare il cameriere che, insieme al saluto, porta un bicchiere ciascuno di acqua e ghiaccio, evidentemente ritenuto essenziale per la sopravvivenza.
Il successivo tratto di 148 km tra Revelstoke e Golden si svolge tra i monti Selkirk, creste affilate e valli modellate da una forte erosione glaciale. Punto focale di questo tratto è, a 93 km da Revelstoke, il Rogers Pass, che prende il nome dall'agrimensore che alla fine del secolo scorso scoprì il valico, consentendo di abbreviare di 240 km il percorso della linea ferroviaria; la zona è peraltro caratterizzata da abbondanti nevicate (una media di 10 metri l'anno sui Selkirk) e nel corso degli anni sono state necessarie opere imponenti (tunnel ferroviari e paravalanghe sui lati della Trans Canada Highway) per consentire una regolare circolazione di treni e autoveicoli.
Il tutto è illustrato nel centro di informazione sito sul passo (m. 1323), che superiamo in ambiente quasi invernale; un doppio arco in legno che scavalca la sede stradale commemora il completamento della T.C.H. nel 1962.
La discesa percorre le valli del Connaugh e del Beaver fino a raggiungere il Columbia River e, a 55 km da Rogers Pass, la cittadina di Golden. A questo punto, anziché seguire la n. 1 che taglia su Lake Louise in direzione Est, puntiamo verso Sud Est lungo la n. 95 per raggiungere Banff nella mattinata di domani.
Ancora 105 km e, giunti a Radium Hot Springs, decidiamo di fermarci per pernottare in un motel per la somma di 24.000 a testa, la camera più economica di tutto il viaggio, comunque decorosa. La serata si conclude con la cena in un fast-food della catena Husky (presente in tutto il Canada), che offre come piatto del giorno degli improbabili "spagetti carbenara" (testuale) sui quali preferiamo non approfondire.

6° giorno: RADIUM HOT SPRINGS - BANFF (km. 178 / 1170)
Lasciamo Radium Hot Springs mentre il tempo volge al bello. Percorriamo la strada n. 93 che attraversa in buona parte il Parco di Kootenay. Il tratto ci riserva le prime spettacolari vedute sulle Montagne Rocciose propriamente dette, il che suggerisce un'andatura piuttosto blanda, con frequenti soste per godere e fotografare gli scenari che la natura di volta in volta ci propone: foreste, montagne, corsi d'acqua, grandi spazi, animali in libertà.
Dopo avere valicato il Sinclair Pass (m. 1486) e il Vermilion Pass (m. 1650), raggiungiamo l'incrocio (la località è infatti definita The Crossing) di Eisenhower Junction (km. 105) che ci riporta sulla Trans Canada Highway per gli ultimi 28 km che ci separano da Banff (m. 1380), che con Jasper costituisce le due porte d'ingresso, nord e sud, delle Canadian Rocky Mountains.
La catena è totalmente gestita a parco: i principali (Banff, Jasper, Yoho, Kootenay e Mount Robson) sono concentrati in una fascia di circa 400 km per 80 situata nelle province della British Columbia e (per la maggior parte) dell'Alberta. A differenza delle Alpi, alle quali le Rockies somigliano per tipo di rilievo e vegetazione, esse non sono praticamente mai state abitate e costituiscono uno scenario naturale appena modificato dalle sole quattro strade, precluse al traffico pesante, che penetrano nei parchi.
Le due cittadine corrispondono più o meno a quello che per le Alpi possono essere Cervinia o Madonna di Campiglio (per fortuna con meno scempi edilizi) con analogo affollamento sia di canadesi (anche loro vengono in ferie qui) che di stranieri, il che ci fa subodorare difficoltà nel trovare alloggio. Il timore si rivela fondato, e solo dopo svariati tentativi troviamo posto in un residence sulla strada principale di Banff; decidiamo di fissare due pernottamenti e, dato che il tratto da qui a Jasper è privo di strutture ricettive, prenotiamo, grazie all'efficienza dell'impiegata giapponese di un'agenzia di viaggio e non senza ulteriori difficoltà, analoga sistemazione per i due giorni successivi a Jasper.
Questi quattro pernottamenti risulteranno i più cari di tutto il viaggio: infatti spenderemo a Banff circa 90.000 lire a testa al giorno e sulle 95.000 a Jasper, dove avremo a disposizione un appartamento per cinque persone: cifre peraltro allineate al livello turistico delle località e all'alta stagione.
Mettiamo quindi a punto un programma che ci consenta di visitare le attrazioni delle Rockies tramite itinerari "a raggiera" con partenza da Banff e Jasper nell'arco di quattro giornate. Col senno di poi ci renderemo conto che sarebbe valsa la pena dedicare alla zona uno o due giorni in più e integrare la visita con qualche escursione a piedi tenendo magari un'andatura sostenuta nel più monotono tratto di circa 1500 km tra Jasper e la costa del Pacifico.
Devo però anche dire che le zone meno ricche di attrattive avranno esse pure, nell'"economia" del viaggio, un ruolo non trascurabile; il penetrare infatti nella realtà quotidiana di regioni scarsamente attraversate dal turismo di massa ci ha consentito di assommare un insieme di esperienze che costituiscono un aspetto rilevante di questo nostro soggiorno canadese.
Banff sorge nell'ampia valle glaciale del fiume Bow, circondata da cime che sfiorano i tremila metri. La veduta più spettacolare del sito si ha dalla vetta di Sulphur Mountain (m. 2450), raggiunta tramite un affollatissimo impianto di telecabine a quattro posti. All'andata, mentre Walter e la famiglia di Danilo completano una cabina, a me tocca la compagnia di un padre con figlia sui vent'anni da Orlando (Florida), la quale, nonostante le mie rassicurazioni, compie l'intera salita a occhi chiusi strepitando come un'ossessa ogni volta che la esorto ad ammirare il paesaggio che scorre sotto di noi. Per fortuna l'immenso panorama a 360° che mi aspetta sulla cima mi ripaga abbondantemente dei suoi isterismi.
Tornati a Banff, entriamo in una paninoteca per fare uno spuntino, ma di lì a poco veniamo invitati a uscire perché si è sviluppato un incendio nel retro. Dopo pochi minuti giunge un attrezzatissimo camion dei vigili del fuoco che in breve e con grande efficienza domano le fiamme. Riporto l'episodio come occasione per citare quell'autentica istituzione che in tutto il Canada sono i pompieri: è frequente vedere in bella evidenza i loro camion, alcuni rossi e altri cromati che, sempre tirati a lucido, sono l'orgoglio anche delle cittadine più piccole e costituiscono uno spettacolo a sè.
lmpieghiamo il resto della giornata girando per i negozietti e i centri commerciali della cittadina e recandoci poi nella zona a sud del centro: qui spiccano uno splendido terreno di golf immerso tra gli alberi ai bordi del quale scorrazzano gli scoiattoli e pascolano i wapiti (cervi canadesi) e il fiume Bow con l'omonima cascata, lungo la riva del quale, ai piedi dello scenografico Hotel Banff Springs, si svolge una bella passeggiata. Concludiamo la giornata cenando (sul piccante) in un animatissimo ristorante tex-mex.

7° giorno: BANFF - LAKE LOUISE E DINTORNI - BANFF (km. 266 / 1436)
In una giornata che ci riserverà condizioni meteorologiche alterne, partiamo da Banff percorrendo la Trans Canada Highway in direzione nord; dapprima le cime seghettate dei monti Sawback sulla destra con il Mount Castle (m.2766) a forma di fortezza, poi la mole stratificata del Mount Temple (m.3543) sulla sinistra dominano il tratto che conduce alla deviazione di 4 km. per Lake Louise.
Il lago, luogo tra i più visitati delle Rockies, è situato a quota 1731 tra poderose montagne e misura km. 2,4 x 1,2; la sua simmetria è accentuata dall'effetto specchio, con il monte Victoria (m.3464) sulla riva opposta e la massa dell'omonimo imponente ghiacciaio che sembra aggrappato in equilibrio instabile alla montagna. Diecimila anni fa esso si estendeva fino al sito dove sorge il fastoso Hotel Chateau Lake Louise; uno spuntino al suo buffet e una passeggiata attraverso i lussuosi saloni arricchiscono il nostro campionario umano di personaggi che sembrano usciti dalle soap-operas americane.
E' il momento di fare un inciso su uno dei fenomeni che con maggiore evidenza saltano agli occhi del turista europeo, quello dell'obesità: diffuso in maggioranza nel sesso femminile, presenta esempi che mi è difficile descrivere. La cosa non deve stupire, ove si considera come si alimenta la gente (mi ripeto, ma anche in questo il modello è statunitense), con abbondanza di fritti, dolci e bevande gassate gelate o roventi consumati a tutte le ore. Beppe Severgnini, nel suo acuto e godibile libro "Un italiano in America" interpreta la psicologia di questo e di altri comportamenti come una costante e inconscia "corsa all'accaparramento" per esorcizzare la paura della povertà; d'altra parte i beni di consumo nei supermercati sono presenti sempre in confezioni giganti, e a una considerazione del tipo "Sono solo, per me è troppo" la risposta sarebbe "E allora? Quello che ti avanza, lo butti via". Un'amica mi ha raccontato di avere chiesto delle supposte di glicerina in diverse farmacie di New York e averne reperito solo la scatola da cento pezzi!
Tornando all'obesità, dirò di avere cominciato a riprendere con la telecamera gli esemplari più clamorosi, anche per realizzare uno scherzoso campionario per la casistica di dietologo di Danilo, ma di avere dopo pochi giorni provato un imbarazzo che mi ha fatto desistere da questa pratica; d'altra parte i soggetti non sembrano accusare più di tanto le limitazioni che una mole smisurata dovrebbe comportare.
Ci dirigiamo poi al secondo dei tre laghi previsti nella giornata, il Moraine Lake, tramite una deviazione di 13+13 km. a sud di Lake Louise. Lo si raggiunge con una strada che risale la Bow Valley con belle vedute tra gli alberi del Mount Temple e dei Ten Peaks (o Wenkchemna, parola indiana che significa dieci). Il lago si trova a quota 1890 in posizione magnifica, che si apprezza ancora di più dalla sommità della frana che lo argina, cui si accede con una passeggiata di una decina di minuti: nonostante la giornata uggiosa, lo spettacolo delle sue acque smeraldine circondate da un lato dai Ten Peaks chiazzati di neve e dall'altro da una foresta di conifere che scende fino alla riva è tra i più affascinanti.
Tornati sulla Trans Canada Highway, raggiungiamo, 9 km a nord di Lake Louise, il Kicking Horse Pass (m.1647), che immette nel Parco di Yoho. Nel 1909 sul ripido versante ovest, per ovviare ai frequenti deragliamenti di treni, si riuscì a ridurre la pendenza praticando due tunnels dall'originale conformazione; il tracciato disegna un 8 e da un belvedere gli spettatori possono assistere a un singolare spettacolo, descritto anche in pannelli illustrativi: quando su questo tratto passa un treno (ho già detto che sono lunghissimi) sembra invece si tratti di due agli imbocchi della galleria su differenti livelli.
Ventotto chilometri oltre il passo, dopo avere superato un ponte naturale scavato sotto una roccia con curiose formazioni dalle acque del Kicking Horse River, si arriva al tranquillo Emerald Lake, che deve il nome al colore smeraldino delle sue acque glaciali. Anche questo paesaggio è attraente, con il lago circondato da belle montagne e attraversato da colorate barchette di pescatori; nei boschi che digradano dalle rive sono sparse splendide casette in legno, gioia dei vacanzieri che prediligono il contatto con la natura.
Sulla via del ritorno verso Banff si diparte la deviazione (13+13 km) per un'altra attrazione: le Takakkaw Falls, così chiamate perché il primo indiano che le vide esclamò "Takakkaw!" (come dire "Formidabile!"). Si tratta in effetti di una delle più alte e spettacolari cascate del Canada: un salto verticale di 384 metri, interrotto da un potente rimbalzo, precipita rimbombando dalla scogliera che domina la Yoho Valley. Un sentiero a piedi di una decina di minuti conduce presso la base della cascata, con splendida veduta dei due salti tra arbusti profumati, spruzzi d'acqua e micidiali zanzare (anche se quelle di stazza più impressionante rimangono quelle di Lake Louise, non meno di due centimetri, ali escluse!).
Concluso con soddisfazione il programma della giornata, che si sta velocemente rasserenando, riprendiamo la via del ritorno, lungo la quale abbiamo anche la piacevole sorpresa, giunti all'altezza della località sciistica di Lake Louise (più volte sede di gare di coppa del mondo), di trovare ancora in funzione, nonostante siano quasi le 19, la seggiovia di Whitehorn: essa protrae infatti il suo orario fino alle 21,30 (!) e, mentre saliamo verso la stazione superiore con vedute sempre più ampie sulle montagne circostanti e sul Lago Louise, mi viene da sorridere pensando a tutte le volte che, zaino in spalla, ho dovuto allungare il passo al termine di una gita per arrivare a questa o quella funivia dolomitica entro le 17 o 17,30 dell'ultima corsa.
Rientriamo infine a Banff per il secondo pernottamento nella cittadina.

8° giorno: BANFF - JASPER (km. 324 / 1770)
"Pezzo forte" dei 292 km. che separano Banff da Jasper è il tratto Lake Louise - Jasper, 233 chilometri noti anche come Icefield Parkway, la traversata dei campi di ghiaccio. La strada n. 93, tracciata espressamente per valorizzare le meraviglie delle Canadian Rockies, è preclusa al traffico pesante e scorre parallela all'asse della catena montuosa, costeggiando più di cento ghiacciai. Il visitatore è facilitato dall'abbondante segnaletica, dai numerosi pannelli illustrativi e da frequenti punti di osservazione attrezzati.
Un centinaio di chilometri dopo Banff, si staglia sulla nostra sinistra la mole del Crowfoot Glacier: si individuano chiaramente le due enormi "dita" di ghiaccio che spiccano sulla roccia; un pannello con fotografie mostra lo scenario com'era fino al 1917, quando non si era ancora staccato il terzo dito, che fece battezzare questo ghiacciaio "zampa di corvo". Ai suoi piedi si stende il Bow Lake, ma il tempo nebbioso ci preclude lo spettacolo dei monti che si specchiano nelle sue acque.
Poco oltre, superati i 2068 metri del Bow Pass, una stradina di un chilometro porta a un belvedere sulla valle del monte Mistaya, il cui fondo è occupato dalle acque blu-verde del Lago Peyto, a mio giudizio il più scenografico tra quelli visitati. Il punto di osservazione elevato contribuisce al fascino all'insieme, con la cerchia di montagne che, nonostante il cielo nuvoloso, si riflettono con nitidezza sulla superficie del lago.
Percorriamo ancora una trentina di chilometri attraverso la Mistaya Valley costellata da una serie di laghi con vedute sui monti Chephrem e Howse, fino a raggiungere il Mistaya Canyon: il fiume omonimo ha scavato nel calcare una gola stretta e sinuosa assai pittoresca con caratteristici scorci che si possono apprezzare percorrendo a piedi un sentiero di 400 metri.
Si passa ora nella valle del Saskatchewan del Nord; dopo l'incrocio con la strada n. 11, si costeggiano i monti Wilson e Cirrus, con vedute sui monti Survey, Erasmus e Amery. Si raggiunge così, grazie a un ampio tornante che da solo consente di guadagnare 430 metri di quota, il panoramico Sunwapta Pass (m.2035), che rappresenta l'ingresso del parco nazionale di Jasper. Ancora cinque chilometri dal passo ed eccoci al cospetto dell'Athabasca Glacier.
Dal piazzale dello Chalet Columbia Icefield si gode di una veduta eccezionale sul ghiacciaio che protende una lingua di 7 km. tra la piatta sommità del Mount Athabasca (m.2491) e la vetta dello Snow Dome (m.3456). Tutti i ghiacciai della Terra, ad eccezione di quelli della Patagonia, si ritirano progressivamente e questo non fa eccezione: un secolo fa copriva la sede stradale. Esso fa parte del Columbia Icefield, la maggiore calotta glaciale delle Montagne Rocciose (oltre 300 Kmq.) che si dirama in varie direzioni: basti pensare che dà origine al contempo al fiume Saskatchewan del Nord che sbocca nella Baia di Hudson, all'Athabasca che sfocia nell'Oceano Artico e alla Bush, affluente del Columbia che si getta nel Pacifico.
Prenotiamo immediatamente (dato l'affollamento, le partenze sono scaglionate ogni quarto d'ora) l'escursione in snowcoach: si tratta di grossi autoveicoli su sei ruote scolpite alte quanto una persona che, partendo dallo chalet ubicato a 1965 metri, risalgono il ghiacciaio fino a quota 2210, dove i gruppi di turisti vengono scaricati su uno spessore di trecento metri di ghiaccio. Il nostro automezzo è guidato con disinvoltura e grande energia da Sharon, una simpatica e ipervitaminica ragazza sui venticinque anni, prodiga di spiegazioni durante l'escursione e la sosta a terra. E' consentito camminare sulla superficie ma sconsigliato di allontanarsi troppo: infatti, al di là dello spazio battuto dai veicoli, sono abbondanti i crepacci, peraltro ben osservabili da breve distanza. L'esperienza, tra le più rappresentative del nostro viaggio, dura circa un'ora e un quarto e ci costa $ 20,50 a testa, cioè sulle 24.000 lire.
Una cinquantina di chilometri più avanti sempre seguendo la n. 93 si incrocia la strada di accesso (400 m.) per il belvedere sul salto superiore delle Sunwapta Falls: dopo avere aggirato un isolotto boscoso, il torrente si riversa improvvisamente in uno stretto canyon svoltando poi a gomito; un sentiero porta in tre quarti d'ora al salto inferiore, ma, dal momento che siamo ormai nel tardo pomeriggio e che il programma della giornata è stato piuttosto fitto, preferiamo puntare su Jasper, che dista altri cinquanta chilometri. Domani ci dedicheremo con comodo alle altre escursioni della zona: Athabasca Falls, strada del lago e del canyon Maligne, The Whistlers e Mount Edith Cavell.
Questo tratto ci consente tra l'altro di scorgere sul bordo della strada diversi branchi di wapiti e per la prima volta un orso, che passeggia tranquillamente nel sottobosco non lontano dalla sede stradale. Il plantigrado si scompone il minimo indispensabile per allontanarsi solo quando il turista balordo di turno si dà al suo inseguimento per fotografarlo più da vicino.
Jasper è con Banff (rispetto a questa piacevolmente meno mondana) la principale località di villeggiatura delle Rockies (circa 3200 abitanti), in grado di offrire le strutture adeguate alla sua rinomanza; è ubicata nella valle dell'Athabasca alla confluenza con la Miette nel sito che durante l'ultima glaciazione era occupato da un lago lungo circa 80 chilometri del quale sono rimasti numerosi specchi d'acqua che disseminano la zona. La struttura presso la quale abbiamo prenotato due pernottamenti è il Tonquin Inn, vasto complesso alberghiero dotato di ogni comodità; preso possesso dell'ampio appartamento a noi destinato, accendiamo il televisore alla ricerca delle previsioni meteorologiche (per domani non sono molto buone) e scatena la nostra ilarità lo scoprire un canale che trasmette la versione americana de "La ruota della fortuna" (questa è probabilmente l'originale), del tutto identica a quella di Mike Bongiorno! Soprassediamo immediatamente e approfittiamo della piscina coperta riservata agli ospiti per smaltire con una bella nuotata le fatiche del viaggio.

9° giorno: JASPER E DINTORNI (km. 190 / 1960)
Con tempo ancora incerto ripercorriamo a ritroso la strada n. 93 per una trentina i chilometri per raggiungere il primo punto d'interesse della giornata. Si tratta delle Athabasca Falls, formate dalle acque del fiume omonimo, qui particolarmente impetuose, che precipitano in una gola spettacolare dalle pareti sfogliate; un percorso facilitato da passerelle consente belle vedute del canyon, mentre possiamo avere un'idea di quanto il corso dell'Athabasca sia in continuo mutamento addentrandoci in una forra, ora asciutta, antico letto del fiume prima che l'ennesima frana lo deviasse nella sede attuale.
Rientriamo poi ancora su Jasper per imboccare in direzione sud-est la strada del Maligne River (n. 16), che tutte le guide raccomandano come una delle escursioni da non mancare nel corso di un viaggio in Canada (48+48 km.).
La singolare denominazione risale ai tempi dell'epopea delle pellicce, quando i cacciatori lo battezzarono così per via delle pericolose correnti. Si può subito farsene un'idea dopo sei chilometri addentrandosi nel Maligne Canyon: si tratta della più lunga e spettacolare tra le gole del parco, profonda circa cinquanta metri e stretta in certi punti meno di tre, che si apre all'improvviso nella foresta. Un sentiero di circa 45' A/R e diversi ponticelli permettono di scavalcarne e costeggiarne le due rive discendendo il corso del fiume fino dove questo, allargandosi, diviene meno tumultuoso, consentendo anche di praticare il rafting. Tra un susseguirsi di cascate, imponenti marmitte dei giganti ed enormi massi che creano diramazioni nella corrente con un rimbombo a tratti assordante, si può veramente apprezzare la natura in una delle massime manifestazioni.
Più avanti la strada costeggia per sei chilometri il Medicine Lake, che però in questa stagione, data la natura calcarea del terreno, si abbassa parecchio di livello, perdendo buona parte della sua attrattiva.
Arrivati al termine della strada, sulla punta nord del Maligne Lake, incomincia a piovigginare. Il lago, lungo 22 km. e largo 1,5, offre molti spunti di interesse: dalla cerchia delle montagne circostanti al colore cangiante delle sue acque, all'isola Spirit sormontata da un caratteristico gruppo di alberi, il tutto a costituire uno degli scenari più celebrati di tutte le Rockies. Un'escursione in battello della durata di due ore consente di apprezzare al meglio queste bellezze; senonché, data la brutta piega che hanno preso le condizioni meteo, preferiamo, a malincuore e dopo qualche esitazione, rinunciare alla crociera e rientrare nuovamente a Jasper.
Ci dirigiamo ora alla volta del Mount Whistlers: una strada di otto chilometri porta alla stazione di partenza della telecabina che porta poco sotto la vetta della montagna (m.2469), che deve il suo nome al fischio stridente (whistle) delle numerose marmotte che popolano i suoi fianchi.
Il tempo si sta rimettendo al bello e in breve si è concentrata alla partenza una folla di poco inferiore di quella di Sulphur Mountain a Banff; ultimata la nostra parte di coda, guadagniamo così la sommità, dalla quale si gode un panorama estesissimo sul sito di Jasper, 1200 metri più in basso, sulle catene montuose Maligne e Queen e sul corso della Miette e dell'Athabasca che scorrono nella pianura alluvionale con ampi meandri intervallati da numerosi laghi. Il luogo è allietato dalle già citate marmotte, che sembrano presidiare ogni elevazione, e da socievolissimi scoiattoli che scorrazzano tra le gambe della gente.
Anche la giornata di oggi, che conclude la nostra prima settimana canadese, sta volgendo al termine, per cui, avvicinandosi l'ora di cena, prendiamo la via del ritorno.
Né io né i miei quattro compagni di viaggio, pur convinti estimatori della cucina mediterranea, rientriamo nella categoria degli italiani che dopo qualche giorno all'estero vanno in crisi di astinenza da pastasciutta. Senonché, data la disponibilità nel nostro appartamento di una completa attrezzatura da cucina e la presenza in città di alcuni supermercati e di una fornita enoteca, decidiamo di celebrare l'imminente addio alle Montagne Rocciose allestendo una italianissima spaghettata.
Mentre il resto del gruppo rientra al Tonquin Inn per un tuffo in piscina, io e Gabriella ci rechiamo nel più vicino supermarket alla ricerca degli ingredienti. Capiamo subito che dovremo improvvisare: la pasta, come già avevamo appurato in altre occasioni, è bene o male presente, anche se di grano tenero; scegliamo il formato "Rotini" (noi li chiamiamo fusilli) della spettabile "Unico", un pastificio con sede nell'Ontario; il formato disponibile è il pacco da nove etti (vale a dire due libbre). Troviamo con facilità anche pomodori pelati in scatola non molto differenti dai nostri e prendiamo anche del tonno e delle olive per dare un po' di dignità al sugo; una pura chimera il basilico (sweet basil), irreperibili prezzemolo (parsley), rosmarino (rosemary), origano (wild majoram) e aglio (garlic), intraprendiamo la ricerca dell'olio: stiamo per arrenderci quando scoviamo in fondo allo scaffale più basso, in triste solitudine, una bottiglietta in plastica da mezzo litro di Vegetable oil non meglio identificato che, in mancanza di alternative, ci rassegniamo ad acquistare.
La nostra arte culinaria riesce comunque a spremere il meglio da questi discutibili ingredienti e, benché l'olio si limiti a ungere senza insaporire, le olive abbiano un gusto misterioso e la pasta venga salvata dallo spappolamento solo grazie alla nostra maestria di italiani, la cena risulta apprezzabile e non un solo "rotino" viene avanzato. Una piacevole sorpresa è invece il vino, un rosso "Mission Ridge" della Valle dell'Okanagan che riesce a reggere il confronto con i vini italiani o francesi.

10° giorno: JASPER - MOUNT CAVELL - VANDERHOOF (km. 546 / 2506)
Per completare la conoscenza degli aspetti più salienti della regione di Jasper e quindi delle Canadian Rockies prima di lasciare i grandi parchi e puntare in direzione Ovest, manca ancora l'itinerario del Monte Edith Cavell; l'escursione ci impone un altro "vai-e-vieni" di 27+27 chilometri in direzione sud lungo la strada 93.
Il lettore attento avrà notato che più volte in questi quattro giorni abbiamo percorso tratti obbligati di andata e ritorno: la cosa è del resto inevitabile, tenendo conto che, trattandosi di strade tracciate appositamente per il turismo, hanno perlopiù termine all'altezza di un parcheggio in prossimità di questa o di quella attrazione, con possibilità di rientro solo per la stessa via; per mantenere poi le auto a una certa distanza da siti di grande interesse naturalistico, le visite richiedono di solito un breve tragitto a piedi.
La strada panoramica, stretta e a tornanti, percorre la valle dell'Astoria e, dopo una bella vista sul Lake Cavell, sbocca in un ampio circo di alta montagna dominato dalla tozza mole piramidale innevata (m.3363) del Mount Edith Cavell: la denominazione ricorda un'infermiera giustiziata dai Tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale per avere aiutato dei soldati alleati a fuggire dal Belgio occupato.
Dal parcheggio è assai remunerativa la passeggiata lungo un sentiero (un'ora A/R), che porta ai piedi del versante nord del monte, sul quale, in scenografico contrasto con le rocce rossicce, spicca l'Angel Glacier, che ha effettivamente la forma di un angelo dalle ali spiegate. Ai piedi della montagna giace una grossa morena sotto la quale si distingue con chiarezza una massa di ghiaccio azzurrino che dà origine a un suggestivo laghetto dalle acque verdastre su cui galleggiano blocchi che sembrano icebergs in miniatura.
Rientriamo per l'ultima volta a Jasper, che questa volta lasciamo veramente dirigendo in direzione Ovest. Ci attende la Yellowhead Highway, la mitica n. 16 che collega Winnipeg a Prince Rupert, sulla costa del Pacifico. Il curioso nome della strada fa riferimento al leggendario Tête Jaune, indiano irochese dai capelli biondi che teneva la stazione di posta di Jasper nel 1814 e che aveva un nascondiglio di pelli e provviste presso il colle che segna il confine tra Alberta e British Columbia e che da lui prese il nome di Yellowhead Pass.
Superati i 1131 metri del valico dopo 24 chilometri da Jasper e arretrati di un'ora gli orologi, costeggiamo sulla sinistra il Moose Lake per 12 km. raggiungendo poi dopo altri 51 un bel pianoro erboso (ristorante, ufficio turistico, area attrezzata tra gli alberi) ai piedi del Mount Robson (m. 3954, di cui 3000 dominano direttamente la vallata), punto culminante delle Rockies canadesi. I suoi fianchi conici scavati dall'erosione sembrano ricavati da uno stampo, mentre la cima, come spesso accade, è sormontata da un cappello di nuvole.
Lasciata definitivamente la regione delle grandi montagne, cominciamo il tratto di oltre 700 chilometri della Yellowhead Hwy. da qui a New Hazelton sul quale, in fase di programmazione del viaggio, non eravamo riusciti, nonostante l'abbondanza di materiale illustrativo raccolto tramite posta, uffici turistici e consolato, ad apprendere quasi nulla.
Ci renderemo conto che in effetti il percorso non offre spunti di grande interesse, pur sviluppandosi in un contesto di natura sempre piacevole, e, data anche la distanza non indifferente, risulta piuttosto monotono. Le località, se così possiamo chiamarle, che tocchiamo, sono luoghi che ci sentiamo di classificare come posti tappa, essendo per lo più l'insieme di un grosso piazzale sul quale si affacciano una stazione di servizio / autofficina, un supermercato, qualche fast-food / motel e di alcune strade laterali su cui prospettano le abitazioni dei residenti, impiegati negli esercizi di cui sopra o nelle industrie connesse al legname. Tra l'altro questi centri sono situati lungo la strada a una distanza più o meno regolare l'uno dall'altro e c'è da pensare che i nuclei originari siano in effetti sorti come stazioni di posta ai tempi dell'epopea dell'oro e delle pellicce ad opera dei pionieri che si spingevano in direzione dell'allora ignoto lontano Ovest (Far West).
Notiamo che la sostanza non è poi cambiata molto: allora erano luoghi attrezzati per le esigenze dell'uomo e del suo cavallo, oggi è la volta dell'uomo e della sua automobile.
Il tratto di 275 chilometri tra Tête Jaune Cache e Prince George corre per buona parte parallelamente al fiume Fraser e alla linea ferroviaria. Nella zona di McBride (166 km. da Jasper) colpiscono l'attenzione ampi spazi sui quali vengono costruite basse case assemblando le assi in legno che rappresentano la merce prevalente trasportata dagli enormi trucks che fin dal primo giorno abbiamo visto attraversare il Paese. Si tratta di case che si prestano ad essere traslocate intere su giganteschi automezzi specializzati, pratica piuttosto diffusa benché non diano la sensazione di grande robustezza.
Una sessantina di chilometri prima di Prince George sostiamo brevemente per uno spuntino al Purden Lake Resort, presso il lago omonimo (che non si vede): un posteggio di camions, due baracche pretenziosamente definite alloggi, uno sfasciacarrozze, un chiosco-ristoro in legno che sta in piedi in barba alle leggi della fisica. Cito il luogo solo per la singolare presenza di sciami di colibrì che vengono a dissetarsi e di una volpe che attraversa fulmineamente lo spiazzo con in bocca qualcosa che ha appena sgraffignato.
Prince George è l'unico centro di qualche importanza che si incontra tra Jasper e la costa del Pacifico, non fosse altro perché costituisce l'incrocio tra due importanti arterie, la Yellowhead Hwy. che stiamo percorrendo e la strada n. 97 che la interseca in senso nord-sud; è curioso il fatto che essa cambi nome tre volte: è la Alasca Highway fino a Dawson Creek, da qui a Prince George diventa John Hart Highway per prendere poi la denominazione di Cariboo Highway fino a Cache Creek (vi passammo il 4° giorno) dove si salda con la n. 1.
Non avendo la cittadina altri spunti di interesse, tiriamo dritto per altri 97 chilometri, vale a dire fino a Vanderhoof, dove ci fermiamo solo perché è l'ora di cenare e di cercare un alloggio. In una serata particolarmente calda, troviamo una buona soluzione per la cena: è un locale con la formula del prezzo fisso (in questo caso $ 8,99, il dollaro canadese, forse non l'ho ancora detto, oscilla sulle 1200 lire) che consente di consumare a buffet tutto quello che si vuole: visto il buon assortimento dei piatti, tra cui non mancano preparazioni a base di riso e salads assortite, sarà anche in altre occasioni un'àncora di salvezza contro i "frittivendoli" delle varie catene Subway, A & W, Husky; la loro capostipite McDonalds ha invece da qualche tempo "aperto" alle pizze (anche se abbinano prosciutto e ananas) e alle insalate, anche di pasta. Ci sistemiamo infine in un motel in posizione tranquilla un paio di chilometri fuori dal centro per L. 33.000 a testa.

11° giorno: VANDERHOOF - NEW HAZELTON (km. 492 / 2998)
Prima di partire da Vanderhoof, facciamo in auto un breve giro della cittadina, per farci almeno un'idea delle caratteristiche della vita quotidiana in un tipico centro di provincia. Il modello è al solito quello statunitense, con le casette tutte simili, davanti a giardinetti tutti simili dove sono posteggiate automobili sempre di grossa cilindrata e/o pickups tutti simili.
Notiamo anche la presenza, curiosa per una località che conta poche migliaia di abitanti, di non meno di cinque o sei chiese dei culti più svariati.
Ci rendiamo anche conto di come la lingua inglese-americana scritta, in particolare nelle insegne e nelle indicazioni, tenda a una evoluzione (che poi è una involuzione) nella direzione di una sintesi sempre più spinta, fino a esprimersi con forme che talvolta richiedono per la loro decifrazione un'intuito da enigmista. Tra le più semplici, Market è ormai diventato Mart, Shoppe ha soppiantato Shopping, il numero 2 è usato al posto di to e too e il 4 al posto di for: esemplari i cartelli "4 sel" (anziché "For sale") sulle auto o davanti alle case in vendita.
Lasciata Vanderhoof, imbocchiamo subito la deviazione sulla strada n. 27 che porta a Fort St.James (km. 66+66). La località (2000 abitanti) vive oggi delle attività forestali, ma nell'ottocento rivestì grande importanza come stazione di traffico prima della Compagnia del Nord-Ovest e dal 1821 al 1971 della Compagnia della Baia di Hudson. Le attività dell'epoca sono rievocate nel Fort St.James National Historic Site, dove una visita guidata di un'ora e mezza conduce ai vari edifici perfettamente arredati, nei quali si aggirano figuranti in costume intenti alle attività quotidiane: la casa dell'intendente, la latteria, le abitazioni, la dispensa edificata su palafitte con tanto di salmoni appesi a essiccare e il magazzino delle pellicce. Per restituire al forte l'aspetto del 1890 è stato meticolosamente ricostruito l'emporio, con il bancone completo di tutto il materiale, spesso curioso, in vendita: coperte, abiti, fucili, trappole, stoviglie, chincaglieria, combustibili, medicinali, calzature, attrezzi.
Ultimiamo la visita al sito, in un alternarsi di spruzzi di pioggia e schiarite, verso le tredici, per cui, dato che questa sera vogliamo pernottare a New Hazelton, che dista ancora 400 chilometri, ritorniamo sulla n. 16 e riprendiamo il viaggio verso Ovest: il tratto non offre grosse attrattive e potremo quindi limitare le soste all'essenziale.
La strada corre quasi sempre parallelamente alla linea ferroviaria e al fiume, che è l'Endako River fino a Houston (km. 209 da Vanderhoof), dove sfocia nel Bulkley. La valle di questo fiume ci riserva piacevoli paesaggi e, dopo avere superato Smithers, giungiamo a New Hazelton all'ora di cena. Troviamo subito alloggio in un buon motel (L. 32.000 a testa), il cui gestore, una specie di giramondo poliglotta di mezza età nato per caso a Gerusalemme, mi attacca un bottone micidiale; tra le altre cose, esclamando più volte "Many mosquitos!", afferma che per le zanzare questa è un'annata di eccezionale proliferazione.
New Hazelton sorge in pratica alla confluenza del Bulkley con lo Skeena e costituisce la porta d'ingresso alla zona dei villaggi degli indiani Gitksan. La condizione di questo popolo, che viveva tradizionalmente di salmoni e di bacche essiccate che erano scambiati nei villaggi costieri con frutti di mare, variò verso il 1870, quando, dopo essere diventati trappers, subirono la cosiddetta civilizzazione da parte dei missionari: furono abbattuti i totems e proibite le feste tradizionali soffocando così la spiritualità di una civiltà tanto ricca e prospera.
Solo a partire dal 1950 i Gitksan (=popolo dello Skeena) decisero di valorizzare la cultura ancestrale in parte conservata grazie al loro isolamento creando un museo vivente dove i figli potessero conservare le tradizioni: nacque così il villaggio di 'Ksan (nome indiano dello Skeena), oggi centro di cultura e attrazione turistica.
La presenza indiana si può notare anche nei locali e nelle strade di New Hazelton, che io e Walter visitiamo brevemente nella serata; anche se sono facilmente riconoscibili dalla carnagione olivastra e mantengono spesso i capelli lunghi raccolti in una o due trecce, essi sono ormai integrati vestendo jeans e giubbotti di pelle e svolgono in prevalenza attività pesanti.
Domani dedicheremo la maggior parte della giornata alla visita dei villaggi indiani: sarà un po' come entrare in uno dei miti della nostra infanzia, sarà un'emozione o ne rimarremo delusi?

Sarà l'inizio della seconda parte di questo resoconto di viaggio, con titolo "Dal Pacifico all'Atlantico".

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